ADOZIONE (lat. adoptio; fr. adoption; sp. adopción; ted. Adoption, Einkindung; ingl. adoption)
È istituto che ha per fine il passaggio di un individuo da un gruppo gentilizio ad un altro. L'adozione è nota ai più antichi popoli e si trova già giuridicamente disciplinata presso i Babilonesi (legge di Ḫammurabi, XVIII sec. a. C.), gli Ebrei, i Greci; ma solo nel diritto romano essa trova la sua fondamentale sistemazione.
I Romani distinsero l'adozione di una persona alieni iuris o adozione propria, da quella di una persona sui iuris o arrogazione.
È alquanto complicato il procedimento con cui si addiveniva all'adozione propriamente detta. Il padre naturale doveva anzitutto perdere la sua patria potestà sul figlio da cedersi in adozione, e ciò si otteneva in base al disposto delle XII Tavole, per cui perdeva la patria potestas chi avesse venduto per tre volte in quasi servitù il figlio o una volta la figlia. Avvenuta questa triplice vendita nella forma del mancipio, la patria potestà del padre naturale era così estinta, ed allora l'adottante rivendicava con la in iure cessio, avanti al magistrato, la sua patria potestà sull'adottando, che passava in tal modo nella sua famiglia. Il diritto giustinianeo abolì tutto questo formalismo, contentandosi della dichiarazione di adozione fatta dal padre naturale avanti al magistrato, presente l'adottante e consenziente l'adottando.
L'adozione nell'antico diritto romano pone l'adottato nella stessa posizione di un figlio naturale. L'adottante acquista la patria potestas con tutti i diritti ad essa inerenti, compreso quello di usufrutto sul peculio avventizio dell'adottato; questi incorre nella capitis deminutio minima, restando soltanto cognato nei confronti della sua famiglia naturale e diventando, invece, agnato in quella adottiva, col diritto perciò alla successione quale heres suus. Questo nel diritto pregiustinianeo. Giustiniano volle mantenere tutti questi effetti solo all'adozione fatta da un ascendente, detta adoptio plena; l'adozione invece compiuta da un estraneo, o adoptio minus plena, non produrrà nel diritto giustinianeo altro effetto che quello dell'acquisto da parte dell'adottato del diritto a succedere ab intestato nel patrimonio dell'adottante.
Fine precipuo dell'adozione è quello di porre rimedio alla mancanza di figli naturali per la continuazione della famiglia e del culto dei sacra; ma essa è anche usata spesso indirettamente a scopo politico: per esempio per aprire l'adito per suo mezzo a cariche politiche riservate a una determinata classe sociale (v. p. es.: transitio ad plebem).
Dopo Giustiniano, i Longobardi prima e poi i Franchi portano in Italia un tipo di adozione propria del diritto germanico, fatta solennemente avanti all'assemblea attraverso varî riti simbolici e con effetti di natura morale più che giuridica. Venuti però a contatto con i Romani, essi trovano presto nell'adozione romana il modo di supplire alla successione testamentaria ignota al loro diritto; e, particolarmente per impulso della Chiesa, desiderosa di lasciti testamentarî, si diffondono e si affermano sempre più rapidamente nell'Italia longobardo-franca le forme di adozione per scripturam, adoptiones in hereditatem, equivalenti a veri patti successorî. L'adoptio in hereditatem si trova infatti largamente usata nell'alto Medioevo nella forma della cosiddetta affiliatio o affratatio, per cui alcuno viene chiamato alla successione come figlio o come fratello. Ma l'opposizione all'adozione si fa viva nel periodo feudale, quando l'adottato è riguardato un intruso nella successione feudale ed è pertanto escluso da questa. D'altra parte la successione testamentaria vera e propria è ormai sufficientemente libera e rispettata per non render più necessario il ricorso alla finzione dell'adozione, la quale si riduce così ad istituto ben raramente usato e di ben poco conto nella legislazione e nella giurisprudenza del basso Medioevo fino ai tempi moderni.
