Adolfo Omodeo
L’identità intellettuale di Adolfo Omodeo si dispiegò in varie ‘figure’, tra loro intrecciate e legate a intense esperienze di vita. Egli fu storico del cristianesimo e della cultura moderna, ma anche saggista di metodologia; ufficiale nella Prima guerra mondiale, ne visse tutta la tragedia; negli anni Trenta condivise con Benedetto Croce la lunga lotta contro la dittatura; tra il 1943 e il 1946 fu uomo politico di rilievo nazionale. Non tradì mai quella che ritenne essere la vocazione dell’intellettuale, e lo storicismo fu per lui valore di libertà criticamente vissuto nel mestiere di storico, nell’azione politica, nella vita morale.
Adolfo Omodeo nacque il 18 agosto 1889 a Palermo. Nel 1906, in prima liceo, ebbe come professore Eugenio Donadoni, che ne indirizzò gli interessi verso l’idealismo. Nel 1908 fu ammesso alla Scuola Normale Superiore di Pisa, che abbandonò un anno dopo. Nel 1910, in «Studi storici», pubblicò il suo primo articolo, una recensione. Tornato a Palermo, seguì le lezioni di Giovanni Gentile, e con lui si laureò nel 1912. Insegnò poi nei licei. Interventista, durante la Prima guerra mondiale fu ufficiale di artiglieria. Nel 1919 tornò a insegnare nei licei. Nel 1922 fu nominato professore di storia antica all’Università di Catania; nel 1923 fu chiamato per chiara fama a Napoli a insegnare storia della Chiesa; in seguito v’insegnò storia del cristianesimo.
Nel giugno del 1924, l’uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti incrinò il suo rapporto con Gentile; alla fine di quell’anno egli era ormai lontano dal suo maestro. Nel 1928 iniziò a collaborare con «La critica» di Croce, mentre nel 1930 abbandonò l’Enciclopedia Italiana, diretta da Gentile, alla quale aveva iniziato a collaborare. Nel 1931, come professore universitario giurò fedeltà al fascismo, con decisione sofferta; nel 1933, tuttavia, rifiutò di iscriversi al Partito nazionale fascista (PNF), nonostante le forti pressioni ricevute. Nell’autunno del 1932 si recò per motivi di studio a Parigi, dove incontrò Lionello Venturi. Vi tornò nel settembre del 1938, ed ebbe contatti con Aldo Garosci e altri fuoriusciti italiani. Nel 1941 fu obbligato, come ex combattente della Prima guerra mondiale, a chiedere la tessera del PNF, che peraltro gli fu tolta subito dopo essergli stata concessa.
Il triennio 1943-46 fu per Omodeo di pieno impegno politico. Il 1° ottobre 1943 fu nominato rettore dell’Università di Napoli; in seguito sostenne accese polemiche con gli studenti, ad alcuni dei quali rivolse l’accusa di opportunistico attendismo nel conflitto in corso. Questione politica prioritaria in quel periodo gli parve l’abbattimento della monarchia dei Savoia. Nel 1943 entrò nel Partito d’azione (PdA) e nel 1944 fondò il circolo Libertà e azione. Entrò a far parte della commissione di epurazione universitaria. Fu ministro alla Pubblica Istruzione nel secondo governo Badoglio (22 aprile-8 giugno 1944) e presiedette la commissione ministeriale di defascistizzazione degli uffici statali; nel febbraio 1945 si arruolò volontario nell’esercito. Il 5 aprile 1945 fu nominato alla Consulta nazionale. Quando, nel 1944, il PdA si spaccò, si schierò con Ferrucio Parri.
Alla fine del febbraio 1946 si ammalò di un’epatite che si aggravò per i postumi della malaria contratta nel 1917 sul Carso; morì a Napoli il 28 aprile.
Con impressionante lucidità, già nel 1911 Omodeo così scriveva alla futura moglie Eva Zona:
Vedo chiaramente la mia vita. Devo prima fortemente affermarmi nel mondo del pensiero e, dopo aver preso dominio del passato, affrontare il presente con tutti i suoi problemi […] Voglio rivelare, come storico […] la vita del cristianesimo nei suoi grandi momenti: voglio però abbracciare insieme parecchie attività: voglio studiare anche il nostro Risorgimento: acquistare coscienza di tutto il movimento storico che
ci ha creati, significa dominare col pensiero anche il momento presente: la storia mi condurrà dinanzi ai problemi politici dei nostri giorni (lettera del 21 novembre, in Lettere, 1910-1946, 1963, p. 16).
