AFFINITÀ (da affinis "confinante; affine"; fr. affinité; sp. afinidad; ted. Affinität; ingl. affinity)
Diritto. Termine che indica il vincolo tra un coniuge e i parenti dell'altro: non possono dirsi affini i coniugi fra di loro, né i parenti dei due coniugi. L'affinità non ha linee o gradi; tuttavia, per analogia con i gradi di parentela, vale la norma che si è affini con un coniuge nello stesso grado in cui si è consanguinei con l'altro.
Dal rapporto di affinità, riconosciuto in tutte le legislazioni antiche e moderne, derivano obblighi giuridici di varia indole, dei quali si tratta sotto la voce parentela.
Biologia. - Somiglianza che gli organismi presentano fra loro in maggiore o minor grado, e che si presume essere indice di maggiore o minor parentela reale. La classificazione degli animali e delle piante è fondata quasi esclusivamente sul grad0 di affinità morfologica. L'affinità gametica od affinità reale consiste nella facoltà delle cellule germinali, maschili e femminili, di dare origine a nuove cellule germinali, pure capaci di coniugarsi nelle successive generazioni, e si manifesta con la maturazione completa delle cellule germinali stesse; man mano che i plasmi specifici diventano più differenti ed incompatibili, la maturazione delle cellule germinali, uova e spermî, degli ibridi, si arresta a gradi distinti e si esprime colla sterilità di quelli (v. amissia).
Matematica. - Prende nome di affinità o omografia affine fra due piani o spazî la corrispondenza biunivoca che viene rappresentata da una sostituzione lineare intera sopra le coordinate cartesiane. Geometricamente l'affinità è caratterizzata dalla proprietà di trasformare le rette in rette e le rette parallele in rette ancora parallele (in guisa che si corrispondono gli elementi, rette o piani, all'infinito). Mentre una sostituzione lineare intera sull'ascissa dei punti di una retta dà luogo ad una similitudine, in cui è costante il rapporto di due elementi corrispondenti, invece per due piani ciò non accade più; qui due rette corrispondenti riescono sempre simili, ma il rapporto di similitudine varia colle rette stesse; resta invece costante il rapporto di due aree corrispondenti. Analogamente si dica nel caso dello spazio, dove resta costante il rapporto di due volumi corrispondenti.
La proprietà anzidetta viene utilizzata con profitto per il calcolo di alcune aree e volumi (aree dell'ellisse, settore parabolico, ecc.).
Le omografie affini che mutano un piano in sé stesso formano un gruppo che dipende da 6 parametri: entro questo è contenuto il sottogruppo a 5 parametri delle omografie affini equivalenti per cui il rapporto delle aree corrispondenti riesce uguale ad uno. Anche nello spazio le omografie affini equivalenti (conservanti i volumi) formano un sottogruppo entro il gruppo di tutte le affinità; e anzi questo sottogruppo si può caratterizzare come quello contenente tutte le omografie affini per cui il punto unito associato al piano all'infinito va a cadere sopra questo (infinitamente vicino a un altro punto unito): tale proprietà, che dipende dal numero dispari delle dimensioni dello spazio, non ha riscontro nel piano.
Aggiungiamo che la proprietà di conservare le aree o i volumi non caratterizza i gruppi delle affinità equivalenti nel piano o nello spazio, poiché questa proprietà definisce un gruppo di trasformazioni che porta il nome di Möbius e che è nello spazio il gruppo dei movimenti di un fluido incompressibile. Questo gruppo si può definire mediante le sue trasformazioni infinitesime
legate dall'equazione differenziale
onde appare che le trasformazioni di Möbius sono molto più generali delle affinità, dipendendo da infiniti parametri o da funzioni arbitrarie.
Per le più recenti ricerche di geometria differenziale affine, v. geometria.
Chimica. - Col nome di affinità s'intende oggi la causa che determina il decorso delle reazioni chimiche (e in generale di qualunque trasformazione fisico-chimica). L'affinità non si identifica affatto con la facilità e rapidità con cui esse reazioni hanno luogo effettivamente, perché la reagibilità chimica in generale varia assai con la temperatura, aumentando rapidamente col salire di essa, e riducendosi fino all'inerzia assoluta per un raffreddamento conveniente. Valga per esempio una miscela di ossigeno e idrogeno, che a temperatura ordinaria si conserva indefinitamente, come se i due gas non avessero alcuna affinità tra loro, mentre reagisce con violenta esplosione per un conveniente innalzamento di temperatura (fiamma, scintilla elettrica) o in presenza di certi catalizzatori, come la spugna di platino. E l'acqua che così viene a formarsi è una sostanza perfettamente stabile, che può scomporsi nei due elementi solo mediante un forte impiego di energia (corrente elettrica, o temperature sopra i 2500°), dimostrando così che l'affinità tende a far combinare i due gas e non a lasciarli coesistere separati. Delle modalità che regolano la velocità effettiva delle reazioni si tratta nell'articolo Cinetica chimica, mentre la teoria dell'affinità, di cui si tratterà qui, risponde alla questione: se, in condizioni opportune (temperatura abbastanza elevata, presenza di catalizzatori), una certa reazione può avvenire o no.
Cenni storici. - Il concetto di affinità (inteso come simpatia, tendenza ad unirsi) si ritrova già presso gli atomisti greci, quale causa che determinerebbe l'unione degli atomi, mentre la parola, riferita concretamente alla combinazione di due sostanze fra loro, si legge per la prima volta negli scritti di Alberto Magno (1193-1280). Ma bisogna arrivare ai tempi del chimico svedese Torbern Bergmann per sentir trattare (1775) dell'affinità in senso scientificamente definito. Egli partì dalla premessa che doveva presentarsi ad un pioniere in quel campo inesplorato: che cioè ogni composto dovesse la sua esistenza ad un'affinità fra i suoi componenti più o meno grande, ma costante e invariabile, in guisa che, ponendo a reagire fra loro varie sostanze, si formassero, in qualunque condizione di temperatura, stato fisico, ecc., quei nuovi composti di cui, in un caso speciale, si era constatata la formazione, a esclusione di qualunque altra reazione immaginabile.
