TINO, Adolfo
– Nacque ad Avellino il 23 luglio 1900, ottavo di tredici figli, in una famiglia di modeste condizioni economiche.
Il padre, Alfonso, fu insegnante di scuola: di orientamenti liberali, attivo nella politica e nel giornalismo locali, fu animatore per molti anni di un’antica società avellinese di mutuo soccorso intitolata a Giuseppe Garibaldi.
Adolfo completò in anticipo gli studi medi ad Avellino, nel 1916, e si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Napoli.
Nel 1918 fu assunto come cronista parlamentare nel Giornale d’Italia, il quotidiano romano fondato e allora diretto da Alberto Bergamini, dove già lavorava il fratello maggiore, Sinibaldo. In un breve volgere di tempo Tino divenne una delle firme di punta delle pagine politiche del giornale ed editorialista del Piccolo, il foglio del pomeriggio del Giornale d’Italia. Fra il 1918 e il 1922, come giovane ma già autorevole giornalista parlamentare, ebbe occasione di conoscere e di frequentare i maggiori esponenti della vita politica del tempo, da Giovanni Giolitti a Francesco Saverio Nitti, da Giovanni Amendola a Claudio Treves e Filippo Turati, allo stesso Benito Mussolini. Quest’ultimo lo utilizzò sovente, nel periodo della sua ascesa politica, per tenere i rapporti con Bergamini e gli offrì poi, nelle elezioni del 1924, una candidatura per la Camera dei deputati che Tino rifiutò.
Inizialmente non ostile al governo Mussolini, come si vede da una sua intervista al capo del governo apparsa sul Giornale d’Italia il 5 dicembre 1923, dopo il delitto Matteotti (1924) Tino assunse un atteggiamento di intransigente opposizione al regime. Rimase al Giornale d’Italia fino al 1925 quando, essendo stato il giornale acquistato da un gruppo di industriali triestini che imposero una linea di assoluto sostegno a Mussolini, fu costretto a lasciarlo. Risalgono all’aprile-maggio del 1925 alcune importanti corrispondenze dai Balcani che furono fra i suoi ultimi scritti per il Giornale d’Italia.
Fra il 1924 e il 1925, insieme a un altro collaboratore del Giornale d’Italia, Armando Zanetti, e con il sostegno finanziario di Giuseppe Albertini, Tino fondò e diresse il settimanale Rinascita liberale. Pur idealmente vicino ad Amendola, Rinascita liberale si schierò fermamente contro la ‘scelta dell’Aventino’. Il giornale, che prese posizioni coraggiosamente contrarie al fascismo, subì continui sequestri fino a quando, a metà del 1925, dovette definitivamente sospendere le pubblicazioni.
Divenuta impossibile la prosecuzione dell’attività giornalistica, Tino – come raccontò egli stesso in una lunga intervista autobiografica (Adolfo Tino: intervista..., 1985) – progettò di lasciare l’Italia. Gli venne offerta un’assunzione in Francia nella Banca commerciale italiana, a condizione però di disporre del passaporto, che gli venne rifiutato dal ministero degli Interni su espressa indicazione di Mussolini. Decise allora di riprendere gli studi, interrotti negli anni di lavoro nel giornalismo, completò rapidamente la laurea in legge a Napoli e si trasferì a Milano intraprendendo, prima nello studio legale Mulassano e poi con un proprio studio, la carriera forense nella quale emerse molto rapidamente. Rimase intransigentemente su posizioni antifasciste e, parallelamente all’attività professionale, mantenne i contatti con l’opposizione antifascista. Fu legato principalmente agli ambienti amendoliani e fu anche molto vicino a Benedetto Croce, mentre a Milano frequentava Raffaele Mattioli e la sua cerchia intellettuale. A partire dal 1933 e poi a seguito dell’arrivo a Milano di Ugo La Malfa (1934), assunto nella Banca commerciale come vicedirettore e poi direttore dell’Ufficio studi, insieme a lui, Tino iniziò a tessere sistematicamente le fila dell’opposizione liberale al regime. Con l’inizio della guerra nacque l’idea di costituire un nuovo partito politico che raccogliesse l’opposizione liberale e democratica al regime e assicurasse all’Italia, dopo la fine, che ormai appariva possibile, del fascismo, un nuovo inizio, libero dal peso delle esperienze politiche prefasciste: il Partito d’Azione (Pd’A) di cui Tino fu, nel 1942, tra i fondatori.
Il Partito nacque dalla fusione di varie componenti: Tino, La Malfa, Mario Vinciguerra e altri rappresentarono l’eredità politica di Amendola. Nel Partito confluì inoltre il movimento di Giustizia e libertà creato a Parigi da Carlo e Nello Rosselli – uccisi nel 1937 a Bagnoles de l’Orne in un agguato della Cagoule francese – con Ferruccio Parri, Leo Valiani, Emilio Lussu, Riccardo Bauer e altri; vi furono molti esponenti che provenivano dal vecchio Partito repubblicano con i fratelli Oronzo ed Egidio Reale e infine il gruppo dei liberalsocialisti che si riunivano intorno a Guido Calogero e ad Aldo Capitini. Al Pd’A aderirono molti degli allievi di Croce, da Adolfo Omodeo a Guido de Ruggiero a Federico Chabod alla figlia del filosofo, Elena Croce. Lo stesso Croce fu per un certo tempo vicino agli azionisti, anche per il rapporto che lo legava a Mattioli che, pur non facendo parte formalmente del Pd’A, ne sostenne pienamente l’opera.
