OLIVETTI, Adriano
OLIVETTI, Adriano. – Nacque a Ivrea l’11 aprile 1901, primo di sei fratelli, da Camillo, di origine ebraica, e da Luisa Revel, valdese.
Il padre, ingegnere eclettico e geniale inventore, nel 1908 fondò a Ivrea la prima fabbrica italiana di macchine per scrivere.
Adriano seguì gli studi all’Istituto tecnico, indirizzo fisico-matematico, subendo in parte l’influenza paterna e pentendosi in seguito di non aver fatto il liceo classico per esprimere la sua inclinazione verso la cultura umanistica. Negli anni della formazione, fu molto attento al dibattito sociale e politico; frequentò ambienti liberali e riformisti, collaborò alle riviste L’azione riformista e Tempi nuovi ed entrò in contatto con Piero Gobetti e Carlo Rosselli.
Suo padre era socialista. Durante il fascismo nascose nella casa di Ivrea Filippo Turati, ricercato dalla polizia e, insieme a Ferruccio Parri e a Sandro Pertini, lo aiutò a espatriare. Alla guida della vettura che portò il leader socialista fuori dell’Italia c’era proprio Adriano. Parri, ripensando a quell’episodio, raccontò (L’utopista positivo, in Il Mondo, 15 marzo 1960) di essere rimasto colpito dalla personalità di quel giovane, timido e determinato.
Dopo essersi laureato in chimica industriale al Politecnico di Torino, nel 1924, Olivetti iniziò l’apprendistato nell’azienda paterna come operaio. Ricordava così quel periodo: «Una tortura per lo spirito, stavo imprigionato per delle ore che non finivano mai, nel nero e nel buio di una vecchia officina» (in un manoscritto, indicato da Valerio Ochetto come una prima stesura inutilizzata per Appunti per la storia di una fabbrica, in Il ponte, agosto-settembre 1949). Dal suo apprendistato, trasse la convinzione che «occorre capire il nero di un lunedì nella vita di un operaio, altrimenti non si può fare il mestiere di manager, non si può dirigere se non si sa che cosa fanno gli altri»(ibid.)
Nel 1924 sposò Paola Levi, figlia del patologo Giuseppe e sorella di Natalia Levi Ginzburg e di Gino Levi Martinoli.
Ex compagno di studi, Martinoli avrebbe avuto un ruolo importante durante gli anni dell’esilio di Olivetti in Svizzera, alla guida dell’impresa di Ivrea e sarebbe stato una figura di spicco nella formazione manageriale sul modello olivettiano, durante gli anni Cinquanta e Sessanta.
Da Paola Levi Olivetti ebbe tre figli: Roberto, Lidia e Anna. Paola, insofferente al provincialismo eporediese, convinse Adriano a trasferire la residenza a Milano; questa fu una svolta importante per l’imprenditore sotto il profilo culturale, perché a Milano si trovò a contatto con un vivace universo intellettuale che gli permise di arricchire la sua sensibilità e cultura nell’ambito dell’architettura, dell’urbanistica, delle scienze sociali e umane.
Adriano, tuttavia, non amava la vita mondana e, di fatto, dopo il divorzio da Paola (1938) e il successivo matrimonio con Grazia Galletti – da cui ebbe una figlia, Laura – si trasferì di nuovo a Ivrea, a villa Belli Boschi, dove godette di un’atmosfera di serenità e riservatezza, pur vivendo una vita intellettuale e culturale ad alta densità.
Il momento più significativo nella vita del giovane Olivetti è rappresentato dal suo lungo soggiorno negli Stati Uniti, dal luglio 1925 sino al gennaio 1926, accompagnato da Domenico Burzio, fedelissimo collaboratore del padre. Durante il viaggio visitò un centinaio di fabbriche, soprattutto meccaniche. Una grande lezione gli venne dalla visita agli stabilimenti Ford di Highland Park, dove ebbe occasione di entrare in contatto con la filosofia fordista e di conoscere da vicino l’applicazione dei metodi di organizzazione scientifica del lavoro, rispetto ai quali elaborò una visione personale e innovativa.
Tornato in patria, introdusse, a fianco del ‘cronometrista’, la figura dell‘‘allenatore’ che studia il posto di lavoro, suggerendo modifiche e strumenti specifici e, solo dopo questa razionalizzazione, dimostra come attuare i tempi di fase, lavorando lui stesso per un certo periodo. I benefici riguardano sia l’operaio, che raggiunge senza eccessiva difficoltà i tempi richiesti, sia la qualità del prodotto finito e l’uniformità delle linee.