Accoglierà poi l'adozione, peraltro entro ristretti limiti, il codice napoleonico; poi i codici degli stati italiani e finalmente, non senza contrasti, il codice civile italiano del 1865.
L'istituto dell'adozione è regolato dal codice negli articoli 202-219. Ha lo scopo di permettere a coloro che non hanno avuto figli, o li hanno perduti, la creazione di una filiazione (adoptio imitatur naturam) che si dice civile, in quanto essa sorge non già per vincolo di sangue, ma per un rapporto giuridico costituito mercé il consenso, con le condizioni e con le forme stabilite dalla legge.
Dal progetto del codice civile il Pisanelli aveva bandito l'istituto dell'adozione, osservando che esso aveva origine da concetti aristocratici e non era più rispondente ai bisogni della società moderna. La commissione del Senato lo ripristinò, e il Mancini, nel discuterne alla Camera, definì l'adozione "morale e benefica, vincolo di affetto e di gratitudine fra gli individui e talvolta di ravvicinamento tra le diverse classi sociali".
L'adozione, però, qual è regolata dal codice civile, non ha il carattere che aveva nel diritto romano, per il quale l'adottato mutava il suo stato di famiglia passando sotto la nuova potestà dell'adottante. Nel diritto nostro, invece, l'adottato non estingue il legame con la sua famiglia originaria e non cade sotto la patria potestà dell'adottante. L'art. 212 espressamente sancisce: "l'adottato conserva tutti i diritti e doveri verso la sua famiglia naturale". Sicché è stato giustamente rilevato che l'adozione è, prevalentemente, un atto di liberalità, senza cessare, per altro, di essere un rapporto di diritto familiare.
Condizioni perché possa farsi luogo l'adozione. - Sono le seguenti. L'adottante, uomo o donna,
a) deve aver compiuto i 50 anni;
b) non deve avere discendenti legittimi o legittimati (art. 202). Entrambe queste condizioni sono imposte dal carattere precipuo dell'adozione, cioè quello di essere un sollievo morale per le persone che non abbiano attualmente figli propri o che, per lo meno, abbiano visto notevolmente scemata la probabilità di averne. Ed è, perciò, da ritenere, sebbene ciò sia controverso, che, ad impedire l'adozione, basta il concepimento di un figlio legittimo, giacché è principio generale di diritto che conceptus pro nato habetur quotiens de commodis eius agatur e qui, appunto, il commodum del concepito è di non dividere con altri gli affetti, le cure, il patrimonio del proprio genitore. Viceversa, non sarebbe di ostacolo all'adozione l'esistenza di un figlio naturale anche riconosciuto o dichiarato;
c) deve superare almeno di 18 anni l'età dell'adottando (art. 202), e ciò per mantenere all'adozione il carattere di un rapporto che imiti quello fondato sul vincolo di sangue;
d) l'adottato deve avere almeno l'età di 18 anni (art. 206) giacché l'adozione, nel sistema del codice, è un rapporto giuridico consensuale, ed è chiaro che, prima che si raggiunga l'età di 18 anni, non si ha, di regola, sufficiente discernimento. Tale condizione è stata, eccezionalmente, non richiesta dal regio decreto legge 31 luglio 1919, n. 1357, per l'adozione degli orfani di guerra e dei trovatelli nati durante la guerra, pei quali si ammise, e molto saviamente, che l'adozione potesse farsi in qualunque età, e, naturalmente, senza il consenso dell'adottando, sostituito dal consenso dell'organo di tutela, cioè dal Comitato provinciale di assistenza, su relazione del giudice delle tutele;
e) sia l'adottante sia l'adottando, qualunque sia la loro età, devono munirsi del consenso dei rispettivi genitori (legittimi) e coniuge (anche separato) quando siano viventi (art. 209). Se l'adottando, minore degli anni 21, non ha genitori viventi, occorre il consenso del consiglio di famiglia o di tutela (art. 209). Tali consensi possono essere prestati o con l'intervento nell'atto d'adozione o mediante procura (art. 213);
