Vedi AFFRESCO dell'anno: 1958 - 1994
AFFRESCO
Derivazione da a fresco, ossia pittura eseguita su intonaco ancora fresco. I colori vengono fissati non dalla loro penetrazione nella porosità della parete agevolata dall'intonaco umido, come talvolta erroneamente è stato detto, ma dalla reazione della calce spenta, contenuta nell'intonaco, con l'anidride carbonica dell'atmosfera, che dà luogo ad una sottile pellicola di carbonato di calcio, la quale fissa i colori in maniera permanente.
La tecnica della pittura a fresco fu assai diffusa nell'antichità. Ma nell'Oriente mediterraneo (Egitto, Egeo, Asia Minore) - e probabilmente quindi anche in Grecia - la tecnica fu totalmente diversa da quella praticata più tardi, in età ed in ambiente romani, per quanto riguarda la maniera di esecuzione, pur rimanendo il principio il medesimo. Infatti sia in Egitto che nelle regioni sotto l'influsso della civiltà cretese-micenea, come pure nelle regioni dell'Asia Minore fino alla Mesopotamia, si preparava la superficie da dipingere spalmando la parete con un sottile strato di rena mista a calce, oppure di argilla successivamente scialbata con una mano di latte di calce; quindi si dipingeva prima che la preparazione si asciugasse. A Till Barsip, in pitture dell'VIII-VII sec. a. C., fu riscontrata, nell'intonaco, anche una certa quantità di paglia tritata, postavi evidentemente per impedire che questo, che formava uno strato sottilissimo, asciugandosi si screpolasse danneggiando la pittura. Osservazioni simili si sono potute fare per gli a. di Alalakh (Tell Açana), nell'Alta Siria, della prima metà del II millennio a. C. Questo procedimento rimase così vivo in Oriente che ancora lo ritroviamo in India, a Bāmiyān e a Ajanta, nel tardo periodo Āndhra (v.) e nel periodo Gupta (v.). La superficie del muro veniva rivestita con un primo strato di creta o di sterco di vacca mischiato a crini o a paglia tritati. Su questo strato, livellato e levigato, veniva disteso uno strato di gesso su cui veniva eseguita la pittura. Non si tratta quindi in India di veri e proprî a., benché la pittura fosse eseguita quando l'intonaco era umido. Nelle pitture egiziane la tecnica risulta identica a quella descritta, salvo che nell'uso di associare la paglia all'intonaco. Sui dipinti cretesi-micenei sono stati compiuti studi particolari i quali concordano nei risultati delle indagini fisico-chimiche (condotte su campioni prelevati a Cnosso, Festo, Tirinto e Micene, ossia provenienti dalle città pittoricamente più significative). Dai campioni prelevati alcuni studiosi hanno dimostrato la presenza di un tenue velo di carbonato di calcio soprastante al colore. Rimosso il sottile strato di questo sale, il colore sottostante appariva intatto. Con la massima probabilità quindi la tecnica usata fu quella dell'affresco.
In Grecia la sparizione di tutta l'antica pittura murale non permette indagini sicure sulle tecniche usate; talché vi è persino chi dubita, interpretando alcune espressioni di Pausania e di Luciano, che le pitture di Polignoto nella Pinacoteca fossero su tavola e non su muro. Ma non sembra probabile che in Grecia non si usasse una tecnica che era conosciuta nel paese sin dai tempi della civiltà cretese e che continuava ad essere praticata in tutti i paesi del Mediterraneo orientale.