La riflessione sviluppata da Olivetti nel corso della sua esperienza negli Stati Uniti, anche attraverso lo studio di una vasta produzione teorica, lo portò a una duplice consapevolezza. In primo luogo vi era la necessità di passare da forme di apprendimento del dato tecnico fini a se stesse a forme di apprendimento dotate di senso, basate, cioè, sulla comprensione delle connessioni non solo tra il dato tecnico e il contesto, ma inerenti anche le relazioni strutturali da cui dipendono tali connessioni. In secondo luogo vi fu la constatazione che il ritardo tra l’Europa e il Nord America, alla fine degli anni Venti, non era tanto di tipo tecnico ma di tipo organizzativo e che l’internalizzazione del fattore organizzativo nelle dinamiche d’impresa implicava la definizione di criteri di priorità, di gerarchie inerenti sia la configurazione tecnica dell’impresa, sia i meccanismi della decisione dai quali dipendevano le gerarchie socio-organizzative.
Un aspetto meno noto dell’esperienza americana di Olivetti è che visitò gli Stati Uniti esattamente nel periodo in cui venne avviato il ‘movimento per le relazioni umane’, il cui effetto fu una revisione degli aspetti più stereotipati e meccanicistici del taylorismo e che divenne noto come l’esperimento Hawthorne, dal nome di uno degli stabilimenti in cui ebbe origine la sperimentazione. Si trattò di una serie di esperimenti psicometrici, psicotecnici e psicologici sulle condizioni di lavoro che coinvolse due grandi stabilimenti industriali della Western Electric. Le istituzioni che vi presero parte, in collaborazione con l’impresa, furono il National research council, il Department of industrial research, la Harvard business school e la Rockefeller foundation. I coordinatori dell’esperimento furono un professore di human relations a Harvard e il direttore del dipartimento di ricerca della Western Electrics. L’artefice del cambiamento di paradigma realizzato dall’esperimento fu Elton Mayo, medico australiano che, frequentando la London school of economics di Londra, aveva compiuto un’immersione piuttosto inusitata per un medico nell’ambito degli studi antropologici, collaborando con Bronislaw Malinowski. Nel 1926 Mayo fu chiamato a Harvard a far parte del gruppo Pareto che, a carattere interdisciplinare, guidato dal sociologo Lawrence J. Henderson, animava un dibattito sulla revisione della teoria economica classica in rapporto alle emergenti teorie manageriali.
I contatti diretti e indiretti di Olivetti con questi ambienti rafforzarono ulteriormente l’originalità e l’indipendenza rispetto ai modelli tayloristici delle imprese americane. Dopo il soggiorno oltreoceano, sul piano della produzione industriale, propose un vasto programma di rinnovamento aziendale: organizzazione decentrata del personale, direzione per funzioni, razionalizzazione dei tempi e metodi di montaggio, sviluppo della rete commerciale in Italia e all’estero, avviando anche il progetto della prima macchina per scrivere portatile che uscì nel 1932, col nome di MP1.
Il 1932 segnò una svolta decisiva nel percorso di Adriano. Il 4 dicembre di quell’anno, infatti, la nuova assemblea degli azionisti ratificò la sua nomina a direttore generale, rendendo possibile il pieno dispiegamento della sua visione innovativa, il cui successo imprenditoriale fu favorito, in ambito internazionale, anche da alcuni fattori storici: tra questi, la trasformazione di varie industrie di macchine da scrivere tedesche in industrie belliche, voluta da Adolf Hitler, dopo la sua ascesa politica del 1933, fatto che permise all’Olivetti di espandersi sul mercato tedesco.
La nuova organizzazione fece aumentare in maniera significativa la produttività della fabbrica e le vendite dei prodotti.
Adriano introdusse in Olivetti il Servizio pubblicità, con la collaborazione di importanti artisti e designers. Fondò inoltre la rivista Tecnica e organizzazione (il primo numero uscì nel gennaio 1937) che teneva conto delle esperienze accumulate, con lo scopo di accompagnare intellettualmente il processo d’innovazione in atto, mediante la pubblicazione di saggi di tecnologia, economia, sociologia industriale.