f) non si possono adottare più figli se non col medesimo atto (art. 203). Generalmente, si ripone la ragione di questo divieto nella considerazione che, raggiunto lo scopo di crearsi artificialmente una filiazione, non vi sia più ragione di una successiva adozione. Ma forse la ragione del divieto deve porsi in ciò, che l'adottando, il quale deve prestare il suo consenso, deve esser posto in grado di sapere, all'atto dell'adozione, se sarà lui solo ad avere questa qualità o se l'avrà insieme ad altri. Che se, invece, la ragione fosse quella che comunemente si adduce, dovrebbe vietarsi anche l'adozione contemporanea di più persone, perché con l'adozione di un solo sarebbe raggiunto ugualmente quello scopo;
g) non si può essere adottati da più persone che non siano due coniugi (art. 204). Questa condizione è pur essa inspirata al concetto che l'adozione deve imitare, per quanto è possibile, la filiazione naturale legittima. I due coniugi possono adottare la stessa persona con unico atto o con atti successivi;
h) i figli nati fuori del matrimonio non possono essere adottati dai loro genitori (art. 205), e ciò per impedire che l'adozione si sostituisca alla legittimazione, che è il mezzo più logico e conseguente, e costituisce anche un dovere morale per il genitore, e, soprattutto, per vietare che, attraverso l'adozione, i figli naturali adulterini od incestuosi abbiano, per vie traverse, uno stato di famiglia che la legge non consente. Né il tutore può adottare la persona di cui ebbe la tutela se non dopo aver reso il conto dell'amministrazione (art. 207). La ragione del divieto è evidente: impedire che il tutore, sotto l'apparenza dell'adozione, si proponga lo scopo di non rendere il conto della sua amministrazione.
Forma dell'adozione. - Consiste in un atto ricevuto dal cancelliere della Corte d'appello nel cui distretto ha domicilio l'adottante, innanzi al quale l'adottante e l'adottando devono prestare il reciproco consenso (art. 213). Tale atto, a cura della parte più diligente, dev'essere presentato, entro i dieci giorni, alla Corte per l'omologazione (art. 214). La Corte, dopo avere assunte le opportune informazioni, verificherà: 1° se tutte le condizioni siano state adempiute; 2° se l'adottante goda buona fama; nel che, com'è chiaro, è implicito che non può adottare chi abbia subìta una condanna che porti come conseguenza l'interdizione legale; 3° se l'adozione convenga all'adottando (art. 215). Raccolte le indagini, la corte, sentito il pubblico ministero, in camera di consiglio, ed omessa ogni altra formalità di procedura, con decreto pronunzia: si fa luogo o non si fa luogo all'adozione (art. 216); cioè senza alcuna motivazione, e ciò per impedire che, in rapporti così delicati, siano rese note le ragioni per le quali la Corte d'appello eventualmente non creda di omologare l'adozione. Naturalmente, trattandosi di un decreto, emesso in sede di giurisdizione volontaria, esso non acquista autorità di giudicato. Nell'ipotesi, quindi, che l'atto di adozione non sia stato omologato si può rinnomre l'istanza, e contro il decreto, che abbia concessa o negata l'omologazione, non sono ammissibili né il ricorso per cassazione né quello per revocazione.
L'adozione si deve ritenere perfezionata nel momento in cui interviene l'omologazione. Il consenso che deve prestare l'autorità giudiziaria, infatti, è costitutivo, non integrativo del rapporto giuridico di adozione: esso è uno degli elementi di cui consta questo rapporto, come, nel matrimonio, uno degli elementi costitutivi è la pronunzia dell'ufficiale dello stato civile.
Il decreto che ammette l'adozione viene pubblicato ed affisso in quei luoghi e numero di copie che la Corte stimerà di prescrivere, ed inserito nel giornale degli annunzî giudiziarî del distretto e nel giornale ufficiale del regno (art. 218). Infine, l'atto di adozione, nei due mesi successivi al decreto della Corte, sulla presentazione di copia autentica dell'atto di adozione e del decreto della Corte, sarà annotato in margine dell'atto di nascita nei registri dello stato civile, giacché esso porta una modificazione allo stato personale. Il termine di due mesi non è, naturalmente, di decadenza. Non osservato, impedisce che la adozione possa aver effetto rispetto ai terzi, nei cui riguardi avrà effetto solo dal giorno della seguita annotazione (art. 219). Ma anche questa limitazione è di scarsissima importanza.