Concetto semplice e chiaro, che, se confermato dall'esperienza, avrebbe permesso di prevedere, in base a relativamente pochi saggi, l'andamento di qualsiasi reazione. Così, stabilito l'ordine con cui alcuni acidi si spostavano dalle loro combinazioni con una data base (l'acido acetico spostando, mettiamo, l'acido carbonico dal carbonato sodico, e l'acido solforico spostando l'acetico dall'acetato), questo doveva valere per tutte le basi e in qualunque condizione, in modo da potersi stabilire delle tavole di affinità dove gli acidi e le basi si seguivano dal più forte al più debole. Ma presto apparve al Bergmann e ad altri che si misero per quella via, che le cose non eran così semplici: l'acido solforico, p. es., che in soluzione precipita facilmente il silicico dal silicato sodico, è a sua volta spostato dalla silice (acido silicico anidro) se questa è scaldata al calor rosso col solfato sodico. Si dovettero dunque stabilire tavole speciali per le temperature basse e per le alte, e successivamente si distinsero affinità di doppia decomposizione, di sostituzione, di dissoluzione. Tutte distinzioni, queste, che se avevano il vantaggio di raccoglier materiale e mostrare la complessità del problema, essendo puramente empiriche e non guidate da un'idea generale, poco o nulla contribuivano alla sua soluzione. Tolse la questione da questa direzione infeconda e diede un geniale concetto informativo il savoiardo Claudio Luigi Berthollet (1748-1822), che partì dall'idea di applicare alla chimica le leggi della meccanica cui, a quel tempo, il Laplace e specialmente l'italiano Lagrange davano compiuta forma matematica. Negli Études de statique chimique (1803), in cui riassunse i suoi studî, egli mostrò che quando le sostanze reagiscono fra loro in un sistema omogeneo (allo stato di soluzione) non si forma mai (come fino allora, invece, si riteneva) un gruppo esclusivo di composti a danno degli altri, ma si stabilisce uno stato intermedio, di equilibrio, in cui accanto ai prodotti finali sussiste inalterata una parte degli iniziali: l'ammontare per cui una sostanza si trasforma è determinato dalla sua massa attiva, nel senso che più una sostanza è abbondante, maggiore è la quantità che reagisce dando origine ad altre. Solo nei casi in cui una sostanza è gassosa o insolubile, in modo da essere obbligata a separarsi senza poter aumentare indefinitamente la sua massa attiva nella soluzione, essa si forma quantitativamente, poiché la reazione che le dà origine non può esser contrastata dalla controreazione. Si vede bene l'analogia di questi concetti così ampî con quelli della meccanica: si pensi a un sistema di molle a spirale che si tengono in equilibrio e in cui prevale l'effetto di quelle di cui si può introdurre e fare agire un numero maggiore di spirali, mentre, se qualcuna non è ben fissata e può scivolare sul suo sostegno, verrà respinta e cacciata via del tutto. Il Berthollet tuttavia fu indotto a esagerare le analogie meccaniche nei riguardi della massa, ammettendo che avesse maggiore affinità quella sostanza che aveva peso di combinazione (o equivalente) minore (il quale invece non ci ha niente a che fare), e che poi anche il prodotto finale della reazione, l'individuo chimico che se ne separa, avesse composizione variabile a seconda delle proporzioni delle sostanze reagenti. Questa è la negazione della legge delle proporzioni definite, che allora appunto si stava accertando; e il Berthollet finì coll'aver torto in una celebre discussione che egli ebbe in proposito col Proust. Le sue idee, che di troppo precorrevano i suoi tempi, non trovaron subito chi le riprendesse: l'opera dei chimici era troppo presa dalle leggi ponderali della stechiometria e dallo studio dei nuovi elementi e loro composti. Ma rimase il concetto fondamentale: che ogni discussione su l'affinità deve tener conto dell'azione di massa, e che a determinare il risultato finale delle reazioni contribuiscono anche le proprietà fisiche delle sostanze reagenti. Perciò ogni studio su gli equilibrî chimici giovò a far progredire il problema dell'affinità. E citiamo, fra altri, gli studî del Malaguti sulla precipitazione con alcool delle soluzioni saline miste; quelli di H. Rose sulla precipitazione idrolitica dei sali basici; quelli del Gladstone e del Jellet, che con tecnica che ha servito di modello investigarono gli equilibrî salini omogenei con metodi fisici; i celebri studî sulla dissociazione di H. Sainte-Claire Deville (1857-63), quelli, accurati ed estesi, di Berthelot e Péan de Saint Gilles sugli equilibrî e la cinetica della esterificazione (1862); gli studî su la velocità di reazione di Wilhelmy e di Harcourt ed Esson; lo stabilimento, infine, della forma precisa della legge di massa per opera dei norvegesi Guldberg e Waage (1864-67). Un riferimento diretto alla teoria dell'affinità ebbero gli studî termochimici del danese Julius Thomsen (che si era pure occupato degli equilibrî di ripartizione di una base fra due acidi), relativi, cioè, al calore che si svolge nelle reazioni (1853-82). In base al principio della conservazione dell'energia, intravisto da altri, enunciato poco prima (1842) da R. Mayer e dimostrato sperimentalmente da J. Joule (1850), quel calore deve provenire da una energia interna preesistente nel sistema, e il Thomsen ritenne di poterlo prendere come una misura quantitativa dell'affinità (1853). E poiché le reazioni, per definizione, devono andare nel senso delle affinità più intense, ne dedusse la conseguenza pratica che il senso delle reazioni sarebbe in ogni caso quello secondo cui ha luogo il massimo sviluppo di calore. Questi concetti hanno segnato un progresso essenziale nella evoluzione del concetto di affinità, poiché in tal modo, invece di apprezzarla dalla velocità con cui le sostanze reagiscono tra loro (la quale, come si è accennato, varia assai con le circostanze esterne), si cominciò a misurarla mediante proprietà intrinseche delle sostanze iniziali e finali, come appunto queste differenze nei loro contenuti in energia, che si rivelano nel calore di reazione. Più tardi, tuttavia, il Thomsen abbandonò questa formulazione così categorica, poiché riconobbe che non è conciliabile con l'esistenza degli equilibrî. Questi infatti, rappresentando reazioni incomplete, non corrispondono al massimo sviluppo di calore (che solo la reazione completa potrebbe dare); e poiché, inoltre, allo stato intermedio di equilibrio si può arrivare sia dal sistema iniziale sia dal finale, se nel primo senso si svolgeva calore, nel secondo, per la conservazione dell'energia, se ne assorbirà, in contraddizione completa con la regola. Le idee del Thomsen, tuttavia, furon riprese più tardi da M. Berthelot (1867), valentissimo termochimico egli pure, che le difese con ingegno e tenacia fino a che visse. Egli mostrò che quando tutte le sostanze reagenti sono solide, e perciò si separano allo stato puro, il principio del massimo sviluppo di calore vale, si può dire, senza eccezione, mentre le divergenze cominciano dove intervengono fenomeni di gassificazione, fusione, dissoluzione e i loro inversi, ovvero dove, per la forza dissociante della dissoluzione e delle temperature elevate, si stabiliscono equilibrî. Egli sostenne dunque che solo l'intervento dei fenomeni fisici o, in termini generali, di energie estranee (inclusa la temperatura), era quello che limitava la validità del principio. Ma, anche ammesse tali restrizioni, tutto ciò costituiva solo una difesa formale di esso, non già una soluzione del problema dell'affinità, che richiede informazioni sull'andamento delle reazioni così come avvengono, senza sottili distinzioni di portata quasi soltanto qualitativa; e questo fu obiettato, non sempre con moderazione, al Berthelot. In realtà, la vera soluzione si è avuta quando fu applicata ai processi chimici non la termochimica, ma la termodinamica, mediante gli studî teorici e sperimentali di Horstmann (1869), Helmholtz (1882), quelli teorici di Willard Gibbs (che ne diede un trattamento in un certo senso definitivo, ma di astratta generalità), e successivamente (limitandosi ai principali nomi) Le Chatelier (1888) e van't Hoff (1884). Questi, in particolare, propose di prendere come misura dell'affinità di una reazione la corrispondente variazione di energia libera, dandone così una definizione precisa, che è stata poi universalmente accettata. Recentemente infine W. Nernst (1906), formulando un nuovo principio termodinamico, ha riconnesso le antiche considerazioni termochimiche con le nuove termodinamiche, e in base a queste ha indicato una norma generale per dedurre l'andamento delle reazioni da sole grandezze caloriche e dalla temperatura a cui si svolgono.