Cominciò cosi a delinearsi quella che si sarebbe consolidata come ‘la matrice olivettiana’, una sintesi organizzativa a carattere insaturo e dinamico che aveva al centro una progettualità in costante evoluzione, non solo rispetto all’impresa, ma anche rispetto alle persone che in essa operavano, mediante un processo di costante attraversamento-integrazione di competenze professionali specialistiche. Ciò permise a Olivetti di far emergere forme di professionalità di raccordo che a loro volta erano in grado di fertilizzare l’ambiente dell’impresa, configurandolo in modo tale che le doti, le attitudini, le intelligenze, lo spirito creativo dei singoli potessero estrinsecarsi nel modo più libero, assecondando tendenze e orientamenti non necessariamente predisposti da uno schema di strutture create a priori. In questo modo Olivetti poté creare una riserva preziosa di uomini, di idee e di percorsi ad alto potenziale innovativo che si realizzarono, ma che non furono certo privi di forze contrastanti, anche all’interno della sua stessa famiglia, che contava diversi azionisti.
Gli anni Trenta videro il dissidio tra Adriano e il fratello minore Massimo, amico e compagno di tanti anni di studio e lavoro, che però non accettava la linea del fratello, soprattutto quella della politica di fabbrica basata sullo sviluppo della produzione tecnologica e sull’aumento salariale ai dipendenti. Lo strappo fu totale e si concluse solo con la prematura scomparsa di Massimo nel 1949; ma questa vicenda lasciò solchi profondi nell’animo di Adriano.
Si è ritenuto che il motivo del repentino cambiamento nell’atteggiamento di Massimo fosse l’influenza negativa della moglie tedesca, Gertrud Kiefer von Raffler. Donna sicuramente di carattere forte e ambizioso, Gerta fu sempre mal vista dagli altri membri della famiglia Olivetti, a cominciare proprio da Adriano che ebbe forti sospetti su di lei quando, nel periodo fascista, da Berlino, partirono indagini sulla Olivetti per irregolarità amministrative.
Non sempre Adriano trovò sostegno nella famiglia soprattutto per le sue iniziative inerenti la sua azione solidaristica nei confronti della comunità, dello sviluppo della cultura, del design, dell’architettura, che richiedevano, inevitabilmente, forti investimenti.
Un aspetto cruciale e per certi aspetti problematico del percorso olivettiano fu quello del suo orientamento tra l’attrazione verso alcune della politiche organizzative del fascismo e un chiaro antifascismo intellettuale e ideologico che andò consolidandosi alla fine degli anni Trenta, divenendo esplicito e consapevolmente perseguito all’inizio del secondo conflitto mondiale.
L’adesione al fascismo e alle idee di Mussolini non ci fu mai e nemmeno vi fu una collaborazione stretta con la burocrazia statale. Tuttavia, nella sua continua ricerca del ‘socialmente innovativo’, Olivetti arrivò ad avvicinarsi ideologicamente al corporativismo, nell’utopistica speranza di poter spostare a sinistra il baricentro del fascismo. Alcuni biografi, in particolare Ochetto, hanno rilevato la sua vicinanza a Giuseppe Bottai, figura peraltro molto originale e non sempre allineata alle politiche del fascismo. I punti di contatto ebbero a che vedere con aspetti riguardanti l’urbanistica e i movimenti razionalisti in architettura dai quali lo stesso Mussolini dopo un’iniziale entusiastica adesione, prese le distanze, optando per l’architettura ‘romana’, di prestigio universale, che seguiva i canoni del consolidamento dell’ideologia.
La crescita dell’organizzazione all’interno dell’azienda e il processo d’innovazione riflessiva e consapevolmente orchestrata favorirono l’autonomizzazione completa di Olivetti dai movimenti più o meno ideologizzati del suo tempo in un ambito che fu in modo crescente al centro dei suoi interessi, quello della pianificazione urbanistica, a partire dalla progettazione del Piano regolatore della Valle d’Aosta (edito nel 1943 dalle Nuove Edizioni Ivrea, la prima casa editrice che Olivetti fondò), uno studio urbanistico condotto, a partire dal 1937, da un’équipe di architetti e ingegneri del calibro dei razionalisti Luigi Figini e Gino Pollini, coordinata dallo stesso Olivetti. Nel 1938 Olivetti aderì all’Istituto nazionale di urbanistica (nel 1948 divenne membro del Consiglio direttivo).
Durante la seconda guerra mondiale, l’attività di Olivetti si intensificò sia sul fronte politico e delle riforme, sia sul piano del suo ruolo di editore, scrittore e uomo di cultura. Fondamentalmente convinto della vittoria degli Alleati, già dal 1940 cominciò a scrivere alcuni appunti politici sulla futura democrazia italiana, che sarebbero stati poi alla base del libro cardine della sua politica: L’ordine politico delle Comunità dello Stato secondo le leggi dello spirito (Roma 1946). Nel corso del 1943, l’impegno politico s’intensificò, tanto da portare a incontri segreti con alcune personalità della Casa reale, in particolare con la principessa Maria José, e da metterlo in pericolo.