In Etruria la pittura murale a fresco è documentata largamente dagli scavi e dai ritrovamenti fortuiti in numerosi centri, e principalmente a Tarquinia, a Veio, a Cerveteri, a Chiusi, a Orvieto e a Vulci. Lavori di restauro, recentemente eseguiti, hanno dimostrato in maniera inequivocabile che la tecnica usata è, nella grande generalità, l'affresco. Qualche caso, come ad esempio la decorazione pittorica della Tomba del Barone a Tarquinia, è dubbio. Nelle tombe più antiche lo strato di preparazione è sottilissimo, appena qualche millimetro (anzi nella Tomba delle Bighe esso era di solo un mezzo mm, e, per giunta, di argilla mista all'1% di torba, con un procedimento analogo a quello usato, come abbiamo visto, in Oriente); su di esso era steso un tenue velo di calce che serviva a fissare i colori. In altre tombe, di poco posteriori ma di maestranze sicuramente locali, la preparazione era composta di sabbia e di calce ben pestate, ed era distesa in modo da offrire una superficie il più possibile liscia alla pittura. Nelle tombe arcaiche di Chiusi la calce era mista a creta diluita. Con le tombe del periodo ellenistico compare un vero e proprio intonaco, distinto anche in più strati, il primo dei quali costituisce un vero e proprio arriccio, mentre, su quello più superficiale, veniva condotta la pittura. Ne offre un esempio tipico la Tomba del Cardinale a Tarquinia (v. Etrusca, arte).
La perfezione tecnica fu raggiunta in età romana; l'esemplificazione ne è, fortunatamente, larghissima e ad essa si aggiungono particolari trattazioni in proposito degli antichi scrittori (Plinio, Vitruvio).
Vitruvio (De arch., vii) spiega minutamente come si debba preparare un muro e come vi si debba stendere la pittura: "Terminate le cornici si intonachino le pareti in modo che risultino ruvide, (è quello che oggi si chiama arricciare) Cominciando ad asciugarsi il primo strato, se ne stenda un secondo ed un terzo. Così, quanto più sarà profonda la spalmatura di malta, tanto più reggerà alla vecchiezza la solidità del rivestimento. Passata la malta almeno in tre strati, oltre alla stabilitura, bisogna stendere degli strati di polvere di marmo, finché la malta sia così spremuta da non aderire più alla cazzuola. Steso questo primo strato e mentre asciuga, se ne stenda un secondo di medio spessore, e quando sia ben spremuto e levigato se ne stenda un terzo più sottile. Rivestita così la parete di un triplice strato di arriccio e di un triplice strato di intonaco, essa non potrà subire danni né dal freddo né da altra causa; ma, rafforzata la solidità mediante una battitura, levigato il marmo fino a farlo rilucere, i colori lucidati risulteranno splendenti. Quindi i colori, diligentemente spalmati sull'intonaco ancora umido, non si staccheranno ma rimarranno permanentemente fissati... Pertanto gli intonaci, se ben eseguiti, non si screpoleranno per vecchiaia, né lasceranno cadere il colore anche se li si laverà, a meno che il lavoro sia stato eseguito affrettatamente o i colori siano stati spalmati sull'intonaco asciutto... Infatti, se si dipinge su di un solo strato di arriccio e su di un solo strato di intonaco, per il lieve spessore del supporto si screpolano le superfici e non si può ottenere una bella lucidatura per mancanza di umidità sufficiente...". Seguono poi le descrizioni dei colori, ma non sono date norme speciali per il loro uso negli a., tranne che per il minio (cinabro), per il quale si avverte che annerisce se esposto alla luce del sole o della luna. Per i colori sono molto più importanti le notizie che ne dà Plinio in vari libri della sua Naturalis historia, descrivendone esattamente le caratteristiche naturali e di impiego e i surrogati eventuali di colori costosi o difficili ad ottenere. Plinio precisa anche quali colori sopportino il contatto con la calce e quali lo ricusino, come il purpurisso, l'indaco, il ceruleo, il melino, l'orpimento, l'appiano e la cerussa (Nat. hist., xxxv, 49). Infine, sia l'uno che l'altro autore ricordano la protezione dei colon per mezzo di una verniciatura a cera che si dava specie nel caso di dipinti esposti alle intemperie, a somiglianza della gànosis delle statue (Plin., Nat. hist., xxxiii, 40 e Vitr., vii, 9). Il procedimento consisteva nello