Effetti dell'adozione. - Sono personali e patrimoniali. I primi sono i seguenti:
a) L'adottato assume il cognome dell'adottante e l'aggiunge al proprio (art. 210), quindi lo trasmette ai proprî discendenti.
b) L'adottante ha diritto di prestare il consenso al matrimonio dell'adottato minore di 21 anni, anche se questi abbia genitori viventi (art. 63). Nel caso di disparere tra genitore e adottante, è da ritenere che il matrimonio non possa celebrarsi, salvo al figlio il diritto di giovarsi del reclamo alla Corte d'appello, a norma dello articolo 67 del codice civile.
c) Si costituisce un impedimento dirimente al matrimonio, tra l'adottante, l'adottato e i suoi discendenti, tra l'adottato e i figli sopravvenuti all'adottante; tra l'adottato e il coniuge dell'adottante, e tra l'adottante e il coniuge dell'adottato (art. 60, 104). All'uopo, devesi avvertire che soltanto per gli impedimenti al matrimonio la legge estende gli effetti dell'adozione all'infuori dei rapporti fra adottante e adottato, come eccezione al principio generale consacrato nell'art. 212, già ricordato.
Gli effetti patrimoniali dell'adozione sono i seguenti:
a) L'adottante ha il dovere di continuare, occorrendo, dice la legge (intendendo, cioè, affermare che tale obbligo è sussidiario a quello dei genitori dell'adottato ai quali incombe principalmente, in conseguenza della patria potestà che essi conservano) l'educazione dell'adottato.
b) Deve prestargli gli alimenti quando ne avesse bisogno, ed a quest'obbligo è tenuto, a differenza di quello precedente, prima dei genitori legittimi o naturali dell'adottato.
c) L'adottato, a sua volta, è tenuto a prestare gli alimenti, in caso di hisogno, all'adottante, e se questi ha figli legittimi o naturali, concorre, nell'adempimento dell'obbligo, con costoro (art. 211).
d) L'adottato (e i suoi discendenti) ha diritto di succedere all'adottante anche in concorso di figli legittimi di lui, e nella stessa misura di questi, ma il figlio adottivo succede unicamente all'adottante, non anche ai parenti di lui (art. 737) ed ha diritto benanche, nella successione dell'adottante, ad una quota di riserva pari a quella che spetta ai figli legittimi, cioè la metà dei beni lasciati dal testatore (art. 805, 806).
Finalmente, fra gli effetti patrimoniali dell'adozione, va posta la revocazione di diritto del testamento fatto anteriormente all'adozione (art. 888).
Proposte di riforma. - Recentemente, da autorevoli giuristi, dal Polacco specialmente, sono state suggerite proposte di riforme all'istituto dell'adozione per renderlo più agile, più frequente, più conforme ai bisogni e dalle esigenze dell'età nostra. Esse si possono cosi riassumere:
a) Permettere l'adozione anche nel caso che l'adottando abbia meno di 18 anni, sostituendo al suo consenso quello dei genitori naturali o degli organi di tutela e richiedendo anche l'assenso dell'adottando che abbia sufficiente discernimento.
b) Ridurre da 50 a 40 anni l'età minima per l'adottante, come in molte legislazioni straniere, alcune delle quali la riducono a 30.
c) Non richiedere il consenso del coniuge dell'adottante e di quello dell'adottando, quando sia dichiarato infermo di mente o sia di ignota residenza o separato legalmente.
d) Rimettere alla convenzione delle parti la conservazione o l'abbandono del nome dell'adottando.
e) Porre, come ostacolo all'adozione, la presenza non soltanto di figli legittimi o legittimati, ma benanche di figli naturali riconosciuti o dichiarati.
f) Ammettere la possibilità di adottare i figli naturali nei casi nei quali è possibile il loro riconoscimento; o, almeno, nel caso di abolizione della legittimazione per decreto reale, sostituire ad essa l'adozione del figlio naturale che non può essere legittimato per matrimonio, e con le condizioni e forme proprie dell'adozione.
g) Togliere, o almeno limitare, l'impedimento al matrimonio derivante dal vincolo d'adozione.
h) Nei rapporti successorî non porre in istato d'eguaglianza i figli legittimi e gli adottivi, né mai posporre a questi i figli naturali riconosciuti o dichiarati.