Nel luglio 1943 fu arrestato, sotto l’accusa di cospirazione col nemico. In contatto con Allen Dulles, coordinatore europeo dell’OSS (Office of strategic services, la progenitrice dell’attuale CIA, della quale Dulles divenne direttore) e residente in Svizzera, gli scrisse una lettera, intercettata dalla polizia, in cui metteva in allerta gli Alleati sulla figura di Badoglio. Rilasciato dopo l’8 settembre (avendo rischiato di rimanere in mano ai tedeschi), si nascose per alcuni mesi a casa di amici a Roma e Milano e infine nel febbraio 1944 fuggì in Svizzera, da dove riuscì a rimanere in contatto con la fabbrica, temporaneamente gestita da Martinoli, Giuseppe Pero e da Giovanni Enriques, che aveva l’incarico di responsabile per le esportazioni. Inoltre (forse attraverso Dulles) riuscì a evitare che la fabbrica di Ivrea fosse bombardata, salvando così i macchinari, cosa che avrebbe permesso alla Olivetti di ripartire in condizioni di vantaggio sulle concorrenti alla fine del conflitto.
Durante l’esilio in Svizzera (1944-45) divenne un sostenitore del federalismo europeo, soprattutto dopo il suo incontro con Altiero Spinelli. Il citato L’ordine politico delle Comunità costituì anche la base teorica per un’idea federalista dello Stato che, nella sua visione, si fondava appunto sulle comunità, vale a dire unità territoriali culturalmente omogenee ed economicamente autonome.
Il concetto veniva cosi sintetizzato: «Una Comunità né troppo grande né troppo piccola, concreta, territorialmente definita, dotata di vasti poteri, che desse a tutte le attività quell’indispensabile coordinamento, quell’efficienza, quel rispetto della personalità umana, della cultura e dell’arte, che il destino aveva realizzato in una parte del territorio stesso, in una singola industria» (p. 14). Al centro del saggio si ponevano due principi: quello della responsabilità sociale dell’impresa e della sua capacità di tradurre in progresso civile i risultati dello sviluppo industriale e quello della valorizzazione delle competenze al posto delle appartenenze politiche, sostenendo un attivismo amministrativo che aveva come riferimento la società civile, contrapposto all’attivismo politico centrato sui partiti.
Nel saggio, pubblicato dalle edizioni NEI (Nuove Edizioni Ivrea), trasformate nel 1946 nelle Edizioni di Comunità, Olivetti esprimeva le idee che furono alla base del Movimento Comunità, fondato nel giugno 1947: proposte intese a istituire nuovi equilibri politici, sociali, economici tra i poteri centrali e le autonomie locali.
Le Edizioni di Comunità, sin dagli esordi, furono caratterizzate da un intenso programma editoriale, in vari campi della cultura, del pensiero politico, delle scienze sociali, della filosofia, dell’organizzazione del lavoro, facendo conoscere autori d’avanguardia o di grande prestigio all’estero, ma poco conosciuti nel nostro paese. Saggi come quelli di Simone Weil sulla vita operaia o di Raymond Aron sul rapporto tra Occidente e Unione Sovietica, classici da Max Weber a Emile Durkheim, da Ferdinand Tönnies a Robert Lynd aprivano visioni del tutto estranee alle paludi della cultura italiana uscita dal fascismo. La cultura olivettiana agì come una ‘seconda università’, aprendo un fronte – quello delle scienze sociali e in particolare della sociologia generale e applicata – che, pur avendo radici profonde nella ricerca economica e sociale nel nostro paese tra fine Ottocento e primo Novecento, era stato sostanzialmente oscurato dal fascismo.
La rivista Comunità, che iniziò le pubblicazioni nel 1946, divenne il punto di riferimento culturale del Movimento. Alla fine del 1959 le Edizioni di Comunità pubblicarono una raccolta di saggi di Olivetti stesso sotto il titolo Città dell’uomo, dove emergevano i grandi temi olivettiani e cominciavano a prendere forma le personalissime rielaborazioni del pensiero filosofico che lo avevano maggiormente ispirato negli anni Trenta e Quaranta, in particolare il personalismo di Emmanuel Mounier e di Jacques Maritain.
Si può essere capitalisti e rivoluzionari? Può l’industria darsi dei fini che non siano solo i profitti? Si può proporre la società perfetta che converge verso la città di Dio e intanto incominciare a correggere questa nostra realtà quotidiana, così imperfetta e sottoposta a spinte contrastanti?