Formule termochimiche. - Ricordiamo, anzitutto, le formule della termochimica, i cui dati, secondo Berthelot, dovevano bastare per la misura delle affinità, e che son pur sempre indispensahili pel calcolo termodinamico di questa. Quando una reazione decorre senza lavoro esterno (e cioè a volume costante - come nella bomba calorimetrica di Berthelot pel caso dei gas - mentre per i solidi e liquidi, dove le variazioni di volume son minime, basta operare a pressione atmosferica) il calore svolto, o tonalità Q, per la conservazione dell'energia, deve uguagliare la diminuzione dell'energia interna U (differenza fra la somma delle energie interne delle sostanze iniziali Ui e quella Uf delle finali), ossia
Se le sostanze partecipanti sono composti, ognuno può dedursi analogamente dalla somma delle energie interne E degli elementi che lo costituiscono, e dal suo calore di formazione a partire da questi q, secondo l'equazione
da cui;
Sostituendo nella (1) abbiamo allora
ovvero
(eliminandosi le energie interne degli elementi iniziali e finali, che sono evidentemente gli stessi). La tonalità di una reazione può dunque calcolarsi a priori se si conosce il calore di formazione di tutti i composti che vi partecipano (quello degli elementi che possano intervenirvi risultando naturalmente uguale a zero). Ecco un esempio numerico, dove le cifre sotto le formule rappresentano i calori di formazione (in piccole calorie), di una grammo molecola, a temperatura ordinaria:
Praticamente i calori di reazione son sempre misurati a temperatura ordinaria; ma se ne possono calcolare i valori per una temperatura qualsiasi tenendo presente che (al solito, per la conservazione dell'energia) l'energia interna di un composto o di un elemento alla temperatura assoluta T è data da
ovvero
se coll'indice 0 indichiamo il valore dell'energia allo zero assoluto. mentre Ce, C rappresentano le rispettive capacità caloriche (a volume costante, nel caso dei gas), tutte queste grandezze essendo riferite, al solito, a una gr. molecola di composto (o a un gr. atomo di elemento). Analogamente dalla (2) si ottiene, pel calore di reazione alla temperatura T:
Sotto forma differenziale le (3) e (4) divengono
Beninteso che queste formule non derivan sempre da misure dei calori specifici spinte sin verso lo 00 assoluto, ma possono essere formule empiriche, estrapolate fino a T = 0, da temperature assai superiori, purché nelle loro applicazioni non si discenda al disotto di queste. Quanto precede vale per la tonalità a volume costante; ma in pratica conviene spesso considerare le reazioni fra gas a pressione costante. Allora, per la conservazione dell'energia, il calore svolto Qp, oltre che dalla diminuzione di energia interna Ui − Uf, deriva anche dal lavoro esterno assorbito L (prodotto della pressione esterna costante p per la diminuzione di volume vi − vf nel passaggio dallo stato iniziale al finale), ossia
Questo calore, perciò, può considerarsi derivato dalla diminuzione di una somma di energie, interna ed esterna, espressa da
e chiamata talvolta funzione calorica. Se, al solito, ci si riferisce a una gr. molecola, si sa che per i gas è p v = R T e quindi, indicando con n il numero di molecole in reazione, la (5) diviene
e la (6):
da cui, secondo la (3), si deduce
ove C + R = c è, per note formule, il calore molecolare a pressione costante: e sarà pure
Determinazione termodinamica dell'affinità. - Dopo queste premesse, vediamo come occorre considerare la questione dal punto di vista della termodinamica. Il problema dell'affinità si riduce evidentemente a quello di saper fissare, con criterî adatti, la direzione di qualsiasi reazione. Ora il secondo principio della termodinamica insegna in generale che, per tutti quanti i processi dove interviene come fattore necessario una variazione dell'energia interna, la direzione secondo cui essi hanno luogo è quella nella quale con dispositivi opportuni (scelti in modo che il processo decorra reversibilmente) essi possono fornire lavoro. Perciò il massimo lavoro così ottenibile (e precisamente, per semplificare le relazioni ed eliminare l'influenza che essa ha su tutti questi processi, mantenendo costante la temperatura del sistema che si trasforma) è una misura diretta della tendenza che ha qualsiasi processo a svolgersi, e inoltre, astraendo dal rallentamento che tutte le reazioni subiscono quando la temperatura è troppo bassa, tra varie trasformazioni possibili dovrà prevalere quella dove il lavoro ottenibile è maggiore: la trasformazione poi si arresta quando il sistema è giunto a un tale stato da non poter fornire più lavoro, ma anzi da assorbirne se la trasformazione procedesse ulteriormente. Questo lavoro non equivale quasi mai alla diminuzione di energia interna del sistema durante il processo (ossia, non equivale al calore che il processo svilupperebbe se lo si facesse decorrere senza alcun lavoro esterno: tonalità Q delle reazioni chimiche), ma è in generale minore o in qualche caso maggiore, una parte dell'energia interna convertendosi anche allora (quando, cioè, si hanno le migliori condizioni possibili per convertirla in lavoro) in calore, o, in quei secondi casi, avendosi un certo assorbimento di calore a spese dell'ambiente esterno che è destinato a mantenere la temperatura costante. In formule, e coi segni già adottati, quando un processo decorre in modo reversibile e isotermo la diminuzione dell'energia interna − U è uguale al massimo lavoro ottenibile − L, più il calore Qr svolto in quelle condizioni, cioè
(equazione algebrica che, naturalmente, vale anche pel caso che il calore svolto sia negativo, e cioè, in realtà, assorbito). Possiamo anche interpretare questa equazione dicendo che la variazione di energia interna corrispondente a qualunque processo isotermo si compone di due parti: energia libera F, convertibile, in condizioni opportune (cioè per via reversibile) in lavoro, e la cui diminuzione − F corrisponde al massimo lavoro − L così ottenibile, cioè
ed energia legata G, che, anche in quelle condizioni più favorevoli, deve comparire sotto forma di calore, e la cui diminuzione corrisponde appunto al calore svolto − G = Qr, talché si ha U = F + G. L'energia legata si chiama anche il calore latente del processo, per ovvia analogia con quello che si svolge nel processo isotermo per eccellenza, la solidificazione. Ma il secondo principio ci insegna anche come variano con la temperatura le proporzioni relative di energia libera e interna; e tale indicazione, anzi, è quella che ne costituisce la vera importanza e generalità (dato che, per una sola temperatura, rapporti fra U e F possono essere qualsiasi, a seconda del processo che si considera, come abbiamo sopra accennato). Mediante il cosiddetto ciclo di Carnot si dimostra infatti che se alla temperatura assoluta T un processo, decorrendo reversibilmente, può fornire il massimo lavoro − L, a quella un po' superiore T + d T ne fornisce una quantità − L + d L, dove d L è definito dalla equazione
la quale si può anche scrivere sotto forma di derivata, cioè
E in essa, con riferimento alla (8), si può fare la sostituzione Qr = − U, ottenendo
da cui, a sua volta, introducendo la energia lihera F, secondo la (9), si ha
equazione che fu applicata ai processi chimici da Helmholtz (1882), cui si deve anche la distinzione fra energia libera e legata. Ragioniamo su queste formule. Poiché si è visto che a norma del 2° principio tutti i processi (e quindi anche le reazioni chimiche) decorrono nel senso in cui possono produrre reversibilmente il massimo lavoro, e questo si genera a spese di una corrispondente diminuzione di energia libera, potremo prender questa come misura dell'affinità, che riceve per tal modo una definizione rigorosa (van't Hoff, 1884). Invece Berthelot e la sua scuola, riferendosi alla tonalità, prendevano come misura della affinità la diminuzione di energia interna, e la (10) ci mostra che le due grandezze non sono uguali, ma differiscono pel termine
Questo può scomparire solo se si annulla uno dei due fattori che lo compongono, e cioè: allo zero assoluto (T = 0), risultato teoricamente interessante, ma privo d'importanza pratica; ovvero se sia nullo il coefficiente di temperatura dell'energia libera. Ma questo in generale ha un valore diverso da zero (negativo, o più raramente positivo, nei processi chimici), per cui fra energia libera ed interna c'è una differenza, che cresce col salire della temperatura. Peraltro a temperatura ordinaria il prodotto
ha ancora un valore piccolo, talché la differenza fra U e F non è molta, e si può quindi approssimativamente prender la diminuzione della prima (cioè, la tonalità) anziché della seconda (cioè il massimo lavoro) come misura dell'affinità. E questo spiega come si potesse sostenere la teoria termochimica dell'affinità, e come, anche oggi, se mancan dati più precisi e quale prima approssimazione, ci si riferisca al calore di reazione per farsi un'idea dell'andamento probabile di una reazione. Ma se anche le due grandezze sono fra loro diverse, la (10) permette di calcolare F per mezzo di U: se la dividiamo per T2, scrivendola
si riconosce che essa è immediatamente integrabile rispetto a T, ottenendosi
ove J è una costante d'integrazione che occorre fissare sperimentalmente. In questa equazione conviene sostituire, mediante le (1) e (4), alla diminuzione dell'energia interna − U la espressione equivalente
ove Σ (Ci − Cf) è la differenza fra le capacità caloriche delle sostanze iniziali e finali (che scriveremo, per abbreviare, Cif) e Q0 la tonalità allo 0° assoluto. Si ha allora
ovvero, effettuando la prima integrazione e moltiplicando per T,
Queste equazioni mostrano, ancor meglio della (10), la diversità fra affinità A e tonalità Q, poiché, anche a prescindere dal termine J T (ove è imprecisato a priori), la variazione della tonalità al diT sopra delvalore iniziale Q0 è dovuta al termine
(secondo la (12)) e quella dell'affinità all'altro
che ha segno algebrico contrario, talché esse hanno andamento opposto. Se Cif è positivo (ossia se le sostanze iniziali hanno maggior capacità calorica delle finali), la tonalità cresce col salire della temperatura, mentre l'affinità cala (contro quel che ci si immaginerebbe dal punto di vista dei termochimici), e viceversa se Cif è negativo (capacità caloriche delle sostanze finali superiori alle iniziali) la tonalità cala e l'affinità cresce. Vediamo in tal modo che col salire della temperatura prevale in ogni caso quel sistema la cui capacità calorica è maggiore.
