Adozione e immigrazione. L’ordinamento italiano e la kafalah
La recente ratifica della Convenzione de L’Aia del 1996 da parte del legislatore italiano non ha segnato anche l’attesa introduzione di un esplicito e organico riferimento normativo all’istituto della kafalah nell’ordinamento italiano. Il Parlamento ha infatti ritenuto necessario predisporre una normativa ad hoc al fine di garantire un armonizzazione con gli altri istituti del diritto italiano in materia di adozione e di ricongiungimento familiare. Resta quindi all’esame del Parlamento lo stralcio del disegno di legge di ratifica nella parte dedicata alla kafalah. E resta ancora centrale il ruolo della giurisprudenza che ha già formato un consistente acquis di decisioni di merito e legittimità nelle quali il riconoscimento dell’istituto è ispirato all’effettiva tutela del superiore interesse del minore e dell’unità dei nuclei familiari.
Gli ordinamenti giuridici hanno generalmente uno sguardo aperto oltre i loro confini in materia di tutela dei minori. Vi è una generale consapevolezza nell’ordinamento internazionale che la tutela dei diritti dei minori richiede un’efficace cooperazione transnazionale e il superamento di barriere culturali e pregiudizi che ostano all’accoglienza di minori che vivono in realtà particolarmente sfavorevoli e spesso molto lontane dai paesi più ricchi. La strada dell’adozione è quella generalmente preferita per la sua capacità di offrire al minore una piena legittimazione di status e una piena tutela dei suoi diritti nella famiglia di accoglienza. Una scelta recepita dagli Stati anche per l’attenzione esclusiva riservata dalla Conferenza di diritto internazionale privato de L’Aia all’adozione con la Convenzione del 29 maggio 1993 sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione. La Convenzione è stata predisposta con la finalità, non esclusiva ma assolutamente rilevante, di stroncare una gestione privatistica e spesso anche opaca delle adozioni internazionali. Di qui lo stretto collegamento fra autorità designate dagli Stati (quello di origine del minore e quello in cui si deve realizzare l’adozione) che caratterizza sin dall’inizio il procedimento di adozione internazionale insieme all’impossibilità per i richiedenti di entrare autonomamente in contatto con i minori, le loro famiglie e gli istituti cui sono temporaneamente affidati. Altri requisiti rilevanti nel sistema della Convenzione sono l’esclusione di qualsiasi causa lucrativa nell’operato dei soggetti protagonisti della procedura di adozione, la preventiva valutazione di idoneità degli aspiranti alla adozione da compiere nel loro paese di residenza, i rilevanti poteri di indagine, controllo e intervento attribuiti alle autorità centrali. Il legislatore italiano, con la l. 31.12.1998, n. 476 ha opportunamente redistribuito le competenze spettanti secondo la Convenzione all’autorità centrale attribuendole all’autorità giurisdizionale, all’autorità centrale (la Commissione per le adozioni internazionali CAI costituita presso la Presidenza del Consiglio dei ministri) e agli enti da quest’ultima autorizzati a svolgere il ruolo di esecutore della procedura e di interlocutore con le autorità e le istituzioni del paese di origine del minore. Per effetto della Convenzione il procedimento di adozione internazionale può definirsi come un iter predisposto per il rigoroso accertamento della rispondenza dell’adozione all’interesse del minore e alla trasparenza dell’operato dei soggetti cui è affidato il suo svolgimento. Il legislatore italiano ha rafforzato questo carattere garantendo la possibilità di un contraddittorio esteso a tutte le fasi del procedimento e fissando i presupposti normativi per una qualificazione non formale dei controlli. L’adozione da parte del cittadino italiano del minore straniero comporta l’acquisto dello stato di figlio e della cittadinanza italiana. Ciò ovviamente legittima il rapporto permanente del minore con il territorio nazionale. Tale rapporto peraltro non è