Per tradurre le idee comunitarie in realizzazioni concrete, Olivetti nel 1955 fondò l’IRUR – Istituto per il rinnovamento urbano e rurale del Canavese – con l’obiettivo di combattere la disoccupazione nell’area canavesana promuovendo nuove attività industriali e agricole.
Queste attività si intrecciarono profondamente con quelle legate alla pianificazione urbanistica a cui Olivetti si era dedicato fin dagli anni Trenta. Nel 1949 fece rinascere, finanziandola personalmente, la rivista Urbanistica. Salito al vertice dell’Istituto nazionale di urbanistica con l’appoggio di giovani e brillanti architetti tra i quali spiccava Ludovico Quaroni, sviluppò un discorso originale e innovativo sul primato politico dell’urbanistica e della pianificazione, che gli valse riconoscimenti anche sul piano internazionale. Nel 1956 divenne membro onorario dell’American institute of planners e vicepresidente dell’International federation for housing and town planning; nel 1959 fu nominato presidente dell’Istituto UNRRA - Casas (United Nations relief and rehabilitation administration), creato in Italia, nell’ambito del piano Marshall, per la ricostruzione postbellica.
Il suo ruolo di architetto dell’innovazione fu particolarmente rilevante nell’esperimento della ricostruzione di aree particolarmente depresse come quelle dei Sassi di Matera (La Martella), ispirato a Norris Town, la cittadina creata in America dal New Deal rooseveltiano, e destinato ad accogliere 300 famiglie contadine. Qui Olivetti cercò d’intrecciare la ricostruzione materiale degli edifici con la crescita morale e culturale delle popolazioni, valendosi di collaboratori di grande spessore intellettuale e morale come il filosofo di origine tedesca Friedrich Friedmann, il poeta e sindacalista Rocco Scotellaro e l’ispiratrice del primo Centro di educazione per assistenti sociali (CEPAS) Angela Zucconi, nonché del supporto di ricercatori americani che svolgevano in quegli anni ricerche sul Meridione d’Italia, col sostegno della Fondazione Rockefeller.
Il rapporto con le fondazioni americane è un capitolo poco noto della vicenda biografica di Olivetti, che ebbe tuttavia un ruolo molto importante nella disseminazione della sua visione riformatrice oltreoceano e nell’emergere di un’élite di ‘imprenditori di idee’ che nello sviluppo delle scienze sociali individuarono un fattore di rinnovamento delle società industriali nella seconda metà del Novecento. Uno dei momenti catalizzatori di tale orientamento fu la creazione nel 1954, all’interno della fabbrica di Ivrea, del Servizio di ricerche sociologiche e studi sull’organizzazione, che permise non solo l’impiego di psicologi e sociologi nello sviluppo delle politiche aziendali, ma la realizzazione di un esperimento volto all’integrazione tra il principio della formazione come addestramento tecnico con quello del lavoro, inteso come insieme di competenze efficientemente applicate e come vettore dinamico nella produzione di conoscenze.
Il Servizio, nella ricerca del superamento delle gabbie tayloristiche, costituì non solo un nucleo di monitoraggio delle configurazioni organizzative, sociali e culturali dell’impresa ma fu, grazie al ruolo svolto da intellettuali come Luciano Gallino, Franco Momigliano e, dagli anni Sessanta, Federico Butera, un luogo di progettazione rispetto alle sue stesse dinamiche evolutive. Non operò in chiave di applicazione di teorie sociali e organizzative alla gestione d’impresa, ma di costante riconfigurazione tra gli assetti di quest’ultima e gli apporti del pensiero teorico nelle scienze sociali e dell’organizzazione, in un ciclo processuale al cui centro si poneva innanzitutto la riflessività operativa degli ingegneri, chiamati a essere, molti anni prima che il termine divenisse di moda, dei ‘lavoratori della conoscenza’, al servizio dell’arricchimento culturale dell’impresa e dei suoi linguaggi (necessariamente non armoniosi) oltre che della sua produttività.
Si può sostenere che il lavoro degli intellettuali olivettiani assunse la funzione di una cerniera imperfetta e creativa della dialettica difficile tra stabilità dei linguaggi (per comprendersi) e mutamento (per comprendere). Significativamente, accanto al Servizio era stato creato un ufficio studi, ideato da Franco Ferrarotti, denominato Centro studi delle Comunità, dove le ricerche sociali, completate da vari gruppi di ricercatori sparsi a livello nazionale, si concentrassero sui problemi chiave. Tali studi avrebbero potuto poi essere sfruttati anche a livello internazionale, confrontando, per esempio, i risultati con i ricercatori europei.
