PORRY-PASTOREL, Adolfo
PORRY-PASTOREL (Porry), Adolfo. – Nacque a Vittorio Veneto, in provincia di Treviso, il 14 novembre 1888, da Gustavo e da Concetta Cappellani; fu gemello maggiore di Aldo.
Il padre, ufficiale dei bersaglieri di origine anglo-francese, alla fine dell’Ottocento si trasferì a Roma, dove morì nel 1900 lasciando alla moglie il gravoso compito di crescere ben dieci figli: dal primogenito Amerigo alla piccola Idolina.
Fu nella capitale che nel 1906 Porry-Pastorel intraprese la carriera giornalistica, grazie all’interessamento del padrino Ottorino Raimondi, vicedirettore del Messaggero. Fin dall’inizio i suoi articoli si distinsero, oltre che per l’arguzia della penna, anche per l’originalità delle sue foto.
Con i reportage illustrati dalle sue stesse immagini, aprì la strada al fotogiornalismo, di cui in Italia è considerato il padre indiscusso, immortalando la storia del Paese in nove milioni di scatti, sempre da quell’angolazione anticonvenzionale e stravagante che ben rifletteva il suo carattere. Un professionista che, per battere la concorrenza, si avvalse di ogni mezzo, come l’invio dei negativi delle sue foto con i piccioni viaggiatori.
A soli vent’anni Porry era il fotogiornalista più in voga della capitale, conteso dai quotidiani Il Messaggero, La Vita e Il Giornale d’Italia che alla fine riuscì ad averne l’esclusiva, sotto la direzione di Alberto Bergamini. Il suo estro, la sua fantasia, la sua insaziabile curiosità, lo spinsero a recarsi in Germania a perfezionare le tecniche di zincografia e fotoincisione per poter riprodurre le immagini su carta stampata; tecnica, questa, poi diffusa attraverso un corso da lui stesso tenuto all’Istituto professionale San Michele, da dove uscirono molti dei futuri operatori romani di fotoincisione.
Una volta rientrato a Roma, in via del Pozzetto 122 aprì la sua gloriosa agenzia, trasferitasi poi definitivamente in via di Pietra 87: la VEDO (Visioni Editoriali Diffuse Ovunque).
Già consapevole dell’importanza del marketing, nei primi anni del Novecento, per farsi pubblicità, si avvalse di singolari espedienti. Ai vigili urbani, spesso primi testimoni di importanti fatti di cronaca, regalò orologi da tasca con inciso sul quadrante il numero telefonico del suo studio, affinché potessero avvertirlo tempestivamente; mentre le donne furono omaggiate con specchietti da borsetta, che riportavano sul retro i suoi recapiti e con impresso un singolare acronimo: «Telefonare subito Porry-Pastorel FOT, fotografa ovunque tutto».
All’amore per la stampa affiancò l’amore per la bella ed elegante Franca Cerruti, romana, sua futura moglie; una passione testimoniata dalla ricca collezione di cartoline che i due innamorati si scambiarono anche dopo essere convolati a nozze, il 10 agosto 1912. Sua compagna di vita e complice di tanti scoop, la moglie – come archivista – fu anche attenta classificatrice delle immagini dell’agenzia VEDO, contribuendo a dar vita a uno dei primi archivi storici fotografici europei.
I suoi reportage si distinsero sempre per rigore di cronaca, ma anche per creatività, ironia e temerarietà, abbracciando la politica, l’attualità, il costume, lo sport, la cultura, gli spettacoli.
Come il servizio che apparve sulla prima pagina del Giornale d’Italia il 12 aprile 1915, nel quale una foto scattata da Porry-Pastorel mostrò in esclusiva l’arresto di un giovane Benito Mussolini – durante il raduno interventista a favore dell’entrata in guerra dell’Italia – avvenuto il giorno precedente in piazza Barberini a Roma. Una fotografia che il futuro duce non gli perdonò mai e che – secondo fonti familiari – diede origine alla proverbiale battuta: «Sempre il solito fotografo!», come lo apostrofò sarcastico Mussolini in più occasioni; «Sempre il solito presidente del Consiglio!» fu spesso la replica ironica di Porry-Pastorel.