spalmare la parete, ormai dipinta ed asciutta, di cera pontica diluita con olio e leggermente calda, di costringerla a penetrare nelle porosità dell'intonaco mediante il calore applicato con un cauterio e nel lucidarla infine strofinandola con panni di lino. Un altro passo dell'opera pliniana (xxi, 49) chiarisce che il procedimento della gànosis non era riservato a qualche speciale colore ma serviva a tutelare ogni genere di pittura murale. Le testimonianze di Plinio e di Vitruvio, confrontate con le pitture giunte fino a noi, e in special modo con quelle pompeiane, hanno dato luogo ad una infinita varietà di ipotesi, che sono però quasi sempre viziate da un pregiudizio, e cioè quello di trovarsi di fronte ad una sola tecnica, usata in tutte le pitture murali pompeiane, anzi in tutte le pitture murali romane. Queste ipotesi, cioè, tendono a generalizzare l'osservazione di una singola esperienza per renderla valida in tutto il vasto campo della pittura murale. Vi sono così taluni che, a causa della verniciatura a cera, considerano tutto come encausto e quindi negano l'esistenza dell'a.; vi sono altri che parlano di un "fresco-secco", con evidente contraddizione nello stesso termine usato, riferendosi probabilmente a ritocchi a corpo dati sull'affresco. Infine vi è chi ritiene tutte le pitture romane una specie di tempera con varî media o glutini e vari procedimenti di esecuzione. Ciò può verificarsi in qualche caso, ma non può essere sempre vero. Intanto osserviamo che anche il procedimento descritto da Vitruvio è un procedimento singolo, che è relativo al tempo e all'ambiente conosciuto dall'autore e che non esclude la possibilità di altri metodi di esecuzione, per quanto il termine stesso di a. postuli una pittura con i colori fissati dalla reazione della calce umida.
In molte pitture sono stati osservati i principi struttivi enunciati da Vitruvio. Prendiamo ad esempio quelle della Casa di Livia (sul Palatino) e quella della casa rinvenuta sotto la Farnesina (oggi al Museo Naz. Romano). Quivi l'intonaco appare costituito da sei strati, che sono stati anche isolati nel corso delle operazioni di indagine e di restauro: i primi tre sono composti di sabbia, pozzolana e calce, gli ultimi tre di sabbia, polvere di marmo e calce. Gli strati dal quarto al sesto andavano successivamente diminuendo di spessore, fino all'ultimo che era sottilissimo. Nella Casa di Livia, inoltre, è da osservare come alla polvere di marmo fosse stata sostituita la polvere di alabastro, la quale, esaminata al microscopio, nello strato più superficiale presentava tracce di arrotatura meccanica, precisamente quella che era stata ottenuta mediante lo sfregamento della cazzuola metallica per ottenere un bel fondo lucido. In tali pitture si deve anche notare che il colore di fondo non era dato a pennello, ma impastato con l'ultimo strato di intonaco, così da essere lucidato con il medesimo processo usato per quello. In queste pitture, come in molte altre distaccate dal muro in questi ultimi anni (Casa dei Grifi, Aula Isiaca, Casa della Farnesina, ecc.), sono state riconosciute le "giornate di lavoro", ossia quelle giunture di intonaco che corrispondono alla preparazione del lavoro per quel tanto di superficie che il pittore presume di poter dipingere nel tempo che l'intonaco medesimo resterà umido. Dette giunture sono eseguite alla perfezione, fino quasi a scomparire allo sguardo. Inoltre è da ricordare come in alcuni colori, ritrovati negli scavi dell'agorà di Atene, all'analisi appaia dell'ossido di calce misto alla sostanza colorante, che sta ad indicare la presenza di calce in essi, ossia del tipico medium dell'affresco. A Pompei e ad Ercolano, specie nell'interno delle stanze, si è riscontrato un minor numero di strati di intonaco, riducendosi talvolta questi all'arriccio più un solo strato di intonaco propriamente detto. Questo processo di semplificazione si accentua nella tarda età imperiale, così che nelle pitture rinvenute (nel 1953) a Roma sotto la stazione Termini, gli strati sono costantemente due, ma si notano anche qui le "giornate di lavoro". Nei secoli successivi al IV d. C. è poi ancor più frequente l'uso di ritocchi a tempera, come, ad esempio, negli a. di S. Maria Antiqua, nel Foro Romano.