Infine, una proposta di riforma, più radicale, e più discussa, è quella che riflette la possibile revocazione di essa, la quale, già ammessa in molte legislazioni stianiere (cod. civ. germanico § 1768; cod. svizzero art. 269; cod. austriaco § 183; cod. spagnolo art. 180, fu accolta dal decreto legge 31 luglio 1919, art. 7, nei casi in cui, a norma degli articoli 18 e 19 della legge 8 luglio 1917, n. 1143, si può far luogo a provvedimenti contro il genitore o il tutore per abuso della patria potestà, compromissione degli interessi morali o materiali dell'orfano per negligenza o errori del tutore). La revocabilità dell'adozione dovrebbe ammettersi, secondo alcuni, oltreché per mutuo consenso, anche per colpa dell'adottante e per ingratitudine dell'adottato, fissandone tassativamente i casi.
Il guardasigilli Oviglio nel suo disegno di legge Delega al governo della facoltà d'arrecare opportuni emendamenti al codice civile, ecc.: n. 2013, presentato alla Camera dei deputati il 10 febbraio 1923, richiamava l'attenzione della Camera sul principio della revocabilità, il quale fu accolto dalla Commissione parlamentare. Essa, all'uopo, osservò che tale principio "discende dalla considerazione che, sebbene l'adozione istituisca rapporti degni d'ogni tutela e sia approvata e sanzionata dallo stato, pur tuttavia si tratta sempre d'un rapporto fondato sulla volontà delle parti, che perciò, nel concorso di determinate circostanze, può essere annullato con la volontà contraria. Adozione è formazione d'una famiglia che non ha base naturale, formazione d'una famiglia fittizia, che può sciogliersi quando sia venuta meno la ragione della sua costituzione per il sopravvenire di fatti che rendano ingiusto il vincolo legale".
Se quasi tutte tali riforme s'impongono, oramai, per rendere più facile e frequente l'adozione, per farle raggiungere meglio i suoi scopi in relazione alle mutate esigenze sociali, devonsi tuttavia fare le più ampie riserve per quanto riguarda la revocabilità. Non deve dimenticarsi, invero, che, per quanto fittizia, l'adozione costituisce sempre uno stato di famiglia, che, una volta costituito, non può dissolversi per mutuo consenso, e, quanto ai casi d'indegnità dell'adottante, potrebbe essere sufficiente una norma analoga a quella dell'art. 233 cod. civ., cioè far perdere ogni potere all'adottante sull'adottato, mentre nei casi di indegnità dell'adottato è sanzione adeguata il far perdere il diritto di successione, a norma dell'art. 725 cod. civ. e, per l'ingratitudine, la revoca delle eventuali donazioni (art. 1081 cod. civ.).
Occorre, piuttosto, semplificare la procedura, e garantire la serietà dell'assunzione delle informazioni.
Bibl.: F. S. Bianchi, Corso di cod. civ., VII: Adozione e patria potestà, Torino 1909; B. Dusi, Il dir. civ. ital.: Filiazione e adozione; Napoli 1907; A. Sisto, L'adozione e la sua funzione sociale, Venezia 1904; R. De Ruggiero, Deroghe al codice civile in materia di adozione e di tutela, in Atti della R. Accademia di Napoli, 1920, p. 417 segg.; V. Polacco, Delle riforme da apportare all'istituto dell'adozione, in Atti del R. Ist. veneto di scienze e lettere, LXXXII (1922-23), p. 679 segg.; Atti parlamentari, Camera dei deputati n. 2013-1013-A, legislatura XXVI, sess. 1921-23.