TILGHER, Adriano. –
Nacque l’8 gennaio 1887 a Resìna (l’odierna Ercolano), in provincia di Napoli, da Achille, un vetraio di origine tedesca, e da Rosa Eufrasia Oteau (cognome che era spesso italianizzato in Ottò).
Dopo le scuole elementari, nel 1897 si trasferì a Napoli. Mentre frequentava il liceo classico Giambattista Vico conobbe Livia De Paolis, che avrebbe sposato nel 1912.
In quegli anni Tilgher maturò una passione per la filosofia e per la letteratura, e si avvicinò a Benedetto Croce, che frequentò assiduamente e considerò un vero e proprio maestro, come mostrano i suoi primi lavori. In realtà, non si trattò di un rapporto destinato a durare a lungo.
Dopo la laurea in giurisprudenza (a Napoli, nel maggio del 1909, con Giuseppe Salvioli, docente di storia del diritto italiano), Tilgher vinse un concorso per l’incarico di aiutobibliotecario, e nell’aprile del 1910 prese servizio presso la Biblioteca nazionale di Torino (lettere a Croce del 18 marzo e del 21 aprile 1910, in Carteggio Croce-Tilgher, 2004, pp. 56 e 59).
Passati i primi mesi, la lontananza dalla sua città e dai suoi affetti si trasformò in angoscia, e Tilgher chiese aiuto a Croce per ottenere il trasferimento a una sede più vicina. Dopo mesi di scambi epistolari incentrati sullo stesso tema – e nei quali Tilgher era divenuto decisamente pressante – il filosofo interruppe le comunicazioni; era comunque riuscito a ottenere il trasferimento di Tilgher alla Biblioteca Alessandrina di Roma, che avvenne nell’aprile del 1911.
Dal Carteggio risulta, inoltre, che Tilgher non era puntuale nel rispettare gli impegni editoriali, determinando il disappunto e l’insofferenza del suo interlocutore, che aveva fatto della disciplina una ragione di vita. Lo stesso Tilgher, del resto, si risentì di fronte alle critiche di Croce al suo Arte, conoscenza e realtà (1910). Croce era convinto – come avrebbe scritto a Giovanni Gentile l’11 gennaio 1920 – che il suo giovane amico avrebbe dovuto dedicarsi alla storia della filosofia per acquisire quel metodo e quella maturità scientifica che, a suo avviso, ancora non aveva (B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile, 1981). Tilgher non seguì i consigli di Croce, e nel 1915 pubblicò Teoria del pragmatismo trascendentale, la sua prova filosofica più impegnativa. In quello scritto, in pieno accordo con Gentile, criticò il «metodo trascendente» e si fece sostenitore del «metodo dell’immanenza» che, con lessico gentiliano, definì identico alla filosofia «la quale non riconosce né essere, né pensiero, al di fuori dell’atto vivente e concreto del pensiero pensante» (p. 372). Tilgher era un pragmatista perché sosteneva la deduzione della conoscenza dalla volontà e il primato di questa all’interno di una filosofia dello spirito; tuttavia, proprio l’esistenza di una filosofia dello spirito faceva sì che Tilgher non uscisse dall’orizzonte del neoidealismo, di cui alla vigilia della Grande guerra era uno degli esponenti. Questa riflessione nasceva dall’ambiente in cui egli si era formato, ma anche da una profonda conoscenza della principale opera del filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte, Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre (1794, Fondamento dell’intera dottrina della scienza), che egli aveva tradotto nel 1910 per la collana Classici della filosofia moderna della casa editrice Laterza. I suoi obiettivi teorici furono la dialettica tra io e non io, la riflessione sull’intuizione intellettuale e la ricerca di un pensiero che avesse al suo centro il tema della soggettività, intesa come attività creatrice. Tali obiettivi sono confermati dal suo interesse per il pensiero di Henri Bergson, sul quale scrisse diversi saggi.
All’indomani della guerra, Tilgher inaugurò una nuova fase del suo percorso biografico e intellettuale. Non era, ormai, solo uno studioso di filosofia, ma anche un esperto di teatro: su questo argomento scrisse sia come saggista (Studi sul teatro contemporaneo, 1923; La scena e la vita, 1925) sia come critico, collaborando con alcuni quotidiani nazionali.