limitato all’ipotesi dell’adozione da parte di un cittadino italiano ma si estende a una gamma di ipotesi che hanno come comun denominatore il riconoscimento del diritto all’unità della famiglia e quindi al ricongiungimento o alla coesione dei membri che la compongono. La materia è ampiamente disciplinata dal diritto europeo e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione che in particolare ha affermato nella sentenza Chakroun (C. giust. UE, 4.3.2010, C578/08) il principio secondo cui il diritto europeo in materia di unità familiare deve essere interpretato non restrittivamente al fine di non privarlo del suo effetto utile in favore del minore. Per quanto riguarda la titolarità del diritto a chiedere il ricongiungimento (inteso come diritto del cittadino straniero soggiornante in Italia a chiedere l’ingresso e il soggiorno in Italia dei suoi familiari) la giurisprudenza ha chiarito che il diritto spetta a tutti i cittadini stranieri soggiornanti nel territorio italiano in forza di qualsiasi autorizzazione al soggiorno per periodo non inferiore a un anno (Cass., 3.4.2008, n. 8582) o in casi espressamente previsti anche indipendentemente dalla durata del soggiorno. Per quanto riguarda i soggetti nei confronti dei quali il ricongiungimento può essere chiesto va rilevato, ai fini del nostro argomento, che la richiesta è ammissibile nei confronti dei figli minori anche adottivi (del richiedente ma anche del coniuge) e nei confronti dei minori affidati o sottoposti alla tutela del richiedente. Per ciò che concerne invece la possibilità di fruire delle disposizioni in materia di diritto alla coesione familiare (intesa come diritto del cittadino straniero a richiedere l’autorizzazione all’ingresso e al soggiorno in Italia in quanto familiare di un cittadino italiano) la questione della estensione di tale diritto anche a favore dei minori stranieri affidati o sottoposti alla tutela di un cittadino italiano viene risolta dagli interpreti e dalla giurisprudenza in modo diverso assimilando tali soggetti agli «altri familiari», riconoscendo così il diritto alla coesione ai sensi degli artt. 2 e 3 d.lgs. 6.2.2007, n. 30 ovvero avvalendosi della disposizione di cui all’art. 29, co. 2, d.lgs. 25.7.1998, n. 286 (t.u. imm.). La questione si è posta specificamente quanto al riconoscimento nel nostro ordinamento dell’istituto della kafalah proprio dei paesi ispirati dall’insegnamento coranico. In particolare i problemi che si sono affacciati all’esame delle Corti italiane sono stati quelli relativi al riconoscimento di tale istituto al fine del ricongiungimento con lo straniero, soggiornante in Italia e affidatario in regime di kafalah di un minore residente all’estero, ovvero al fine del riconoscimento del diritto alla coesione familiare nel caso di cittadino italiano affidatario in regime di kafalah di un minore residente all’estero. Inoltre la giurisprudenza italiana si è confrontata con un compito di tipo comparatistico rilevando la necessità di fissare un termine di paragone per tale istituto, proprio del contesto islamico, con le forme di tutela e protezione dei minori proprie del nostro ordinamento, e in particolare con l’affidamento e con l’adozione, al fine di verificarne e in che misura la compatibilità nel nostro sistema del diritto di famiglia e dei minori. La Convenzione de L’Aia del 1996 (concernente la competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione del minore), sulla scia della Convenzione fondamentale dell’ONU del 1989 in materia minorile, include la kafalah fra le misure di protezione dei minori soggette al riconoscimento da parte degli Stati firmatari della Convenzione e l’Unione europea ha adottato questa Convenzione nel suo acquis in materia di cooperazione giudiziaria civile.
Prima di compiere quindi un rapido excursus della giurisprudenza italiana sembra opportuno chiarire per punti essenziali le caratteristiche della kafalah e l’impatto delle convenzioni internazionali e del diritto europeo sul diritto italiano.