La poliedrica personalità di Olivetti lo portò a impegnarsi non solo nel campo industriale e imprenditoriale, ma a occuparsi anche di problemi di architettura e a coniugare tali problematiche alle riforme sociali, sulla linea di Lewis Mumford. A Ivrea, avviò la progettazione e costruzione di nuovi edifici industriali, uffici, case per dipendenti, mense, asili nido, organizzando così un sistema articolato ed evolutivo di servizi sociali, che vennero progressivamente integrati nell’impresa. Già nel 1948 negli stabilimenti di Ivrea era stato costituito il Consiglio di gestione, per molti anni unico esempio in Italia di organismo paritetico con poteri consultivi di ordine generale sulla destinazione dei finanziamenti per i servizi sociali e l’assistenza. Nel 1956 l’Olivetti ridusse l’orario di lavoro da 48 a 45 ore settimanali, a parità di salario, in anticipo sui contratti nazionali di lavoro, con i sabati liberi e tre settimane di ferie estive; inoltre i salari dei lavoratori erano tra i più alti in assoluto e a essi si aggiungevano i benefici indiretti, creati dall’assistenza e dai servizi di tutela medico-sanitaria dei lavoratori. Altra iniziativa di rilievo fu la concessione di un premio-ferie, basato su un’alta percentuale (circa il 60%) degli utili annuali; poi ci furono i prestiti per l’acquisto della casa; i contributi ai lavoratori per le spese per mezzi di trasporto pubblici, mense, asili nido; un servizio gratuito di riparazione di moto e biciclette; l’organizzazione di campeggi estivi per i giovani.
Uno dei tratti distintivi dell’impresa olivettiana fu di coniugare lo sviluppo industriale più avanzato col rispetto delle tradizioni contadine: agli operai venivano concessi permessi per coltivare i campi, vendemmiare, curare il fieno. Il processo d’industrializzazione non doveva cioè risultare un’imposizione dall’alto che si sovrapponeva alle tradizioni esistenti, ma doveva armonizzarsi con esse, senza sovvertirle.
Il rispetto della persona e il suo pieno compimento, attraverso il lavoro, inteso non come alienazione, ma come realizzazione dell’essere umano nella sua completezza furono al centro dei progetti di Olivetti e riguardarono tutte le funzioni della società, incluse quelle più elevate, come la formazione delle élites dirigenti. Fu in questo spirito che Olivetti creò nel 1952 l’IPSOA (Istituto di perfezionamento in scienze dell’organizzazione aziendale) con sede a Torino, la prima scuola di management europea che si valse di prestigiosi docenti provenienti dalle business schools americane, come parte integrante del corpo docente.
Vi si insegnava in inglese e veniva utilizzato il metodo dei casi, applicato nelle più prestigiose università statunitensi. Gli allievi svolgevano periodi di formazione presso le grandi imprese e studiavano non solo materie economiche e aziendalistiche, ma anche sociologia industriale e del lavoro, marketing, teoria dell’organizzazione. Si trattò di un esperimento molto innovativo, in contrasto col carattere conservatore dell’establishment universitario italiano, dove dominavano le lezioni ex cathedra e dove la formazione economica era di tipo prevalentemente teorico.
A partire dal 1956, la scuola di Torino, cessò di essere coordinata dai collaboratori di Olivetti (il primo direttore fu Giovanni Enriques) e passò nelle mani di uomini scelti da Vittorio Valletta che aveva contribuito finanziariamente alla creazione dell’Istituto. Terminò così la collaborazione con i docenti americani e non si tennero più lezioni in inglese, sparirono dal piano di studi le materie più innovative e si tornò ai modelli tradizionali dell’economia aziendale. Dalla fine degli anni Cinquanta iniziò la diaspora olivettiana: allievi ed ex assistenti dell’IPSOA crearono in diverse parti d’Italia – dal Veneto alla Sicilia – scuole di management che cercarono di riprodurre il modello dell’istituto di Torino, rappresentando altrettante aree istituzionali di disseminazione di un’innovazione culturale che tuttavia penetrò con difficoltà nel sistema industriale italiano, dominato da un approccio paternalistico e da una stretta irregimentazione del lavoro operaio.
La lentezza e l’ostracismo contro cui si scontrarono le sue riforme, dentro e fuori il mondo imprenditoriale, spinsero Olivetti a cercare nell’agone politico un possibile acceleratore del movimento di trasformazione culturale e sociale che animava la sua visione. L’obiettivo era quello di far compiere al Movimento Comunità il salto di qualità necessario per diventare una forza politica alternativa credibile. Nel 1956 il Movimento si presentò alle elezioni amministrative e Olivetti fu eletto sindaco di Ivrea. Il successo indusse il Movimento a presentarsi anche alle elezioni politiche del 1958, ma risultò eletto il solo Olivetti, che cedette il seggio parlamentare a Ferrarotti.