Un altro procedimento, non descritto dagli autori, ma dedotto dall'osservazione delle pitture e dall'analisi di queste, e quello che fa unire ai colori una certa quantità di sapone o di lisciva, il che consente una lucidatura in tutto e per tutto simile alla gànosis nell'aspetto, ma senza l'uso delle cere che, alla lunga, si alterano. Anche con questo sistema, però, occorre dipingere sul muro umido e i colori sono fissati dal carbonato di calcio.
I colori usati in questo genere di a. sono tutti di origine minerale (terre), tranne il nero che può essere vegetale o animale. Anche fra i colori minerali ve ne sono però di meno adatti all'a., come per esempio il cinabro, chiamato anche minio dagli antichi, che si altera gravemente per effetto della luce. Gli a. risentono tuttavia i danni maggiori per effetto della eccessiva umidità che può far cessare la adesione dell'intonaco alla parete o produrre efflorescenze salnitrose, capaci di coprire i colori di una spessa patina bianca filamentosa. Anche le vernici a cera si alterano producendo una patina biancastra che finisce con l'offuscare completamente la visibilità dei colori.
Recentemente si è creduto di aver ritrovato la tecnica pittorica dell'encausto (v.). La Schiavi (Ritrovamento della tecnica pittorica greco romana ad encausto in "Atti e Memorie Accad. di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona", Serie vi, vol. viii, Verona 1957), sciogliendo cera vergine e soda (il natrum pliniano, cioè nitrum) su fuoco lento, ossia saponificando la cera, ottenne una materia solubile in acqua; impastò i colori con questa nuova materia e, infine, al dipinto, che potè essere su legno, tela, intonaco, metallo, vetro, ecc., avvicinò un fornello caldissimo. Ne risultò una superficie splendente analoga a quella di molte pitture antiche; nonchè la possibilità di trattare i colori assai diluiti, col pennello, o pastosi, con la paletta, e anche di sovrapporre colori pastosi, con un certo rilievo, su fondi già colorati. La mancanza di ulteriori riprove non consente di affermare ancora che il problema della tecnica antica sia stato definitivamente chiarito, ma gli argomenti addotti e le esperienze fatte appaiono per lo meno plausibili (v. Tavole a colori).
Bibl: A. Requeño, Saggi sul ristabilimento dell'antica arte dei greci e dei romani pittori, Parma 1787; J. F. John, Die Malerei der Alten, Berlino 1836; O. Donner, Die erhaltenen antiken Wandmalereien in technischer Beziehung, Lipsia 1869; E. Berger, Die Maltechnik des Altertums, Monaco 1904; E. Raehlmann, Ueber der Maltechnik der Alten, Lipsia 1910; A. P. Laurie, Greek and Roman Method of Painting, Londra 1910; A. Eibner, Wandmalerei, Monaco 1926; T. Venturini Papari, La pittura ad encausto al tempo di Augusto, Roma 1928; M. H. Swindler, Ancient Painting, New Haven 1929; G. Previati, Tecnica della pittura, Torino 1930; M. Pozzi, Relazione sopra la tecnica della pittura murale antica (relazione ms.), Napoli 1934; G. Malquori, Relazione sulle indagini sperimentali intorno alla tecnica delle antiche pitture parietali (ms.), Napoli 1942; S. Augusti, in Pompeiana, Raccolta di studi per il secondo centenario degli scavi di Pompei, Napoli 1950. Per la pittura micenea: Prentice-Duell, in Technical Studies, X, 1941-42, p. 179 ss. Per le pitture di Till Barsip: F. Thureau-Dangin-M. Dunand, Till Barsib, Parigi 1936, p. 42 ss. Per le pitture di Alalakh: L. Woolley, Alalakh, Oxford 1955, p. 228-234. Per le pitture di Ajanta: B. Rowland, The Art a. Architecture of India2, Harmondsworth 1956, p. 138. Per le pitture etrusche: M. Cagiano de Azevedo, in Boll. Ist. Centr. Rest., 1950, n. 2, p. 11 ss. Per gli intonaci e le pitture romane: G. E. Rizzo, Le pitture della casa di Livia, in Monum. della pitt. antica, Roma 1936; M. Cagiano de Azevedo, in Boll. d'Arte, XXXIV, 1949, p. 145.