Tutte le formule precedenti valgono per la tonalità a volume costante (o diminuzione della energia interna U), ma possono senz'altro adattarsi al calore di reazione a pressione costante Qp (o diminuzione della funzione calorica W), del cui uso accennammo già la convenienza pratica, qualora si sostituisca alle capacità caloriche a volume costante Ci, Cf, Cif (nel caso dei gas, per i quali solo questa distinzione ha importanza) quelle a pressione costante (che indicheremo con ci, cf, cif). Naturalmente al posto di F si ottiene un'altra funzione (il cui valore numerico, del resto, è poco diverso, come differiscon poco Q e Qp), che si indica con Z ed ebbe il nome di potenziale termodinamico a pressione costante, o, secondo alcuni recenti trattatisti americani, energia libera a pressione costante, e le cui diminuzioni, durante un processo chimico, rappresentano (analogamente a − F) "l'affinità a pressione costante" del processo stesso. Per essa si han dunque le formule
ecc., e notiamo che in termodinamica si dimostra che nella (10) la derivazione rispetto alla temperatura deve farsi tenendo costante il volume, e nella (10 b) tenendo costante la pressione, in conformità alle due diverse maniere di misurare il calore di reazione. Riferendoci, dunque, per maggiore generalità, alla funzione Z, e all'affinità a pressione costante, è chiaro che il suo calcolo a mezzo della (13 b) si riduce a precisare per ogni reazione il valore della costante J, dato che le capacità caloriche sono grandezze caratteristiche dei singoli composti, e che anche il calore di reazione risulta dalla somma algebrica dei loro calori di formazione. A tale scopo basta conoscere il valore dell'affinità A, o energia libera Z a una data temperatura T1, ossia
per dedurne J.
Il caso più semplice è quello in cui siamo sicuri che la variazione di energia libera della reazione è nulla, cioè Z = 0, come si verifica, p. es., per il passaggio liquido-solido alla temperatura di fusione, dove, le due forme potendo coesistere indefinitamente, è certo che la loro tendenza a trasformarsi è nulla (mentre a temperature più basse il liquido, soprafuso, tende a solidificarsi spontaneamente); ovvero come si verifica alla temperatura di trasformazione di due forme cristalline, p. es. a 95° fra zolfo rombico e monoclino. In questo caso il calore atomico dello zolfo monoclino (sostanza iniziale) è 3,62 + 0,0072 T, quello del rombico (finale) è 4,12 + 0,0047 T (formule empiriche, valide fra 0° e 100° C.), e il calore di trasformazione è 77 cal. a 0° C.: se ne deduce quindi cif = − 0,50 + 0,0025 T, e successivamente
(ove Log è il logaritmo decimale). Sostituendo nella (13 b) si ha A = 120 + 1,151 T • Log T − 0,00125 T2 + J T, da cui, posto T = 368 (temperatura di trasformazione), A = 0, se ne deduce J = − 2,32, col cui aiuto può ormai calcolarsi A per qualunque temperatura.
L'affinità nelle reazioni tra gas. - Negli altri casi occorre determinare il valore della affinità a una temperatura dove Z è diversa da zero. Il problema è semplice per la trasformazione di una sostanza in un'altra (come l'esempio precedente), qualora ne siano conosciute le tensioni di vapore, ovvero le solubilità, che sono ad esse proporzionali. La forma instabile (p. es., zolfo monoclino) ha sempre, correlativamente, la stabilità maggiore, e ciò si può utilizzare per ottenere il massimo lavoro dalla trasformazione, supponendo di sciogliere una gr. molecola in soluzione satura di concentrazione cm (in gr. molecole per litro), diluire questa reversibilmente fino alla concentrazione cp di saturazione rispetto al rombico, e sotto questa forma facendola cristallizzare. Si dimostra (van't Hoff) che il lavoro così ottenuto, pari all'affinità, è
Analogamente si ha l'affinità dell'idratazione di un sale (p. es., Cu SO4 + H2O = CuSO4, H2O) evaporando una gr. molecola di acqua sotto la sua pressione di saturazione ps, espandendola fino alla pressione di dissociazione dell'idrato pd, e facendola assorbire da una molecola di CuSO4: si ha ancora:
Questi metodi sono ricalcati su un procedimento generale proposto dal van't Hoff per le reazioni ove intervengono gas. Suppongasi un recipiente contenente una miscela gassosa, p. es., di H2, N2, NH3 in equilibrio permanente fra loro secondo l'equazione 3 H2 + N2 ⇄ 2 NH3 (e siano PH, PN, PA le loro pressioni parziali), e del quale tre porzioni di pareti sian dotate di permeabilità elettiva (semipermeabilità) per ognuno dei tre gas rispettivamente. Se allora s'introduce gradualmente idrogeno e azoto e si toglie ammoniaca nelle proporzioni stechiometriche (p. es. tre gr. molecole di idrogeno, una di azoto, due di ammoniaca), si otterrà la formazione quantitativa di questa e quindi il voluto decorso reversibile della reazione, poiché ad ogni istante le quantità infinitesime di idrogeno e azoto introdotte si convertono in ammoniaca, per mantener costanti le loro concentrazioni di equilibrio, e a sua volta l'ammoniaca, venendo eliminata una parte corrispondente di essa, mantiene costante la concentrazione propria. I gas iniziali vengon tolti da grandi serbatoi ove si trovan sotto le pressioni ph, e pn, e per portarli a quelle che regnano nella scatola di equilibrio e sotto le quali deve aver luogo l'introduzione bisognerà variarne il volume, guadagnando un lavoro che la fisica insegna esser espresso da
per le tre gr. molecole di idrogeno, da
per l'azoto (ove log indica il logaritmo naturale). Lo stesso varrà per l'ammoniaca, che deve venir immessa in un serbatoio di pressione pa, e per la quale il lavoro guadagnato sarà
Non si contano i lavori di estrazione o introduzione dei varî gas a pressione costante nei serbatoi o nella scatola, poiché per ognuno di essi si compensano vicendevolmente. Il lavoro totale guadagnato è dunque
o, con facile riordinamento,
Ora la termodinamica insegna che questo lavoro ottenuto reversibilmente dipende solo dagli stati iniziali e finali, cioè dalle pressioni nei serbatoi, non da quelle nella scatola che ha fatto da intermediaria: s quindi il prodotto