Il 1958 rappresentò un annus terribilis per Olivetti: messo in minoranza nel Consiglio d’amministrazione, lasciò la carica di amministratore delegato e smobilitò la parte più prettamente politica del progetto Movimento Comunità. La rivista Tecnica e organizzazione cessò le sue pubblicazioni. Ciononostante la realtà d’impresa dell’Olivetti non smise di essere in pieno fermento, l’innovazione era a flusso continuo, sia sul piano delle relazioni industriali, sia sul piano strategico ed organizzativo.
A partire dalla metà degli anni Cinquanta Olivetti aveva sviluppato il settore dell’elettronica, agendo sia sul piano progettuale, sia sul piano teorico e concettuale, accumulando la materia grigia necessaria a supportare il processo innovativo, sia, infine, nell’ambito della produzione industriale, con la collaborazione del figlio Roberto e di ingegneri dotati di grande talento, come Mario Tchou, di origine italo-cinese. Fin dal 1952 aprì a New Canaan, negli USA, un laboratorio di ricerche sui calcolatori elettronici. Nel 1955 fu costituito il Laboratorio di ricerche elettroniche a Pisa; nel 1957 fu fondata, con Telettra, la Società generale semiconduttori (SGS) e nel 1959 fu introdotto sul mercato l’Elea 9003, il primo calcolatore elettronico italiano sviluppato e prodotto nel laboratorio di Borgolombardo. Nel 1957 Olivetti ottenne il riconoscimento della National management association di New York che gli assegnò un premio per «l’azione di avanguardia nel campo della direzione aziendale internazionale».
Nel design industriale, come nella progettazione architettonica, Olivetti si circondò di collaboratori di grande valore, come Marcello Nizzoli e, più tardi, Ettore Sottsass. Tra la fine degli anni Quaranta e la fine degli anni Cinquanta, l’Olivetti portò sul mercato alcuni prodotti destinati a diventare veri oggetti di culto per la bellezza del design, ma anche per la qualità tecnologica: la macchina per scrivere Lexikon 80 (1948), la portatile Lettera 22 (1950), la calcolatrice Divisumma 24 (1956).
Nel corso degli anni Cinquanta, dunque, la capacità produttiva dell’Olivetti era cresciuta a livello esponenziale, sia sul mercato nazionale sia su quello internazionale. In Italia vennero creati gli stabilimenti di Pozzuoli – famoso per il suo design architettonico a vetrate magnificamente affacciate sul paesaggio, realizzato da Luigi Cosenza – di Agliè (1955), di San Bernardo di Ivrea (1956), della nuova ICO a Ivrea e di Caluso (1957).
Gli investimenti nel Mezzogiorno ebbero un impatto rilevante. Un imprenditore che offriva impiego, assistenza, istruzione per i figli, oltre a salari maggiori della media, rappresentava una novità assoluta nella realtà meridionale e uno stimolo molto forte per i lavoratori, i cui risultati produttivi, infatti, si rivelarono incisivi, superiori persino a quelli raggiunti negli stabilimenti di Ivrea.
Altrettanto rilevanti furono anche gli investimenti e la creazione di consociate all’estero, in particolare nel paesi emergenti. In Brasile, nel 1959 fu inaugurato il nuovo stabilimento di San Paolo. Nella seconda metà degli anni Cinquanta l’Olivetti era una delle più grandi multinazionali europee.
Davanti alle prime crisi di sovrapproduzione Olivetti, fedele a quanto gli aveva insegnato il padre, prese una decisione controcorrente: non chiuse le fabbriche, né licenziò gli operai ma, al contrario, fece crescere la struttura commerciale, puntando in modo particolare, sulla formazione dei venditori, figure professionali fino ad allora dequalificate, di cui colse invece l’importanza strategica. Il successo fu tale che pensò di realizzare un’impresa senza eguali: comperare una fabbrica statunitense. Nel 1959 concluse un accordo per l’acquisizione della Underwood, un’azienda con quasi 11.000 dipendenti a cui Camillo Olivetti si era ispirato quando nel 1908 aveva avviato la sua iniziativa imprenditoriale.
Alla ristrutturazione di questa azienda Olivetti intendeva affidare l’espansione e il consolidamento organizzativo e di mercato dei settori emergenti che per lui e per il figlio Roberto rappresentavano il futuro dell’impresa: l’elettronica e l’informatica.