Nel 1942 Tino e La Malfa redassero un documento indirizzato al conte Carlo Sforza, che negli Stati Uniti coordinava l’attività dei gruppi antifascisti, nel quale descrivevano, sulla base di informazioni accuratamente raccolte negli ambienti contigui alla Casa reale e con largo anticipo rispetto agli avvenimenti del 1943, le manovre per sostituire Mussolini con un generale e per prendere le distanze dal regime e cercare così di salvare la monarchia. Nel documento, pubblicato sul New York Times il 28 giugno 1942, si mettevano in guardia gli Alleati contro il tentativo della monarchia di separare le proprie responsabilità da quelle del regime fascista e si affermava recisamente la necessità del mutamento istituzionale dalla monarchia alla Repubblica, scelta che fu uno e forse il più significativo dei tratti distintivi della posizione politica del Pd’A.
Alla fine del 1942 uscì il primo numero di L’Italia libera, il giornale clandestino del Pd’A, la cui stampa fu curata dal gruppo milanese del Partito. Si apriva con due scritti: un Appello agli Italiani e l’articolo Chi siamo redatti congiuntamente da Tino e La Malfa. Nell’articolo Chi siamo venivano disegnate nitidamente le idee direttrici del Pd’A. In questo articolo è chiaro il riferimento ad Amendola, di cui vi è una lunga citazione sulla «ispirazione profondamente religiosa della lotta contro il fascismo». A seguito delle indagini che seguirono la diffusione del giornale, la polizia riuscì a individuare i principali responsabili della pubblicazione in Tino e La Malfa. All’inizio del maggio del 1943 ambedue furono costretti a riparare in Svizzera. Tino fu accolto nella casa di Certenago sul lago di Lugano del marchese Rino de Nobili, un ex diplomatico vicino a Sforza che si era dimesso dalla diplomazia all’avvento del fascismo. I de Nobili erano imparentati con la famiglia Nathan a sua volta imparentata con i Rosselli. Nella casa di Certenago quasi cento anni prima si era rifugiato Giuseppe Mazzini in fuga dall’Italia.
All’indomani del 25 luglio 1943 la prima riunione dei partiti antifascisti a Milano ebbe luogo nello studio di Tino in via Monte di Pietà, come scrisse Giorgio Amendola nel suo Lettere a Milano. Al termine della riunione venne sottoscritto l’accordo politico e programmatico fra i partiti antifascisti che fu alla base dei Comitati di opposizione durante i quarantacinque giorni del governo Badoglio, prima dell’armistizio e poi dei Comitati di liberazione nazionale (CLN).
Dopo l’8 settembre 1943 Tino si rifugiò nuovamente a Certenago, dove restò fino alla fine della guerra. Rientrato in Italia dopo il 25 aprile 1945, prese parte alle vicende del Pd’A in quei mesi. Nel Congresso di Roma del Partito, nel febbraio del 1946, si schierò con Parri e La Malfa e con loro lasciò il Partito per costituire la Concentrazione democratica repubblicana che partecipò alle elezioni per l’Assemblea costituente. Subito dopo considerò conclusa la sua esperienza politica e riprese l’attività forense, divenendo uno dei più autorevoli avvocati di diritto commerciale del foro di Milano. Consulente legale di Mediobanca fin dalla sua costituzione (10 aprile 1946), ne divenne presidente nel 1958, carica che mantenne fino alla sua morte, avvenuta a Milano il 3 dicembre 1977.
Considerato da quanti lo conobbero come una delle intelligenze più lucide dell’antifascismo, Tino ha lasciato pochissime tracce scritte del suo pensiero. Per la fase giovanile vi sono gli articoli che scrisse per Il Giornale d’Italia, Il Piccolo e Rinascita liberale; per la fase della lotta antifascista i tre documenti scritti congiuntamente con Ugo la Malfa. Non è stata rinvenuta neppure la corrispondenza privata. Molte delle informazioni sulla sua vita sono desunte dalla citata intervista pubblicata postuma negli Annali dell’Istituto Ugo la Malfa.