Nel campo della filosofia e del pensiero politico, nel 1921 pubblicò Voci del tempo, Relativisti contemporanei e La crisi mondiale, tre raccolte di saggi e articoli (alcuni già editi, altri inediti) che lo collocarono fra i più lucidi testimoni del suo tempo. Nella Crisi mondiale – riflessione sulla crisi del dopoguerra – Tilgher sostenne che ogni epoca storica si fonda su «un’intuizione del mondo che ne costituisce il nucleo ideologico fondamentale». La civiltà moderna aveva il suo nel «misticismo dell’azione» (La crisi mondiale, cit., p. 49) e cioè in una religione atea, espressione di un’illimitata fede nel mito del progresso. Non si trattava, come molti ritenevano, di un’apocalisse della modernità. Per Tilgher, la civiltà moderna era giunta alla sua fine e non vi sarebbe stata alcuna possibilità di salvezza. In questo quadro, egli presentò la borghesia come la classe responsabile del conflitto mondiale, ma anche come il soggetto politico che meglio interpretava la crisi: una classe che si era sacrificata per la guerra, per poi trovarsi senza referenti politici, schiacciata «fra i nuovi ricchi e il proletariato» (La crisi mondiale, cit., p. 180). Inoltre, con un giudizio oggi ritenuto importante nell’ambito delle interpretazioni del fascismo (R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, 1989, pp. 179 s.), Tilgher seppe individuare nei ceti medi gli interlocutori privilegiati del movimento guidato da Benito Mussolini; a questo proposito affermò che mai come allora «i piccoli borghesi» avevano considerato «i proletari con tanto rancore», uno stato d’animo che, a suo avviso, spiegava «il furore antisocialista degli arditi e dei fasci di combattimento, i componenti dei quali appartengono tutti alle classi medie» (La crisi mondiale, cit., p. 180).
In effetti, nei primi anni del regime fascista egli si collocò fra le voci più chiare dell’antifascismo non marxista, e fu vicino ai giornali La rivoluzione liberale di Piero Gobetti e Il mondo di Giovanni Amendola. Si trattò di una scelta politica, alla quale tuttavia non fu estraneo quanto accadde nel 1924 tra lui e Gentile.
L’11 febbraio 1924 Tilgher lasciò la Biblioteca Alessandrina e prese servizio presso la Casanatense (Archivio della Biblioteca universitaria Alessandrina, 1924). Pochi giorni dopo Gentile (in quel periodo ministro della Pubblica Istruzione), ritornando sul provvedimento e andando incontro a un desiderio del direttore della Casanatense, Tommaso Gnoli, fece spostare Tilgher alla Biblioteca nazionale centrale. In merito a tale decisione, così Gentile scrisse a Gnoli: «Nel comunicare al dott. Tilgher la decisione presa a suo riguardo, V.S. gli significherà che, destinandolo alla “Vittorio Emanuele”, ho voluto assecondare il desiderio suo, di poter fare l’orario continuato pomeridiano; che però intendo che egli osservi realmente e scrupolosamente l’orario regolamentare, e si renda veramente utile all’Amministrazione: riservandomi di adottare i provvedimenti che riterrò del caso, ove mi risulti che egli non tenga il dovuto conto – nell’osservanza degli obblighi d’ufficio – del presente avvertimento». Tilgher trascrisse questa lettera – che si trova in possesso dei suoi eredi – e alla fine del testo di Gentile aggiunse: «Contemporaneamente al dr. Bonazzi direttore della V.E., scriveva una lettera riservata di sorvegliarmi nell’orario e nel lavoro e di considerarmi come sotto esperimento. Ricetto il 1. IV. 1937. Mi è costata salata, ma a quel brigante gliela ho fatta pagare cara. E, spero bene, di fargliela pagare ancora più cara. Amen. Adriano Tilgher».
Questa vicenda non avrebbe avuto in sé grande importanza se Tilgher non l’avesse considerata la prova di una inimicizia di carattere personale. Da allora, divenne uno dei più severi critici del filosofo, e alle ragioni del dissenso culturale aggiunse quelle del rancore privato. Nel 1925 pubblicò Lo spaccio del bestione trionfante: stroncatura di Giovanni Gentile. Un libro per filosofi e non filosofi, un pamphlet durissimo, in cui affermò: «Chi ha conoscenza sia pure superficiale di storia della filosofia sa da un pezzo cosa pensare dell’idealismo attuale di Giovanni Gentile. Bisogna essere, infatti, in assoluta malafede o asino come un idealista attuale per negare che in ciò che ha di serio e di buono l’idealismo attuale non è che una rifrittura della filosofia germanica postkantiana» (p. 31).
Coerentemente con questa opinione, Tilgher fu fra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti – fatto pubblicare da Croce sul Mondo il 1° maggio 1925 – e il 15 settembre dello stesso anno, sempre su quel giornale, scrisse un articolo contro Ermenegildo Pistelli – collaboratore del giornale Battaglie fasciste, organo del fascio di Firenze – che più volte si era espresso in termini critici contro Croce (Un caso patologico: Padre Pistelli, p. 2). Proprio per queste sue posizioni, il 16 settembre a Roma, di fronte al teatro Valle, venne aggredito da un gruppo di fascisti (Avanti!, 17 settembre 1925, p. 1).