2.1 La kafalah
«La kafalah è un istituto relativamente recente, diffuso specificamente nell’area nordafricana, che non può essere correttamente ritenuto di diritto islamico, ma vigente in paesi in cui la religione musulmana ha un impatto assolutamente preponderante nel tessuto sociale e dove quindi assume un peso decisivo, per ciò che concerne la protezione dell’infanzia, il divieto di adozione derivante dall’insegnamento morale del Corano» (Cass., 2.2.2015, n. 1843). Secondo tale visione il rapporto di filiazione è rigidamente ancorato alla generazione biologica perché la famiglia ha un’origine divina e la filiazione è espressione della volontà di Dio cosicché non è dato alla persona umana costituire artificialmente un rapporto di filiazione che può nascere esclusivamente all’interno di un legame lecito fra i genitori. L’incompatibilità di questa visione con la filiazione illegittima e con l’adozione è all’origine dell’istituto della kafalah ispirato al precetto coranico secondo cui un buon musulmano deve aiutare i bisognosi e in particolare gli orfani e i minori abbandonati (Cass., S.U., 16.9.2013, n. 21108). La kafalah non ha solo lo scopo di fornire protezione e assistenza ai minori abbandonati ma anche quello di «fornire ai minori, che non sono in grado di ricevere dalle loro famiglie d’origine, l’assistenza e la cura necessarie alla loro crescita, assicurando una tutela sostitutiva e integrativa che per molti aspetti può avvicinarsi all’affidamento. L’istituto offre una protezione di carattere sociale che intende supplire al venir meno del ruolo svolto in precedenza dalla famiglia patriarcale anche se il carattere intrafamiliare caratterizza prevalentemente la cd. kafalah negoziale. L’accordo fra la famiglia di origine e quella di accoglienza avviene infatti prevalentemente nel quadro della famiglia allargata e tende a responsabilizzare nei confronti dei minori le figure parentali che possono, per la loro posizione economica e per la disponibilità e capacità di fornire una cura ed educazione adeguata, contribuire in modo positivo alla loro crescita supplendo alle insufficienze del contesto familiare. A fronte di questo carattere di tutela sostitutiva e integrativa sta l’inidoneità della kafalah a recidere il legame del makfoul con i propri genitori, legame che durerà per tutta la vita e potrà riassumere la pienezza delle funzioni anche prima del compimento della maggiore età nel caso in cui vengano meno le ragioni di inadeguatezza del nucleo familiare originario. Per esempio nel caso in cui esso riacquisti una condizione di autosufficienza economica. Al corretto funzionamento dell’istituto secondo le finalità descritte è deputato il controllo amministrativo e/o giudiziario che si esprime nell’omologazione dell’accordo, nel permanere del potere di vigilanza sullo svolgimento della relazione, nella necessità dell’autorizzazione all’espatrio nel caso in cui l’affidatario (kafil) risieda o intenda risiedere all’estero insieme al minore (makfoul), nella possibilità di revoca dell’omologa» (Cass. n. 1843/2015). Se quindi la kafalah giudiziale riguarda i casi di abbandono di minori che non sono in grado di ricevere neanche dalla famiglia allargata una genitorialità sostitutiva la kafalah negoziale appare piuttosto, nella realtà sociale dei paesi che la riconoscono, come un intervento concordato all’interno della famiglia allargata che consente di supplire alle carenze del nucleo familiare di nascita. Ciò spiega il permanere della figura della kafalah esclusivamente negoziale non soggetta quindi (almeno sin dall’inizio) all’omologazione di un’autorità pubblica che sia investita delle competenze in materia di tutela dei diritti dei minori. Almeno astrattamente la kafalah negoziale può essere pattuita anche al di fuori del contesto familiare. L’omologazione può essere richiesta da coppie sposate da almeno tre anni, di religione musulmana e che possano essere considerate socialmente e moralmente idonee. Ciò implica che se a richiedere l’omologazione siano delle coppie formate da cittadini stranieri essi dovranno provare la loro appartenenza al credo musulmano. Alla richiesta di omologazione segue un’indagine amministrativa, diretta a vagliare il possesso dei requisiti da parte dei richiedenti e la rispondenza all’interesse del minore, che si conclude con un provvedimento autorizzatorio e l’annotazione sull’atto di nascita. Il kafil è investito della cura, educazione e mantenimento del minore e ha l’obbligo di farsene carico, come in un rapporto di filiazione. Tale obbligo è ovviamente più penetrante nel caso di minori abbandonati. I diversi ordinamenti statali configurano in modi differenti l’istituto della kafalah. In Marocco, dove il controllo è attribuito all’autorità giudiziaria, esiste la possibilità per il kafil di attribuire il nome e la qualità di erede al makfoul.