Circa il suo standard professionale, mette conto di riportare le parole con le quali venne ricordato da Enrico Cuccia nella prima assemblea di Mediobanca seguita alla sua scomparsa: «[Adolfo Tino] ha profuso i tesori della Sua saggezza in consigli e in norme di condotta che hanno guidato lo sviluppo della banca sin dalla sua fondazione e conferito uno stile al nostro lavoro, di cui gli siamo profondamente riconoscenti. Chi non ha avuto la fortuna di ricorrere al Suo avviso, difficilmente può immaginare quanto ricca di insegnamenti fosse questa esperienza per la limpida chiarezza del Suo raziocinare, per la lucidità e, talvolta, per la spietatezza dei Suoi giudizi, per l’acutezza e la profondità delle Sue intuizioni. Egli era fra coloro quibus vivere est cogitare».
Circa il suo pensiero politico, i giudizi sulle vicende che condussero al fascismo si ricavano dall’intervista autobiografica (Adolfo Tino: intervista..., 1985). La sua tesi è che la vittoria del fascismo fu essenzialmente il frutto delle divisioni interne al mondo liberale. Erano stati piuttosto gli errori politici dei capi liberali a consentire quel successo. «Alle origini» – disse – «c’era il conflitto personale fra Giolitti e Nitti che dopo essere stati per un lungo periodo collaboratori, a un certo punto ruppero [...] se ci fosse stato un accordo Nitti-Giolitti la crisi italiana non avrebbe avuto lo sbocco che ebbe. Perché» – aggiunse – «fu crisi parlamentare e governativa; crisi parlamentare che sfibrava, non dava forza al governo, perché il Parlamento non riusciva ad esprimere una maggioranza di una certa serietà e stabilità [...]. Ancora nel ’22» – aggiunse – «si poteva salvare la situazione: Facta è un mandatario di Giolitti, accettato dai popolari e da Nitti, purché non ci fosse Giolitti. Che siamo sempre lì, il conflitto fra i due allora impedì che andasse al governo uno dei due maggiori responsabili della politica italiana [...]. Cosi si fece il governo [Facta] nel quale c’era gente molto dabbene, ma mancava il capo e non c’era la volontà politica...» (p. 521).
Leo Valiani in Tutte le strade conducono a Roma riferì di un colloquio con Tino avvenuto in Svizzera nel novembre del 1943. Scrisse Valiani riferendosi al periodo successivo all’armistizio: «Adolfo Tino, che effettivamente conosce meglio di me la psicologia dei ceti intermedi, dell’uomo della strada, mi mette in guardia contro la sopravvalutazione delle nostre possibilità democratiche. Nelle prospettive [...] dell’autogoverno del CLN egli scorge la tradizionale illusione degli intellettuali italiani, che si mettono alla testa delle masse rivoltose, ma non sanno che tale rivolta è un fuoco di paglia, di corta durata, al quale fanno seguito la ricaduta nello scetticismo e il risorgere dello spirito di compromesso. Tino teme che proprio il PdA, cioè il partito che prende più sul serio la democrazia, si sacrifichi, esaurisca le sue energie e il suo fascino e non abbia poi la possibilità di inserirsi nella realtà politica ridiventata conservatrice» (p. 238).
In Adolfo Tino c’era un’enorme passione politica, come può testimoniare chiunque abbia potuto conoscerlo e frequentarlo. I suoi giudizi sull’Italia politica del dopoguerra erano assolutamente e recisamente negativi. In particolare considerava inadatti al compito di guida dello Stato tanto i democristiani che i socialisti. Dei primi diceva che in loro prevaleva il desiderio di rivincita sul Risorgimento e che dalla religione cattolica non potevano ricavare il senso dello Stato. Sui secondi sosteneva che non avessero nessuna idea dei problemi del Paese. Era convinto che il problema di fondo dell’Italia fosse esprimere e incarnare la volontà e l’autorevolezza dello Stato, e che nella situazione del dopoguerra non vi fossero forze – scomparso il Pd’A – capaci di farlo.
In un articolo scritto all’indomani della sua scomparsa, Giorgio Amendola rivelò di avergli chiesto più volte perché avesse deciso di allontanarsi dalla vita politica, ma di non aver mai avuto risposta. Alla domanda sul perché un uomo di quella statura abbia rinunciato a quello che in fondo più lo appassionava, la politica, non c’è una risposta. Bisogna fare ricorso a una osservazione molto acuta di Riccardo Bacchelli che gli fu amico: «Forse in lui la passione soverchiava la vocazione politica».
Fonti e Bibl.: G. Calza Bedolo - A. Tino, Quello che ci disse l’on. Mussolini, in Il Giornale d’Italia, 5 dicembre 1923; A. T., Milano 1978 (in partic. R. Bacchelli, A. T.: ricordo di un amico, p. 11; G. Amendola, Antifascista lontano dai riflettori, p. 13; U. La Malfa, Il mio amico A. T., pp. 17-20); Mediobanca, Assemblea degli azionisti, anno 1978, Milano 1978, p. 9; L. Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, Bologna 1983, p. 238; A. T.: intervista sul Partito d’Azione, a cura di L. La Malfa Calogero, con la partecipazione di U. La Malfa, in Annali dell’Istituto Ugo la Malfa, 1985, vol. 1, pp. 519-545; A. T. giornalista (1918-1925), a cura di F. Gianotti, Avellino 1997.