Il 15 dicembre 1915 nacque a Roma il suo unico figlio, Alberto, ritratto dal padre in modo originale fin dai primi mesi e al quale dedicò numerosi album fotografici. Durante la prima guerra mondiale, come inviato al fronte, Porry-Pastorel sperimentò l’uso innovativo della didascalia. Sui giornali comparvero così le prime foto accompagnate da una sintetica spiegazione dell’avvenimento. A testimonianza delle prime didascalie, le foto a firma Porry-Pastorel dei tragici scenari dei bombardamenti, i toccanti reportage dalla piana di Caporetto che, nei chiaroscuri, ne esaltarono la drammaticità. Memorabili anche gli scatti sulla fine della guerra con l’entrata dei bersaglieri a Vittorio Veneto il 30 ottobre 1918: proprio la città dove era nato casualmente quando il padre vi aveva prestato servizio come bersagliere, trentuno anni prima.
La sua versatilità nel parlare le lingue, che gli derivava dall’origine anglo-francese, lo portò a Parigi nell’aprile 1919 come reporter alla Conferenza di pace. Fra i tanti, uno scatto storico: l’amarezza impressa sul volto del presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando per la perdita di Fiume e della Dalmazia.
Fu nel corso della Grande Guerra che Porry-Pastorel imparò a servirsi dei piccioni viaggiatori per l’invio dei negativi e di notizie. Una tecnica antichissima, tornata in uso anche fra i soldati del 1915-18 per la spedizione dalla prima linea alle retrovie, e che gli consentì di inserire i negativi all’interno di piccoli astucci fissati alle zampe dei volatili.
I piccioni viaggiatori furono per lui messaggeri alati in più occasioni. Memorabile lo scoop del 5 maggio 1938 quando, in occasione della parata navale nelle acque del golfo di Napoli, Porry-Pastorel sbalordì Mussolini e Hitler, a bordo della corazzata Cavour. In quella circostanza il fotoreporter, insieme all’attrezzatura portatile per lo sviluppo delle immagini, portò con sé sulla nave anche una coppia di piccioni viaggiatori, ai quali consegnò i negativi delle foto che aveva scattato e sviluppato in mezzo al mare. Messaggeri fedeli, i piccioni – a una velocità di circa 50 km orari – raggiunsero la colombaia di origine a Roma. Ad attenderli vi era la moglie Franca che recapitò le immagini a palazzo Sciarra, all’epoca sede della redazione del quotidiano. Quando Mussolini e Hitler sbarcarono a Napoli, si stupirono di trovare Il Giornale d’Italia già con le foto che li ritraevano a bordo.
A testimonianza di un altro evento simile, la foto di copertina del libro Scatto matto – che, oltre a ripercorre la vita privata e la carriera del fotoreporter anche attraverso le sue foto più celebri, offre uno spaccato delle vicende e dei costumi di un’Italia che va dai primi anni del Novecento al secondo dopoguerra – nella quale Porry-Pastorel è ritratto mentre lancia un piccione viaggiatore nei cieli libici nel marzo 1937 a bordo dell’incrociatore Pola.
Dentro l’obiettivo implacabile della sua macchina fotografica e sotto i tasti della sua macchina da scrivere, finirono la marcia su Roma, con un austero Mussolini ritratto insieme ai quadrumviri fascisti a piazza del Popolo; l’inchiesta sul delitto Matteotti, commissionatogli dalla stessa moglie del deputato socialista Velia Titta Matteotti; nonché le varie campagne di propaganda fascista: dalla raccolta del ferro alla Patria del novembre 1935, al nuovo assetto urbanistico di Roma con l’apertura di via della Conciliazione nel marzo del 1937.
Uno scatto, quest’ultimo, che nella profondità del bianco e nero testimoniava la demolizione di quella che era denominata Spina di Borgo e che si protraeva, in modo caratteristico, fino a piazza San Pietro: documento di una Roma oggi sparita e rintracciabile grazie ai suoi scatti.
Con un occhio già attento alla moderna inquadratura cinematografica, realizzò i servizi della ‘Battaglia del grano’, in cui i personaggi vennero ritratti come su un set di Cinecittà. Al centro, protagonista indiscusso, il duce alle prese con la trebbiatrice nell’Agro pontino. E ancora, gli scatti che servirono a Mussolini per esaltare il suo carattere sportivo e che videro Porry-Pastorel ritrarlo in varie imprese agonistiche: dalla corsa al nuoto, dall’equitazione allo sci. Il duce, sempre attento alla cura della propria immagine, in più occasioni preferì avvalersi del talento di Porry-Pastorel, piuttosto che subirne gli scatti impietosi; tuttavia le foto che ritraggono Mussolini in modo più irriverente portano proprio la sua firma.