2.2 Le convenzioni internazionali e il diritto europeo
Esiste, per quanto si è detto sinora, un’evidente diversità degli istituti predisposti a tutela dei minori nel mondo occidentale e in quello musulmano. A un’originaria non comunicazione giuridica fra questi due mondi è subentrato, a livello internazionale, un approccio del tutto diverso a partire dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, sottoscritta il 20 novembre 1989 e resa esecutiva in Italia con l. 27.5.1991, n. 176, dove si afferma, all’art. 20, co. 1, che ogni fanciullo, temporaneamente o definitivamente privato del suo ambiente familiare, ovvero che non può essere lasciato in tale ambiente nel suo proprio interesse, ha diritto a una protezione e ad aiuti speciali dello Stato e dove si dispone che gli Stati contraenti debbono prevedere una protezione sostitutiva, in conformità con la loro legislazione nazionale. Al co. 3 dell’art. 20 della Convenzione di New York si precisa poi che tale protezione sostitutiva può concretizzarsi per mezzo dell’affidamento familiare, della kafalah, dell’adozione o in caso di necessità, del collocamento in adeguati istituti per l’infanzia. Nell’effettuare una selezione tra queste soluzioni, la norma prevede che si terrà debitamente conto della necessità di una certa continuità nell’educazione del fanciullo, nonché della sua origine etnica, religiosa, culturale e linguistica. Ma è con la citata Convenzione della Conferenza di diritto internazionale privato de L’Aia del 19 ottobre 1996, che la considerazione a livello internazionale dell’utilità della kafalah assume un valore più pregnante per il nostro ordinamento. La Convenzione ha un contenuto assai ampio nella consapevolezza che le disposizioni sulle misure di protezione devono costituire un sistema integrato e non divisibile al fine di creare un quadro internazionale capace di risolvere i conflitti amministrativi e giuridici e realizzare un’efficace cooperazione internazionale capace di gettare un ponte fra sistemi giuridici improntati a tradizioni culturali e religiose diverse. Per ciò che qui interessa la finalità della Convenzione è di consentire agli Stati una cooperazione efficace di fronte ai casi crescenti di collocamento dei minori in paesi stranieri mediante l’utilizzazione di strumenti diversi dall’adozione internazionale come la kafalah. La Convenzione prevede (all’art. 3, lett. e) che il collocamento di un minore in una famiglia di accoglienza tramite kafalah è una delle misure riconosciute di protezione dei minori oggetto della disciplina convenzionale di cui deve essere assicurato il riconoscimento e l’esecuzione in tutti gli Stati contraenti. All’art. 33 si indicano i principi e i criteri cui conformare il procedimento per l’attribuzione di effetti giuridici nei vari ordinamenti dei provvedimenti di affidamento. In particolare si richiama la considerazione prioritaria per l’interesse superiore del minore e si richiede la cooperazione e il consenso delle autorità preposte dal paese di origine e di accoglienza del minore. Alla sottoscrizione di tale convenzione l’Italia era tenuta (e lo ha fatto nel 2003), nel quadro della sua partecipazione all’Unione europea, in forza della decisione n. 2003/93/CE del Consiglio dell’UE del 19 dicembre 2002 secondo cui la convenzione apporta un valido contributo alla protezione dei minori a livello internazionale ed è pertanto auspicabile che le sue disposizioni siano applicate al più presto. L’Italia è inoltre tenuta al recepimento di tale convenzione nel proprio ordinamento interno in forza della successiva e correlata decisione del Consiglio n. 2008/431/CE del 5 giugno 2008 con la quale, all’art. 3, si dispone che gli Stati membri di cui all’articolo 1, § 1, che non hanno ancora ratificato la convenzione, prendano le disposizioni necessarie affinché gli strumenti di ratifica o di adesione siano depositati simultaneamente presso il Ministero degli affari esteri del Regno dei Paesi Bassi, se possibile anteriormente al 5 giugno 2010. L’Italia ha solo di recente ratificato tale convenzione con l. 18.6.2015, n. 101 ma dalla legge di ratifica sono state stralciate le disposizioni relative proprio alla kafalah.