ha un valore costante (finché è costante la temperatura). È questa la ben nota legge di massa, che è così dimostrata termodinamicamente: K,. si chiama costante di decomposizione, poiché è tanto maggiore quanto maggiori sono le pressioni PH, PN delle sostanze iniziali (H2, N2) che sussistono, senza reagire, allo stato di equilibrio, rendendo così la reazione incompleta. La medesima formula (ove entran solo le pressioni gassose) vale anche se alla reazione partecipano sostanze solide (come nell'equilibrio H2O + C = CO + H2, per cui avremmo dunque
potendosi ammettere che i solidi sian presenti nella scatola, ove gradualmente si consumano o si accumulano, senza produrre lavoro. Notiamo, per incidenza, come dalla formula risulta che le reazioni gassose non possono esser mai complete, ma una quantità, sia pur minima, delle sostanze iniziali deve sempre restare senza reagire, perché se p. es. la pressione PH dell'idrogeno si riducesse rigorosamente a zero sarebbe Kp = 0, e − log K = ∞, ottenendosi così un lavoro infinito, con evidente assurdo. Né si può dire che le reazioni gassose abbiano un'affinità loro propria e definita, poiché questa, che è uguale al lavoro sopra calcolato, può assumere valori qualsiasi a seconda delle pressioni iniziali e finali, che è perciò indispensabile conoscere. In generale dunque per un equilibrio gassoso l'affinità a T1 sarà data da
se con Σnif log p indichiamo la somma algebrica dei logaritmi delle pressioni delle sostanze iniziali e finali, ognuno moltiplicato pel coefficiente numerico preposto alle loro formule nella equazione di equilibrio (ad es., 3, 1, − 2 per la sintesi dell'ammoniaca). Introducendo tale espressione nella (13 b) ne ricaviamo perciò:
ove per abbreviare si è posto
da cui si 0 deduce:
in cui, affinché Jp rappresenti una costante nelle condizioni considerate, è necessario che sia costante anche il termine in log p, ossia devesi ammettere che, variando la temperatura, le pressioni dei gas iniziali e dei finali mantengano sempre gli stessi valori. Con questo valore di Jp, la (16) diventa, in generale:
ovvero, eliminando il termine comune R T Σ nif log p e ponendo:
si ha:
formula dove I è una vera costante, indipendente dalle pressioni iniziali e finali, e che ci dà la relazione fra costante di equilibrio isotermo e temperatura. Essa perciò è fondamentale per lo studio degli equilibrî, e anche per il calcolo dell'affinità di una reazione, che è data, come vedemmo, da:
Sostituendovi il valore di R T log Kp, dalla (17) essa diviene:
e si vede che ormai contiene come uniche variabili le pressioni dei gas e la temperatura. Nel calcolo numerico conviene sostituire ai logaritmi naturali (log... .) gli ordinarî decimali (Log...), con la nota relazione log x = 2,303 Log x, ed esprimendo, come si usa, l'affinità in calorie, esprimere in questa unità anche la costante dei gas, ponendo R = 1,985 cal. L'unità usata per le pressioni (per lo più, l'atmosfera, o il kg/cmq.) può esser qualsiasi, a patto di conservarla immutata per tutti i calcoli, poiché da essa dipende il valore numerico di Kp e di I. Così per la reazione H2 + Cl2 = 2HCl si ha cif = 1,097, Q = 44000 a 18° C., da cui si deduce
e successivamente:
per cui la (17) diviene:
ovvero, dividendo per 1,985 × 2,303 e per T:
e poiché a 1830° si è trovato Log K = − 5,772 se ne deduce I1 = − 2,35, valore che sostituito nella (17 b) ci dà il modo di calcolare, con questa, Kp per qualunque temperatura T.
Tutte le formule sopra riportate valgono se le proporzioni relative dei gas sono espresse dalle pressioni parziali. Volendo esprimerle in concentrazioni C (ad es., grammi-molecole per litro) si fa uso della funzione F anziché della Z, riferendo quindi le capacità caloriche al volume anziché alla pressione costante. La costante di equilibrio isotermo, Kc definita ora da log Kc = Σ ni log Ci − Σ nf, log Cf, assume naturalmente un valore diverso da Kp, e poiché pressioni e concentrazioni dei gas sono unite dalla relazione p = C R T è facile riconoscere che si ha Kc = Kp (R T)nf, − ni,. Con queste modificazioni la (17) e la (16) divengono:
e conviene notare che nel calcolo della costante di integrazione Jc si deve ammettere che le concentrazioni iniziali e finali siano costanti mentre varia la temperatura, analogamente a quello che si è supposto avanti per le pressioni. Per questa ragione la (16 b) fu detta dal van't Hoff la isocora (che si riferisce sempre a ugual volume), come la (16) è detta la isobara (cioè, a ugual pressione). La isocora trova applicazione per le soluzioni (per le quali pure, secondo van't Hoff, valgono le leggi dei gas) ove le concentrazioni si hanno direttamente, mentre le pressioni osmotiche dovrebbero calcolarsi indirettamente. Ma invece delle capacità caloriche, che sarebbero fittizie, delle molecole reagenti, si usano quelle globali delle soluzioni, misurate a pressione ordinaria.
Affinità e forza elettromotrice. - Un altro metodo per determinare il massimo lavoro e quindi l'affinitb di una reazione consiste nel misurare la forza elettromotrice di una pila ove essa sia elettromotivamente attiva. Esso è di applicazione relativamente limitata, potendo servire solo nei casi ove la reazione implica una variazione di carica fra ioni elettrolitici e, cioè, per le reazioni fra composti inorganici in soluzione, ma per queste è un sussidio prezioso (astraendo, s'intende, dai casi di perturbazioni secondarie, come passività, reazioni parassite, ecc). Per rendere elettromotivamente attiva una reazione è necessario scinderla in due mezze reazioni elettrochimiche, di cui ognuna possa compiersi solo mediante somministrazione di cariche + 0 −. Ecco qualche esempio:
I) la reazione Zn + C???tof-u-P2??? = Z???tof-n-P2??? + Cu, come ha luogo nella pila Daniell, si scinde nei due processi elettrochimici (ove F rappresenta la quantità di elettricità - cioè 96500 Coulomb - corrispondente alla carica di un gr. equivalente): Zn = Z???tof-n-P2??? − 2F; C???tof-u-P2??? = Cu + 2F;
II) la reazione F???tof-e-P3??? + Ag + F???tof-e-P2??? + A???tof-g-P1??? si scinde in F???tof-e-P3??? = F???tof-e-P2??? + F; Ag = A???tof-g-P1??? − F;
III) la reazione Cl2 + 2Hg = Hg2Cl2 si scinde in Cl2 = 2Cl′ + 2F; 2Hg + 2Cl′ = Hg2 Cl2 − 2F;
IV) la reazione 2FeC???tof-y-A3??? + S″ = 2 Fe C???tof-y-A4???6 + S si scinde in 2Fe C???tof-y-A4???6 = 2 Fe C???tof-y-A4???6 + 2F; S″ = S − 2F.