Per anticipare i colleghi degli altri giornali, Porry-Pastorel trovò ogni espediente per introdursi nei palazzi del potere, mimetizzarsi nei cortei di protesta, intervistare in esclusiva politici e personaggi della cultura. Oltre ad avvalersi dei piccioni viaggiatori, fu uno dei primi professionisti a inviare le immagini attraverso la telefotografia, utilizzando la linea telefonica o telegrafica, come dimostrano le immagini pubblicate sul Giornale d’Italia, nella cui didascalia è scritto: «Foto Esclusive Porry, trasmesse con la valigia telefotografica». Sempre per battere la concorrenza, trasformò il suo furgone Ford rosso in un laboratorio fotografico ambulante nel quale poter stampare le foto ovunque; così come, per agevolare il cambio della pellicola, fu capace di modificare la macchina Leica creando una comoda apertura sul retro. Per gli scatti notturni sperimentò l’uso del flash, applicando sull’apparecchio fotografico un portalampada con una luce alimentata da una pila da 4,5 volt, poi sostituita dalla batteria di una moto.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale devastò la sua vita privata. Il figlio Alberto, arruolato nella XX Squadra fotografica del corpo di armata alpino, nell’agosto 1942 fu inviato al fronte russo e non fece più ritorno. Aveva seguito le orme del padre e dalla Russia aveva inviato le sue ultime immagini firmate Alpo: ‘Al’ come Alberto e ‘Po’ come Porry. Foto che sul retro riportano i pensieri dedicati ai genitori e alla moglie, Adriana Coltellacci. Poi, il suo ultimo autoscatto sul quale Alberto scrisse: «Il forte freddo fa gelare anche la barba»; immagine, questa, del febbraio 1943 che fu pubblicata dal padre nella sezione ‘dispersi’ dei vari quotidiani italiani, con la speranza – vana – di avere notizie del figlio. Ma il dolore per la scomparsa di Alberto non piegò mai il suo carattere resiliente, né smorzò il suo attivismo e la sua tempra: nel corso dell’occupazione nazista di Roma, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, Porry-Pastorel divenne grande attivista del Centro X, il fronte militare clandestino e nella sua agenzia fotografica non solo falsificò documenti di partigiani e antifascisti, ma procurò passaporti falsi agli ebrei.
In seguito compì la scelta romantica di trascorrere sempre più tempo, insieme alla moglie, nella sua casa a Castel San Pietro Romano, non troppo distante dalla capitale, che frequentava come luogo di villeggiatura e dove si aggirava sempre accompagnato dai suoi amati gatti.
«Porry amava questo paesino arroccato sull’acropoli dell’antica Preneste. E nel 1952 ne era diventato sindaco. Un rifugio dalla città, già prima della seconda guerra mondiale. Se ne andava in giro per quei vicoli “scassati” sempre vestito in modo stravagante. Il cappello a fiori, la camicia bianca e il suo immancabile papillon. Alto, magro magro, l’aria scanzonata, lo humour inglese su un accento romanesco che gli permetteva tutto, anche le parolacce più irriverenti. […] Si era ritirato lì, al riparo dal dolore per la perdita del figlio Alberto, disperso in Russia. Come se l’abbraccio di quelle pietre antiche e l’affetto di persone semplici potessero sollevarlo dalla confusione solitaria di Roma» (Colasanti, 2013, p. 12).
Amico di grandi registi e attori dell’epoca, nel 1953 fu Porry-Pastorel a suggerire a Luigi Comencini e a Vittorio De Sica il paese di Castel San Pietro Romano per le riprese del film Pane, amore e fantasia, trasformandolo così in un vivace set cinematografico e dando al suggestivo borgo un forte e durevole impulso culturale che ancora lo contraddistingue.
Anche la sua agenzia fotografica romana fu animata dalle immagini dei grandi divi del cinema internazionale. Negli anni della ‘dolce vita’ la VEDO si avvalse della collaborazione dei primi paparazzi, dei quali Porry-Pastorel viene considerato il caposcuola. Per tutelare i diritti della categoria, diventò presidente del sindacato Giornalisti fotografi. Nel suo studio passarono professionisti come Mario Tursi, Sergio Spinelli, Fausto Alati, Pietro Brunetti, Rino Barillari e, soprattutto, Tazio Secchiaroli, che dichiarò sempre di aver imparato il mestiere di fotoreporter da Porry-Pastorel.