2.3 La giurisprudenza della Corte di cassazione
Anche se in assenza di una disciplina giuridica le corti sono state investite da numerose richieste di ricongiungimento familiare di cittadini stranieri soggiornanti in Italia ma anche di richieste di riconoscimento dei provvedimenti di affidamento in kafalah di minori stranieri a cittadini italiani. La risposta giurisprudenziale, come probabilmente era scontato, non ha avuto un andamento univoco e sembra essersi consolidata su alcuni principi fondamentali solo di recente. Limitando questo excursus alla giurisprudenza di legittimità può subito constatarsi che tutte le controversie che hanno interessato dal 2005 ad oggi la Corte di cassazione hanno riguardato provvedimenti di kafalah adottati in Marocco, circostanza questa non casuale dato che il Marocco ha adattato la sua legislazione nella prospettiva della adesione alla Convenzione de L’Aia del 1996 di cui è stato il primo firmatario. Il primo caso venuto all’attenzione della Corte (Cass., 4.11.2005, n. 21395) ha riguardato un procedimento di adottabilità relativo a un minore affidato in kafalah a una coppia italiana e entrato senza visto di ingresso in Italia. La Corte ha respinto il ricorso inteso a far valere l’ammissibilità dell’impugnazione del provvedimento di adottabilità da parte degli affidatari in kafalah rilevando che ad essi, sulla base della stessa legislazione marocchina, non può attribuirsi la qualità di tutori del minore ma di affidatari con poteri di custodia e che pertanto va esclusa nei loro confronti la legittimazione a impugnare il provvedimento che dichiara l’adottabilità ai sensi dell’art. 17 l. 4.5.1983, n. 184 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori). La decisione di questa controversia piuttosto atipica ha però avuto un’importanza riflessa sulle successive perché per prima ha affermato la non contrarietà della kafalah all’ordine pubblico e ha posto una relazione di affinità fra kafalah e affidamento negando invece l’esistenza di un simile rapporto di assimilabilità rispetto all’adozione. Con una serie di decisioni del 2008 (Cass., 20.3.2008, n. 7472; Cass., 2.7.2008, n. 18174; Cass., 19.7.2008, n. 19734) e del 2010 (Cass., 28.1.2010, n. 1908) la rilevanza della kafalah è stata riconosciuta con riferimento a varie impugnazioni del diniego opposto da parte del Consolato italiano di Casablanca alle richieste di visto di ingresso in Italia di minori affidati in kafalah a connazionali marocchini regolarmente soggiornanti in Italia. Le uniformi decisioni della S.C. di attribuire ai provvedimenti di affidamento in kafalah il valore di titolo legittimante il diritto al ricongiungimento familiare si basa su un’interpretazione costituzionalmente adeguata dell’art. 29, co. 2, t.u. imm. che, nel necessario bilanciamento fra interessi pubblici costituzionalmente rilevanti, fa prevalere il diritto alla protezione dei minori. Secondo la S.C. una pregiudiziale esclusione del ricongiungimento familiare sulla base di un’interpretazione restrittiva della norma penalizzerebbe, con un vulnus al principio di eguaglianza nonché all’applicazione in Italia della Convenzione di New York del 1989, tutti i minori nati in paesi in cui la kafalah è l’unico istituto di protezione di cui possono fruire. Questa apertura non si è verificata invece nei primi due casi (Cass., 1.3.2010, n. 4868; Cass., 23.9.2011, n. 19450) riguardanti il riconoscimento di efficacia in Italia di affidamenti in kafalah pronunciati dalle autorità marocchine su richiesta di cittadini italiani. La prima di queste due controversie ha avuto ad oggetto l’impugnazione del diniego del visto di ingresso del minore in Italia da parte del Consolato di Casablanca. La seconda la richiesta alla Corte di appello di Roma di dichiarare l’efficacia in Italia dell’ordinanza emessa dal Tribunale di prima istanza di Casablanca che ha disposto l’affidamento in kafalah a una coppia italiana di un minore ricoverato in istituto e bisognoso di tutela e cure mediche. Sulle decisioni si può ritenere che abbia pesato la diversità della disciplina normativa in tema di immigrazione e ricongiungimento rispetto a quella riguardante la circolazione