Tuttavia, dalla fine degli anni Venti la sua posizione rispetto al fascismo cambiò. Iniziò, allora, la terza fase della sua biografia intellettuale, nella quale le sue posizioni politiche e culturali non sono facilmente definibili.
Il 12 marzo 1928 scrisse al capo ufficio stampa della Presidenza del Consiglio, Giovanni Capasso Torre: «Non ho bisogno di dire che nella richiesta di riprendere il mio posto nella vita giornalistica italiana era chiaramente implicito un mio atteggiamento verso il Regime fatto di serena e rispettosa comprensione storica delle profonde ragioni che ne hanno determinato la genesi e il trionfo [...]. Non vedo l’ora di poter significare pubblicamente con atti e con parole il mio distacco da un vecchio mondo che il Fascismo ha distrutto, alle idee del quale come dimostra tutta la mia opera, non ho mai dato che un consenso molto parziale» (BNC, Archivio Tilgher, ARC, 9, B, 61-64). Pochi giorni dopo ricevette una lettera dello stesso Capasso che gli comunicava il desiderio di Mussolini di leggere una sua critica contro la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 di Croce, appena pubblicata (63). In effetti Tilgher stroncò il libro (in una recensione comparsa sul quotidiano La stampa il 1° aprile), e di conseguenza venne riammesso fra le firme del giornalismo italiano. Soddisfatto, ringraziò Mussolini, a cui scrisse: «A V.E. io ripeto il grido augurale che il più grande dei poeti greci Pindaro levò per secoli senza numero a Jerone siracusano: un fato di beatitudine Te segue. Tu Sire, Tu Duce. Su Te pose il guardo, Se mai sovra alcun dei mortali, sublime destino» (66).
Coerentemente con questo avvicinamento al fascismo, in Homo faber (1929) presentò un’analisi del concetto di lavoro nella società occidentale e descrisse in termini entusiastici la Carta del lavoro del 1927, che aveva espresso i principi sociali del movimento fascista e la dottrina del corporativismo.
In realtà, le dichiarazioni pubbliche di Tilgher non convinsero la polizia politica fascista, che non smise di pedinarlo.
Negli anni Trenta Tilgher continuò a scrivere sia di letteratura – in particolare di poesia (La poesia dialettale napoletana, 1930; Studi di poetica, 1934) – sia di filosofia (Estetica, 1931; Cristo e noi, 1934); in quest’ultimo campo, tra le altre cose, accentuò la sua critica allo storicismo (Critica dello storicismo, 1935) e il suo pessimismo (Filosofia delle morali, 1937; Moralità: punti di vista sulla vita e sull’uomo, 1938), e divenne anche un valente studioso del pensiero di Giacomo Leopardi (La filosofia del Leopardi, 1940). Sul piano politico, ritornò progressivamente in contatto con il mondo antifascista, e in particolare con gli ambienti vicini al movimento Giustizia e libertà (ACS, MI, DGPS, DPP, FP, 98).
Morì a Roma il 3 novembre 1941, in seguito a una malattia al fegato.
Fonti e Bibl.: Roma, Biblioteca nazionale centrale (BNC), Archivio Tilgher, Archivi raccolte e carteggi (ARC), 9 (http://www.bncrm.beniculturali.it/getFile.php?id=1050); Archivio della Biblioteca universitaria Alessandrina (ABUA), ff. del personale, 1924; Archivio della Biblioteca Casanatense (ABCA), ff. 1926; Archivio centrale dello Stato (ACS), Ministero degli Interni (MI), Direzione generale pubblica sicurezza (DGPS), Divisione polizia politica (DPP), Fascicoli personali (FP), 98, Tilgher Adriano.
E. Garin, Cronache di filosofia italiana, 1900-1943, Roma-Bari 1955, pp. 311-314, 428-433; A. T., a cura di S. Cumpeta, Torino 1960; A. Santucci, Il pragmatismo in Italia, Bologna 1963, pp. 331, 338-348; L. Tilgher, A. T. com’era, Napoli 1978; C. D’Amato, A. T. e la coscienza della crisi nella cultura italiana tra le due guerre, Firenze 1983; G. Sasso, Tramonto di un mito. L’idea di progresso fra Ottocento e Novecento, Bologna, 1988, pp. 47-57; G. Lami, Introduzione a A. T., Roma 1990; A. T.: manifestazioni del centenario. Atti, a cura di G.F. Lami, Milano 1992; E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, 1918-1925, Bologna 1996, pp. 296-299; Carteggio Croce-T., a cura di A. Tarquini, Bologna 2004; R. Faraone, A. T. Tra idealismo e filosofie della vita, Soveria Mannelli 2005; A. Tarquini, Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna 2009, pp. 96-105.