Morì a Roma il 1° aprile 1960 per un male incurabile, assistito fino all’ultimo dalla moglie Franca e dell’inseparabile nuora Adriana Coltellacci.
Il 2 aprile 1960 Franco Cremonese scrisse un corsivo sul Giornale d’Italia: «Adolfo Porry-Pastorel è destinato a restare una figura di primo piano non soltanto nella storia del giornalismo italiano ma in quello mondiale. Fu infatti il primo fotografo operante al servizio della stampa. Ma l’“invenzione” della figura del fotoreporter non sarebbe potuta certo avvenire se egli – utilizzando e realizzando praticamente quanto in altri paesi come l’America e la Germania era ancora in fase sperimentale – non avesse organizzato il primo reparto di fotoincisione. […] Uomo di punta del giornale, quanto e ancora di più di un cronista, ci lascia una storia d’Italia che è forse la più completa e documentata oggi esistente. È la storia racchiusa in ben nove milioni di fotografie (con relativi negativi in pellicole o lastre), sistemate in scaffalature alte tre metri e lunghe duecento. Quell’eccezionale fototeca comprendente quarant’anni di vita italiana […]».
Fonti e Bibl.: Tre gli archivi di riferimento per le immagini (tutti consultati al 28 ottobre 2015): Archivi Farabola, ricchi di 20.000 lastre originali (www.archivifarabola.it); Archivio storico dell’Istituto Luce, con 1659 negativi sul periodo 1919-1923, nel Fondo Pastorel, e 168.299 immagini nel Fondo Vedo, prezioso documento per la vita politica e il costume degli anni Cinquanta e Sessanta (www.archivioluce.com); Archivio privato Vania Colasanti contenente una cinquantina di album d’epoca in pelle bordeaux in cui sono raccolti gli scatti più intimi di Porry-Pastorel – i familiari, le vacanze, i reportage in Italia e all’estero – una collezione di immagini rilegate dallo stesso autore, arricchita anche da cimeli del fotoreporter, tra cui lo specchietto originale con la pubblicità dell’agenzia VEDO, le lettere d’amore alla moglie e il suo passaporto, dal quale si apprende che aveva «occhi castagni, naso e bocca regolare, capelli biondi, statura un metro e 76, corporatura snella» (www.vaniacolasanti.com).
Presso la Biblioteca Giulio Cesare Croce di San Giovanni in Persiceto, sede dell’archivio redazionale e della collezione storica del Giornale d’Italia, sono conservati i relativi articoli illustrati dalle foto di Porry-Pastorel.
A Castel San Pietro Romano, una sezione del Museo Diffuso (MuDi) è dedicata a Porry-Pastorel e alle sue storiche foto.
A. P.-P., in I. Zannier, 70 anni di fotografia in Italia, Modena 1978, pp. 82-85; T. Farabola, A. P.-P., in Farabola. Un archivio italiano, Milano 1980, pp. 5-10; T. Di Domenicantonio, A. P.-P., un fotoreporter leggendario, Palestrina 1988; L. Jannattoni, A. P.-P., in La Repubblica, 13-14 novembre 1988, ed. romana; A. P.-P., in Fotografia della libertà e delle dittature, da Sander a Cartier-Bresson 1922-1946 (catal. mostra Milano-Genova-Bolzano-Reggio Emilia-Parigi, 1995-1996), a cura di G. Scimé, Milano 1995, p. 204; S. Romano, Mussolini, una biografia per immagini, Varese 2000, appendice di E. Romano, pp. 179 s.; V. Colasanti, Scatto Matto, la stravagante vita di A. P.-P., Venezia 2013; M. Smargiassi, A. P.-P., in La Repubblica, 10 marzo 2013; M. Gaffuri, A. P.-P., in Oggi, 27 marzo 2013, n. 13, pp. 92-95; L. Colonnelli, A. P.-P., in Il Corriere della Sera, 3 aprile 2013, ed. romana; E. Lavezzini Stagno, A. P.-P., in Gazzetta di Parma, 14 agosto 2013; V. Colasanti, A. P.-P., in Il Fotografo, novembre 2014, n. 265, pp. 12-13.