e il soggiorno dei cittadini dell’UE e dei loro familiari. Ma ancora di più ha influito la barriera antielusiva della normativa sull’adozione internazionale predisposta dall’art. 41 l. 31.5.1995, n. 218. Nella prima causa si è pertanto escluso che la disposizione dell’art. 28, co. 2, t.u. imm. possa valere a far ritenere applicabili, se più favorevoli, le disposizioni del t.u. per ciò che concerne il diritto all’unità familiare dei cittadini comunitari nei confronti dei loro familiari stranieri. È prevalsa infatti un’interpretazione che non lascia spazi all’interazione fra disciplina in materia di immigrazione e disciplina in materia di libera circolazione dei cittadini europei (e dei loro familiari). La Corte di cassazione ha inoltre negato le ragioni di una interpretazione estensiva degli artt. 2 e 3 del d.lgs. n. 30/2007 laddove indicano quali sono i familiari stranieri di cittadini dell’Unione che hanno diritto all’ingresso nel territorio europeo al fine di realizzare la coesione familiare. Nella seconda causa, riguardante, come si è detto, una richiesta di riconoscimento dell’efficacia in Italia di un provvedimento di kafalah con nomina come affidatario di un cittadino italiano, si è invece esclusa la possibilità di far valere l’affinità dell’istituto della kafalah con l’affidamento al fine di escludere l’applicazione dell’art. 41 l. n. 218/1995. Con la conseguenza della sottrazione della richiesta di riconoscimento della kafalah all’applicazione dell’ordinario procedimento di riconoscimento di cui all’art. 67 l. n. 218/1995 in favore della disposizione dell’art. 41 che fa salve le disposizioni delle leggi speciali in materia di adozione dei minori. La motivazione fa emergere chiaramente una dicotomia molto netta fra kafalah con affidatario straniero o italiano che viene giustificata con un’affermata (ma non molto convincente) recessività dell’esigenza di protezione dei minori nella seconda ipotesi. Un radicale revirement rispetto a queste due ultime decisioni è avvenuto più di recente con la sentenza Cass., S.U., 16.9.2009, n. 21108. La controversia aveva ad oggetto un ricorso avverso il diniego da parte del Consolato italiano di Casablanca del visto di ingresso per un minore marocchino affidato in kafalah a un cittadino italiano che, dopo aver risieduto insieme alla famiglia e al minore in Marocco, doveva ritrasferirsi in Italia per motivi di lavoro. Le S.U. hanno affermato il principio di diritto per cui il nulla osta all’ingresso del minore nel territorio nazionale non può essere rifiutato qualora il minore sia a carico o conviva nel paese di origine con il cittadino italiano affidatario ovvero gravi motivi di salute impongano che debba essere da questi personalmente assistito. La motivazione della sentenza è ispirata a una critica efficace della predetta dicotomia, posta dalla precedente sentenza, fra stranieri e cittadini italiani. Le ragioni di preminenza dell’interesse dei minori che inducono a un’interpretazione estensiva delle disposizioni in materia di ingresso nel territorio italiano dei minori stranieri sussistono infatti in entrambe le ipotesi. Per altro verso le finalità antielusive delle norme in materia di adozione internazionale sono poste nella motivazione in relazione e non in antitesi alla possibilità, anche per i cittadini italiani, di prestare la loro disponibilità all’accoglienza dei minori abbandonati o in situazione di grave disagio ma che vivendo in un paese di diversa cultura come il Marocco vedono preclusa la strada dell’adozione. Cass., 22.5.2014, n. 11404, ponendosi sulla scia dell’indirizzo tracciato dalle S.U., interpreta estensivamente l’espressione «altri familiari» di cui all’art. 3, co. 2, lett. a), del d.lgs. n. 30/2007 in conformità ai principi affermati dall’art. 3 della Convenzione di New York del 1989 e dall’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, secondo un’accezione non strettamente parentale, in ragione del perseguimento del superiore interesse del minore, prevalente su gli altri eventuali interessi confliggenti. Da ultimo la sentenza n. 1843/2015, cit., sviluppa i principi fissati dalla sentenza delle S.U. con riguardo a una domanda di