All’improvviso però, il 27 febbraio 1960, sul treno Milano-Losanna, fu colpito da una trombosi cerebrale che gli fu fatale.
Lasciava un’azienda presente in tutti i mercati internazionali, con oltre 45.000 dipendenti, di cui 27.000 all’estero, guidata da dirigenti e tecnici di elevato profilo, sia sul piano culturale e intellettuale, sia su quello tecnico-manageriale (dalle relazioni interne con Franco Momigliano, alla comunicazione con Leonardo Sinisgalli, Ignazio Weiss, Libero Bigiaretti, Renzo Zorzi, dalla pubblicità, con Franco Fortini e Giorgio Soavi, alla grafica con Xanti Schawinsky, Costantino Nivola, Giovanni Pintori, al design dei prodotti, con Aldo Magnelli e Marcello Nizzoli). L’impresa possedeva un potenziale di progettualità innovativa, fondata sulla sintesi creativa tra cultura tecnico-scientifica e cultura umanistica, unico in Europa, e un ineguagliabile capitale umano e tecnico-scientifico. Trovò, tuttavia, ostacoli insormontabili in una società caratterizzata da un basso potenziale di cultura industriale e da una scarsissima propensione alle riforme istituzionali. Negli anni successivi alla morte di Olivetti, col pretesto di una crisi contabile, l’impresa venne commissariata (1964) e fu, di fatto, ‘normalizzata’.
Il significato del lascito di Olivetti, la profondità del suo percorso innovativo, può essere colto attraverso le parole di Norbert Elias: «Ogni società possiede, in un dato momento, uno slancio che la spinge oltre la sua condizione attuale, una dinamica propria che può essere bloccata, ma che anche in quel caso costituisce un elemento intrinseco della sua struttura» (Utopie scientifiche e utopie letterarie per il futuro, in Intersezioni, IV, [1984], p. 5).
Opere: Oltre a quelle citate, da ricordare: Società, Stato, Comunità. Per una economia e politica comunitaria, Milano 1952; Stato federale delle comunità, a cura di D. Cadeddu, Milano 2004.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio della Fondazione Adriano Olivetti, fondo Adriano Olivetti; College Park (Maryland), National Archives and Records Administration. G. Berta, Le idee al potere: A. O. tra la fabbrica e la comunità, Milano 1980; C. Musatti et al., Psicologi in fabbrica, Torino 1980; U. Serafini, A. O. e il Movimento Comunità: una anticipazione scomoda, un discorso aperto, Roma 1982; Bibliografia degli scritti di A. O., a cura di G. Maggia, Siena 1983; V. Ochetto, A. O., Milano 1985, Venezia 2009; G. Sapelli - R. Chiarini, Fini e fine della politica. La sfida di A. O., Milano 1990; G. Gemelli, Un esperimento in vitro: l’IPSOA di Torino, in Scuole di management; Le origini delle business schools in Italia, a cura di G. Gemelli, Bologna 1997; L. Curino - G.Vacis, Olivetti, Milano 1998; F. Ferrarotti, Un imprenditore di idee. Una testimonianza su A. O., a cura di G. Gemelli, Torino 2001; L. Gallino, L’impresa responsabile. Un’intervista su A. O., a cura di P. Ceri, Torino 2001; Costruire la città dell’uomo. A. O. e l’urbanistica, a cura di C. Olmo, Torino 2001; Un’azienda e un’utopia. A. O. 1945-1960, a cura di S. Semplici, Bologna 2001; G. Gemelli, Scienze sociali, ingegneria e management. Il ruolo del «Servizio di ricerche sociologiche e studi organizzativi» nell’innovazione strategica della società Olivetti (1955-1975), in NEHS/NessiIstituzioni, mappe cognitive e culture del progetto tra ingegneria e scienze umane, a cura di G. Gemelli - F. Squazzoni, Bologna 2003; Id., Politiche scientifiche e strategie d’impresa nella Ricostruzione, Roma 2005; R. Novara -R. Rozzi - G. Garruccio, Uomini e lavoro alla Olivetti, Milano 2005; D. Cadeddu, Il valore della politica in A. O., Roma 2007; G. Sapelli - D. Cadeddu, A. O. Lo spirito nell’impresa, Trento 2007; B. de’ Liguori Carino, A. O. e le Edizioni di Comunità (1946-1960), Roma 2008; S. Ristuccia, Costruire le istituzioni della democrazia. La lezione di A. O., politico e teorico della politica, Venezia 2009.