E si vede che sommando le due mezze reazioni elettrochimiche si ha in ogni caso la reazione chimica, eliminandosi le cariche elettriche. Nell'interno della pila le cose si svolgon nel modo seguente: supponiamo, riferendoci alla reazione II, che intorno a un elettrodo di metallo inattaccabile (Pt), che fa da conduttore delle cariche elettriche, si trovi una soluzione mista di ioni F???tof-e-P3??? e F???tof-e-P2??? (cioè di sali ferrico e ferroso); le due sostanze non avranno in genere uguale stabilità nelle condizioni date di concentrazione e temperatura, ma l'una tenderà a trasformarsi nell'altra, p. es. gli ioni F???tof-e-P3??? e si convertiranno, e sia pure in misura minima, in F???tof-e-P2??? cedendo le loro cariche in più all'elettrodo di Pt sino a che questo non avrà assunto un tal potenziale positivo Ef rispetto alla soluzione (supposta sempre al potenziale o) da impedire un ulteriore afflusso di cariche, e quindi la conversione di F???tof-e-P3??? in F???tof-e-P2???. Analogamente, in un altro recipiente connesso con sifone col primo e contenente un elettrodo di Ag in una soluzione di A???tof-g-A3??? (sale argentico) le due forme metallica e ionica dell'elemento argento non saranno in equilibrio fra loro, ma ci sarà, mettiamo, tendenza per il metallo a passare allo stato di ione, assumendo una carica + e lasciando quindi caricato l'elettrodo, processo che, anche qui, si arresterà ben presto per il potenziale negativo − Ea che assume il metallo e che ne ostacola una carica ulteriore. Ma se si congiungono esternamente i due elettrodi, Pt e Ag, con un filo metallico, le loro cariche opposte si neutralizzano attraverso questo, generando una corrente elettrica (che si conchiude, nell'interno della pila, attraverso le due soluzioni elettrolitiche, fra loro a contatto mediante il sifone) e permettono così alle due mezze reazioni elettrodiche di svolgersi, separatamente e contemporaneamente. La reazione ha luogo, così, reversibilmente, a misura della quantità di elettricità passata, e il lavoro elettrico compiuto è quindi una misura diretta dell'affinità che viene soddisfatta. Dopo che ha reagito un gr. equivalente (che qui corrisponde senz'altro all'equazione II) il lavoro è 96500 (Ef + Ea) Volt × Coulomb (se i potenziali erano espressi in Volt) e poiché un Volt × Coulomb corrisponde a 0,239 cal. sarà pure uguale a 23050 (Ef + Ea) cal. E si vede che per conoscerlo basta misurare, coi metodi che insegna la elettrochimica, la forza elettromotrice (o f. e. m.) E = Ef + Ea. Mediante un dispositivo a sifone si può riunire fra loro le mezze pile più svariate e misurare così le affinità corrispondenti al gr. equivalente, ovvero, moltiplicando per la valenza elettrochimica n (il numero degli F nelle singole mezze reazioni, o, se son disuguali, il loro minimo comune multiplo) l'affinità corrispondente alla gr. equazione, A = 23050.n.E. S'intende che l'affinità dipenderà dalle concentrazioni dei varî ioni interessati, e se ne può trovare la formulazione matematica. Così possiamo, riferendoci al sistema Pt ∣ F???tof-e-P3???, F???tof-e-P2???, sottrarvi reversibilmente attraverso l'elettrodo F Coulomb di elettricità positiva che verranno portati al potenziale E1, guadagnando il lavoro (E − E1) F, e un gr. atomo di F???tof-e-P2??? che verrà versato in un serbatoio alla concentrazione finale C0, guadagnando il lavoro
(se c0 è la concentrazione di F???tof-e-P2??? intorno all'elettrodo), mentre si introduce contemporaneamente un gr. atomo di F???tof-e-P3??? (concentrazione, ci), guadagnando il lavoro
se Ci è la concentrazione del serbatoio di F???tof-e-P3??? da cui esso viene tolto. Il lavoro totale, cioè
deve, al solito, dipender solo dalle condizioni iniziali e finali (E1, Ci, C0) e non da quelle nella scatola di equilibrio: sarà dunque
se con E0 indichiamo il valore che ci assumerebbe il potenziale elettrodico se tutte le concentrazioni (F???tof-e-P3???, F???tof-e-P2???) fossero uguali a 1 (e i loro logaritmi uguali a 0). Ne deduciamo perciò
ove E0, detto il potenziale normale, è una costante isoterma di equilibrio elettrochimico, del tutto analoga alla K sopra considerata e com'essa variabile con la temperatura. In generale, per una reazione elettrodica
(ove m > n) sarà
schema a cui si può ricondurre qualunque altra, scrivendola in senso opportuno: così, per la prima delle I, Z???tof-n-P2???= Zn + 2F, e per la seconda delle IV: S = S″ + 2F. Praticamente, poi, occorre trovare un elettrodo che si metta in equilibrio elettrochimico con la soluzione. Dove si caricano o scaricano totalmente cationi vale, naturalmente, un elettrodo del metallo stesso (zinco o rame per le due mezze reazioni I, argento per la seconda delle II), mentre per la ionizzazione (o viceversa) dell'idrogeno, degli alogeni, o in genere per le variazioni di valenza degli ioni servon bene elettrodi inattaccabili di platino, alla cui superficie questi cambiamenti elettrochimici di carica si compiono reversibilmente. E non è neppur indispensabile combinare, volta per volta, le due mezze pile corrispondenti alla reazione che si vuol conoscere, ma basta aver misurato la f. e. m. di ciascuna di esse combinata con un elettrodo normale sempre uguale, e scelto, naturalmente, fra i più costanti e facilmente preparabili (ad es., mercurio sotto una soluzione titolata di KCl satura di calomelano, per il quale i processi elettrochimici, a seconda del verso della corrente, sono 2Hg + 2Cl' + 2F ⇄ Hg2Cl2). In questi accoppiamenti si producono per lo più delle differenze di potenziale parassite al contatto delle soluzioni eterogenee, ma la elettrochimica insegna a eliminarle e quindi noi possiamo trascurarle, e considerare la f. e. m. come uguale alla somma algebrica dei potenziali elettrodici, talché, p. es. la differenza delle f. e. m. delle due pile Ag ∣ A???tof-g-A3??? ∣ NH4NO5 ∣ KCl, Hg2 Cl2 ∣ Hg; Pt ∣ F???tof-e-P3???, F???tof-e-P2??? ∣ NH4NO3 ∣ KCl, Hg2 Cl2 ∣ Hg è uguale a quella che otterremmo misurando la pila Ag ∣ A???tof-g-A4??? ∣ NH4NO3 ∣ F???tof-e-P3???, F???tof-e-P2??? ∣ Pt (eliminandosi, nella differenza, il potenziale elettrodico mercurio-calomelano). Facendo in generale simili operazioni può anche capitare una f. e. m. finale negativa, ma ciò significa solo che il processo in quella data direzione (facendo cioè spostare le cariche + nell'interno delle soluzioni da destra a sinistra) ha luogo contro l'affinità, e che è normale (valore positivo della f. e. m. e dell'affinità) il processo in direzione inversa. Richiamandoci dunque alla dimostrazione generale, è facile dedurre le formule speciali pei varî potenziali elettrodici nei varî casi, tenendo presente, fra l'altro, che la massa attiva dei solidi partecipanti alle reazioni non deve, al solito, figurare nelle formule, mentre dove intervengono gas (idrogeno, cloro) elettromotivamente attivi per l'intermediario di un elettrodo di platino, la loro massa attiva è proporzionale alla pressione (ciò che implica un termine log p nella somma dei logaritmi). Otteniamo così nei casi principali le seguenti formule:
I. - Equilibrio fra un metallo e i suoi ioni:
ove n è la valenza del catione (p. es., 2 per Zn) e c la sua concentrazione (gr. atomi per litro). Ecco alcuni valori dei potenziali normali E0 a temperatura ordinaria, pei quali, data la poca importanza dei valori assoluti pel calcolo delle f. e. m., dove figurano solo le loro differenze, si è ammesso convenzionalmente = 0 il potenziale normale dell'idrogeno, in relazione alla sua posizione intermedia fra i metalli più attivi (alcali, magnesio, zinco) e quelli nobili.
I valori + per gli elementi dal rame in su significano che i loro ioni in concentrazione normale han tendenza a deporsi allo stato elementare sull'elettrodo, impartendogli quindi la loro carica +: questi metalli cioè hanno scarsa elettroaffinità.