riconoscimento in Italia dell’atto di presa in carica di due minori marocchini mediante affidamento in kafalah da parte dello zio paterno. La fattispecie concerneva una kafalah negoziale pattuita fra i genitori dei minori e il fratello del padre, residente in Italia da venti anni e divenuto anche cittadino italiano, al fine di consentire un aiuto economico e morale nella cura dei figli alla famiglia originaria in condizione di indigenza. Al raggiungimento dell’adolescenza dei minori il kafil aveva chiesto al Consolato di Casablanca il nulla osta all’ingresso in Italia dei minori e, non avendolo ottenuto, ha adito la Corte di appello di Brescia per ottenere il riconoscimento in Italia della kafalah. La Corte di cassazione ha respinto il ricorso del Ministero degli affari esteri ritenendo infondata la soggezione della domanda di riconoscimento all’art. 41 l. n. 218/1995 per la non riconducibilità dell’istituto della kafalah all’adozione. La Corte ha altresì valorizzato la possibilità di riconoscere nel nostro ordinamento anche la kafalah convenzionale soggetta all’omologazione dell’autorità pubblica e al controllo giurisdizionale e amministrativo nel corso della sua esecuzione sulla base della verifica in concreto della corrispondenza all’interesse del minore che nella specie risulta effettuata dalle autorità marocchine e dai giudici della Corte di appello con riferimento al carattere intrafamiliare dell’affidamento, al positivo esito della kafalah come mezzo di sostegno ai genitori nel periodo in cui i minori hanno vissuto in Marocco, alla prognosi positiva circa il temporaneo inserimento nella famiglia del kafil in base alle condizioni familiari, sociali e ambientali di accoglienza.
La descrizione dell’iter giurisprudenziale consente di affermare come consolidata la qualificazione della kafalah come strumento di protezione dei minori abbandonati, o in difficoltà nel loro nucleo familiare originario, soggetto ad essere riconosciuto nel nostro ordinamento, se passato al vaglio delle autorità del paese di provenienza del minore, sia ai fini del ricongiungimento familiare, secondo le norme in materia di immigrazione, sia ai fini della realizzazione dell’unità familiare nell’ipotesi di affidamento dei minori in kafalah a cittadini italiani o europei. Alla base di tale orientamento giurisprudenziale vi è la considerazione dell’istituto alla luce dei valori costituzionali, del quadro normativo internazionale, cui l’Italia aderisce, e dell’acquis dell’Unione europea, insiemi normativi che convergono tutti, in questa materia, verso il principio della preminenza dell’interesse del minore. L’orientamento della Corte di legittimità sottolinea la necessità di verificare l’effettività del controllo sulla sussistenza di requisiti e circostanze che consentano di escludere il perseguimento di finalità elusive della legislazione sull’immigrazione e sull’adozione e di verificare in ogni caso la rispondenza in concreto dell’affidamento all’interesse del minore. Di certo però le garanzie di tutela dei minori sarebbero più efficaci e tempestive se il recentissimo recepimento della Convenzione de L’Aia del 1996 non fosse stato incompleto a seguito dello stralcio delle disposizioni strumentali a un efficace adattamento dell’istituto della kafalah al fine della sua operatività in un diverso contesto giuridico e ordinamentale. Attualmente tale prospettiva rimane affidata al disegno di legge A.S. n. 1552bis («norme di adeguamento dell’ordinamento interno alla Convenzione sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori, fatta a L’Aia il 19 ottobre 1996») attualmente in trattazione presso la Commissione giustizia del Senato della Repubblica in sede referente (in www.senato.it). Ma è proprio la difficoltà del trapianto di un istituto in un altro ordinamento del tutto diverso a rendere complesso il compito del legislatore che forse dovrebbe valutare con maggiore attenzione le voci dei giuristi che suggeriscono la possibilità di recepire l’istituto della kafalah senza deformarlo ma agendo piuttosto sulla cooperazione e sui controlli finalizzati a garantire l’interesse superiore del minore e la prevenzione degli intenti elusivi.