II. - Elettrodi a gas: 1°. Nel caso dell'idrogeno si ha
dove lo 0 che tiene il posto del solito E0 significa, come accennammo, che la tendenza dell'idrogeno gassoso a 1 atmosfera (e a temperatura ordinaria) a passare allo stato di ione in soluzione di concentrazione unità (o viceversa) è dichiarata, convenzionalmente, nulla. − 20. Nel caso di altri elementi gassosi (riferendosi al cloro che è in grado di dare i potenziali meglio definiti) vale la formula
dove il segno − anziché + anteposto al termine logaritmico è dovuto al fatto che la carica dei suoi ioni (anioni) è di segno opposto a quella dei cationi finora considerati. − 3°. Nel caso di metalloidi non gassosi, ma solubili (Br, J), interviene invece un termine relativo alla concentrazione [Br2], ecc., delle molecole neutre: così pel bromo
III. - Potenziali elettrodici di ossidazione. Con questo nome generico s'intendono tutti i processi in cui gli ioni diminuiscono la loro carica + od aumentano la − (cambiando anche, eventualmente, di composizione chimica): vi si includono cioè anche le riduzioni (come l'azione del cloruro stannoso, che tende a trasformarsi in stannico), le quali, scritte alla rovescia, rappresentano ugualmente ossidazioni, tanto più che, già dal punto di vista puramente chimico, il carattere ossidante o riducente è del tutto relativo: una miscela di sale ferroso-ferrico è ossidante rispetto a H2S e riducente rispetto all'anione cromato in soluzione acida. Invece di una formula generale, che riescirebbe troppo astratta, daremo qualche esempio concreto.
1. Ossidazione con sali tallici:
2. Ossidazione con ferricianuro:
3. Ossidazione con permanganato in soluzione acida:
Facendo poi la somma ovvero la differenza delle formule corrispondenti a due potenziali elettrodici (a seconda che nelle mezze equazioni corrispondenti gli F figurano con segno opposto ovvero uguale, in modo da eliminarli in ogni caso e arrivare a equazioni puramente chimiche), si hanno i valori inVolt dell'affinità, corrispondenti a queste reazioni, e riferiti a un equivalente: moltiplicando poi per il minimo comune multiplo degli n che figurano nelle singole formule e per 23050, si ha l'affinità espressa in calorie e riferita alla quantità totale di gr. molecole che figurano nell'equazione. Beninteso che per applicare ai casi pratici occorre conoscere la relazione fra concentrazione ionica e concentrazione totale, problema non sempre facile, ma su cui non ci possiamo diffondere. Ecco un esempio:
Affinità a temperatura ordinaria dell'ossidazione del talloione con permanganato (per 1 equivalente):
e in calorie, per la reazione fra ioni (cioè 2MnO4′ + 16H• + 5Tl• = 2M???tof-n-P2??? + 8H2O + 5Tl•••), essendo il minimo comune multiplo = 10, e con gli opportuni coefficienti numerici:
Tutto quel che precede si riferisce alla misura elettrometrica dell'affinità a una data temperatura: per ottenerla in funzione della temperatura variabile si potrebbero sviluppare pei singoli potenziali normali formule analoghe alla (17 b), da cui poi dedurre, addittivamente, la relazione affinità-temperatura valevole per la reazione complessiva. Su questa via, peraltro, che darebbe risultati numericamente malsicuri, si è fatto poco; più pratico sarebbe riferirsi a una pila determinata e dal calore di reazione W del processo chimico (riferito a un gr. equivalente) dedurre la f. e. m., identica alla diminuzione della energia libera − Z, colla formula
In realtà però neppur questo metodo viene applicato, ma, poiché le f. e. m. e i loro coefficienti di temperatura si possono in genere misurare con assai maggior precisione che non le tonalità, si preferisce invece calcolare queste da quelle, utilizzando la equazione differenziale
Così, per la pila Pb ∣ PbCl2 sat. ∣ AgCl sat. ∣ Ag ove ha luogo la reazione 2AgCl + Pb = PbCl2 + 2 Ag, si ha E = 0,4889 a 17° C.,
per cui sostituendo nella equazione precedente se ne calcola W = 23050 (0,4889 + 290.1,65 • 10-4) = 12368 per un gr. equivalente, e 24736 per la reazione come è scritta. La misura termochimica diede 24820.
Calcolo a priori dell'affinità secondo Nernst. - Dobbiamo al Nernst (1906) un nuovo teorema, mediante il quale si può calcolare l'affinità di una reazione dalla sola tonalità, ma, a differenza dalla regola di Berthelot, tenendo conto delle esigenze del 2° principio. Infatti da una considerazione generale delle relazioni fra tonalità e affinità, i cui valori si vanno sempre più ravvicinando col diminuire della temperatura, egli fu indotto a ritenere che queste due grandezze finiscano col coincidere non solo allo 0° assoluto, ma già nelle sue vicinanze immediate. Con rappresentazione grafica Z e W non si incontrano allo 0° ass. come due linee che hanno a comune solo quel punto, e al di sopra cominciano subito a divergere (cioè W, Zb), ma come due curve che si van sempre più ravvicinando sino a divenire tangenti allo 0° ass., nelle cui vicinanze perciò posseggono un piccolo tratto ove, praticamente, ancora coincidono (e cioè W, Zn). In formule, l'ultimo tratto di ognuna di esse potendo sempre identificarsi con segmenti di rette, rappresentabili con
queste non devono avere inclinazione diversa (a ≠ b) ma uguale, ossia a = b, ovvero anche
che è la formulazione matematica del nuovo teorema. Allora la equazione fondamentale (10 b):
per temperature τ vicinissime a 0° diviene Z − W = b τ ovvero, secondo le (19),
da cui, poiché è Z0 = W0, in base alla (20) si deduce b = 0 ossia
Ciò viene a dire che per temperature vicine allo 0° le due energie, libera e interna, si mantengono sensibilmente costanti e uguali fra loroi ossia
Ora questa semplice ammissione risolve completamente il problema di calcolare Z dalla sola tonalità (pur senza identificarla con essa). A tale scopo infatti sappiamo che basta conoscere il valore di Z per una data temperatura, e ora potremo sceglierne una τ molto vicina allo 0° assoluto, per la quale sia praticamente Z = W0. Con questo, si viene a porre uguale a O la costante di integrazione J per la quale sarebbe invece Z = W0 + Jτ, e nella (13 b) possiamo quindi segnare il limite inferiore degli integrali, scrivendo:
È notevole pure una conseguenza accessoria di questo teoremv del Nernst.
Se è infatti
poiché secondo la (7) e la precedente è
sarà lim cf = lim ci, ossia le capacità caloriche delle sostanze iniziali devono essere uguali a quelle delle finali, cioè corrispondere esattamente alla somma dei loro calori atomici, indipendentemente dal modo con cui gli atomi sono riuniti in molecole, verificandosi, così, rigorosamente la nota legge di Woestyn e Kopp, che a temperatura ordinaria è solo approssimata. L'esperienza ha confermato questa nuova previsione e, può dirsi, in modo inatteso, mostrando che la capacità calorica di qualunque sostanza tende al valore 0 nei pressi dello 0° assoluto, ciò che assicura, nel modo più radicale, l'uguaglianza delle capacità caloriche iniziali e finali. Rimandando alla teoria dei quanti, svolta altrove, per la spiegazione di questo singolare comportamento, notiamo che esso facilita assai l'applicazione pratica della (13 c), in quanto, se tutte le capacità caloriche diminuiscono sino ad annullarsi verso lo 0° assoluto, la differenza fra quelle delle sostanze iniziali e finali (che naturalmente saran solo una piccola parte delle totali) divengono praticamente trascurabili assai prima. Basta dunque conoscere i calori specifici delle singole sostanze sino alla temperatura, oggi non difficilmente accessibile, dell'idrogeno liquido, per poterne calcolare il valore dell'integrale
col cui aiuto, noto il calore di reazione Qp′ alla temperatura T′, si calcola
e potremo pure calcolare l'altro integrale
avendo così tutti i dati da introdurre nella (13 c) per ottenerne A.
Recentemente si sono stabilite per molte sostanze tabelle che dànno i valori numerici di
a varie temperature, col cui aiuto si ricava A per le reazioni ove queste sostanze intervengono, a mezzo di semplici somme e sottrazioni.
Così per la reazione
a 15° C. si ha Q = 15100 cal., mentre le tabelle danno a 15° per le tre sostanze u = 1309, 1531, 2944, e analogamente a = − 1520, − 2502, − 4605; perciò, essendo Q = Q0 + Σ(ui − uf) se ne deduce Q0 = 15100 + 2944 − (1309 + 1531) = 15204 ed essendo A = Q0 + Σ (ai − af) se ne deduce pure A = 15204 − (1520 + 2502) + 4605 = 15787 mentre dalla f. e. m. della pila Ag ∣ AgJ, KJ ∣ KJ, J2 ∣ Pt si ricalcola 15700.
Agli equilibrî gassosi il teorema di Nernst non è direttamente applicabile, già pel fatto che i calori specifici dei gas han sempre valori finiti, e senza quella addittività che di esso è conseguenza necessaria. Ma tuttavia da questo teorema anche gli equilibrî gassosi ritraggono indirettamente vantaggio, in quanto esso dà un modo di calcolare a priori quella costante di integrazione che è indispensabile per dedurre poi l'affinità dalle sole grandezze caloriche. A tale scopo infatti vedemmo che occorre conoscere la diminuzione dell'energia libera − Z a una temperatura determinata, e ciò può ora ottenersi supponendo di operare a una temperatura così bassa che tutte le sostanze partecipanti possano già esistere allo stato solido, e di fare avvenire la reazione, una volta direttamente da solidi a solidi, colla diminuzione di energia libera − Zs, e un'altra allo stato gassoso, prendendo come pressioni iniziali e finali quelle delle varie sostanze allo stato di vapore saturo (talché i solidi corrispondenti fan le veci dei serbatoi destinati a fornire e ricevere gli aeriformi a pressione costante). Qui, come allora, la diminuzione di energia libera (o lavoro guadagnato) corrisponde alle variazioni reversibili di pressione (e quindi di volume) fra quelle ps dei vapori saturi e quelle che regnano nella scatola di equilibrio, e viceversa, talché si ha,
Ma per il 2° principio − Zg deve essere uguale alla diminuzione di energia libera − Zs verificatasi nella reazione diretta fra solidi e solidi, dato che gli stati terminali sono gli stessi. E poiché quest'ultima ci è ora data dal teorema di Nernst, ecco che lo sarà anche − Zg: e poiché nel (15 b) le pressioni sono calcolabili dalle curve di vapore, conosceremo anche Kp, e quindi, secondo la (13 b), la costante di integrazione J. La relazione generale fra pressione di vapore p., e temperatura, considerata come dovuta a un equilibrio eterogeneo (vapore saturo ⇄ solido) è data dalla (17) ove si ponga log Kp = log ps, cioè
Ma qui supporremo che tanto i calori di reazione Q che quelli di condensazione l siano costanti (e uguali perciò al valore che hanno allo zero assoluto); ciò elimina i termini in f (T) e semplifica assai le (17), (21) che divengono rispettivamente
In queste condizioni è − Zs = Q0 = − Zg, e sostituendo nella (15 b) i valori di log ps dalla (21 b) si ottiene
da cui, ponendo in evidenza il termine con log Km si ha
Ma per la conservazione dell'energia il calore Qs svolto nella trasformazione da solidi iniziali a solidi finali dev'essere uguale a quello assorbito per evaporare i primi (− Σ ni, li) + quello svolto nella reazione fra sostanze gassose (Qg) + quello svolto nella condensazione delle sostanze finali (+ Σ nf lf), ossia Qs = − Σ ni li + Qg, + Σ nf lf, con che la (22) diviene R T log Kp, = Qg + T Σ (nf if − nf if); e si vede che al posto della costante di integrazione I (equaz. (17)), da determinare sperimentalmente si trova la somma algebrica di costanti dedotte dalle curve di vapore e quindi caratteristiche delle singole sostanze, cioè I = Σ (ni ii − nf if). Come già la dimostrazione della legge di massa, anche questa è generale, e vale anche se all'equilibrio partecipano sostanze solide, le cui costanti i, tuttavia, non devon figurare nella somma algebrica, per le stesse ragioni per cui le loro pressioni non figurano nella espressione di Kp. Si intende che, in realtà, per avere valori esatti, occorrerebbe ricavare gli i da formule complete del tipo (21), allo stesso modo come si userebbe poi la formula esatta (17) invece della semplificata (17 c). Ma simili calcoli, che richiedono delicate misure di tensione di vapore a temperature molto basse, si son potuti fare solo in pochi casi, e per lo più il Nernst si è contentato di dedurre valori approssimati delle costanti i da regolarità empiriche relative alle curve di vapore, che qui è superfluo ricordare, o magari dalle costanti di integrazione di qualche equilibrio gassoso meglio studiato. Simili valori empirici C si chiamano costanti chimiche convenzionali, per distinguerle da quelle vere, dedotte dallo studio completo delle curve di vapore. Usando come unità di pressione l'atmosfera, e i logaritmi decimali si son trovati così valori di questo genere:
Correlativamente, il Nernst ha proposto una formula generale, empirica, che tien luogo, con discreta approssimazione, della formula esatta (17), e cioè:
ove al posto di Q0 si trova Qt, il calore di reazione a temperatura ordinaria quale ci è fornito dalle misure termochimiche, e al posto di f (T) figura 1,75 (ni − n) Log T, mentre al posto della costante di integrazione I, da stabilire sperimentalmente, figura la somma algebrica delle costanti chimiche convenzionali. Così, per la reazione 4HCl + O2 = 2Cl2 + 2H2O, a cui corrisponde il calore di reazione a pressione costante (a temperatura ordinaria) di 27200 cal., la costante di equilibrio
è data da
e si vede che all'infuori del calore di reazione non è richiesto nessun dato che sia specifico per la reazione stessa. Questa formula dà risultati tanto migliori quanto minore è la differenza ni − nf fra il numero di molecole gassose iniziali e le finali, poiché così si risente meno l'influenza delle espressioni approssimate empiriche che fan le veci di quelle esatte. Così essa fornisce valori di K′, poco diversi da quelli sperimentali per equilibrî come C + O2 ⇄ C O2; 2NO ⇄ N2 + O2; CO + H2O ⇄ CO2 + H2, dove il numero di molecole non varia: un po' meno esatti per PCl3 + Cl2 ⇄ PCl5; 2J ⇄ J2 dove il numero di molecole varia di 1: ancor meno dove si forma o scompare un numero maggiore di molecole, come per la dissociazione del nitrato di piombo (scritta, come vuol la regola, nel senso che corrisponde a uno svolgimento di calore), cioè 4NO2 + O2 + 2PbO = 2PbN2O6.
Ma in ogni caso la (23) serve a dare una prima informazione su equilibrî intorno ai quali, senza l'aiuto dell'esperienza, non si potrebbe altrimenti affermare nulla.
Bibl.: La teoria dell'affinità è esposta in tutti i trattati moderni di chimica fisica (in italiano, quelli di A. Campetti, Milano, e di A. Mazzucchelli, Torino). L'argomento è svolto con particolare ampiezza, oltre che nella Theoretische Chemie di W. Nernst (Stoccarda), nel Grundriss der physikalischen Chemie di A. Eucken (Lipsia); vedasi pure G. Urbain, L'énergetique des reactions chimiques (Parigi) e Lewis e Randall, Thermodynamics and the free energy of chemical substances (Londra e New York). Sul nuovo teorema lo stesso Nernst ha pubblicato Die Grundlagen des neuen Wärmesatzes (Halle); e l'argomento è svolto assai lucidamente da Pollitzer, Die Berechnung chemischer Affinitäten nach dem Nerntschen Wärmetheorem (Stoccarda). Per le tabelle v. H. Miething, Tabellen zur Berechnung des Wärmeinhalts fester Körper (Halle).