A Pisa frequentò i corsi di Amedeo Crivellucci. In quel periodo condivise il clima anticlericale della Normale, ma non il dominante positivismo, perché vi scorse il rischio di perdere l’oggetto delle proprie ricerche, che era la storia del sentimento religioso. Il breve soggiorno pisano gli permise però di entrare nel vivo del mondo extrauniversitario, ed egli provò le passioni dei giovani della sua epoca. Ne è segno la collaborazione a «La voce» di Giuseppe Prezzolini, del quale condivise la ‘lotta’ culturale e i progetti di riviste di studi religiosi e di filosofia, nelle quali superare il modello crociano de «La critica».
A Prezzolini il 15 maggio 1910 scrisse che, rifiutata la «nefasta smania per l’apocalissi, per la visione delle cose estreme, che, iniziatasi con i profeti d’Israele non ha avuto fine con Carlo Marx», il nuovo moto sociale avrebbe dovuto essere «l’organizzazione di una vita, l’attivazione di tutte le forze morali», di modo che alla fine avrebbero coinciso «per ciò che in essi è d’eterno, la vigoria profonda autonoma del Cristianesimo […] e l’impeto distruttore del giacobinismo; le sante passioni di Giuseppe Mazzini, e gli odi profondi del comunardo» (cit. in Pertici 1992, pp. 598-99).
Si sente la riflessione di Georges Sorel sul rapporto tra mito e ragione, che si sovrappose al giovanile repubblicanesimo settecentesco e rivoluzionario. A Eva Zona scrisse l’11 dicembre 1912 che, verso i diciotto anni, era stato
fierissimamente rivoluzionario […] il Contratto sociale [gli] rivelò profondamente il concetto della libertà formatrice del mondo politico: ma [gli] si approfondiva, questo concetto, in un senso positivo, divergente dalla libertà piuttosto negativa del Rousseau (Lettere, cit., p. 48).
Il problema della libertà, in quel periodo da lui risolto in senso gentiliano, fu poi capovolto in senso crociano. Lo studio delle forme della libertà, anche attraverso una rigorosa formazione di filosofia, fu immediatamente il centro del suo lavoro storiografico e politico. La teoria di Sorel sul rapporto tra élites e classi popolari nutrì in quegli anni anche la sua visione politica. Egli giudicò l’eredità risorgimentale tradita, provò avversione per la monarchia, e, accanto a un antigiolittismo salveminiano, ebbe posizioni di acceso antiparlamentarismo e di adesione a un socialismo nel quale però vedeva «nebulosamente» la dinamica delle classi (lettera a Prezzolini del 15 maggio 1910, cit. in Pertici 1992, p. 599).
A questa feconda caoticità – scrisse che «come metodo sono profondamente anarchico» (p. 597) – mise ordine Gentile. Omodeo lo incontrò nell’Università di Palermo e gli scrisse la prima lettera nel luglio 1911. Ebbe con lui subito rapporti di dimestichezza e partecipò alla Biblioteca filosofica, un cenacolo gentiliano. La scelta di dirigersi verso l’idealismo, e al suo interno verso Gentile e non verso Croce, porta il segno del tempo. Prima della guerra, Gentile aveva riservato ai fenomeni della vita religiosa un’attenzione maggiore di quella di Croce, per il quale essa non era che un caput mortuum; di conseguenza, la comunicazione tra Gentile e il mondo giovanile fu più forte. Gentile canalizzò così entro l’alveo storicista il ‘rivoluzionarismo’ di Omodeo, che ne trasse chiarezza anche di studio. L’8 agosto 1910 aveva scritto a Pietro Silva: «Prima di studiare il gesuitesimo ho sentito il bisogno di occuparmi di uno dei punti più ardui del cristianesimo: la dottrina della grazia» (cit. in Pertici 1997, p. 183).
Nel 1913 pubblicò la sua tesi di laurea, con il titolo Gesù e le origini del Cristianesimo, e Res gestae e historia rerum («Annali della Biblioteca filosofica», pp. 1-28), articolo polemico contro lo storicismo crociano in nome di quello gentiliano – che, come gli avrebbe scritto Gentile il 26 ottobre 1927, «fece montar sulle furie il Croce» (Carteggio Gentile-Omodeo, 1974, p. 387). Prese allora forma un tratto peculiare del lavoro di Omodeo, che sviluppò la ricerca in sintesi e in saggi nei quali affrontò problemi particolari e soprattutto questioni metodologiche.
Interventista convinto, Omodeo sentì la Prima guerra mondiale come un destino e una scelta; il 22 dicembre 1914 dichiarò a Eugenio Donadoni: «Se si spiegherà nuovamente la bandiera del Risorgimento, ci sarò anch’io: costi che costi» (Lettere, 1963, p. 94). Condivise la certezza gentiliana che «grandi forze morali» si sarebbero «purificate da questo gran lavacro di sangue, per tutta l’umanità» (lettera di Gentile del 15 luglio 1915, in Carteggio Gentile-Omodeo, a cura di S. Giannantoni, 1974, p. 167). La guerra, Caporetto e poi il dopoguerra gli mostrarono la fragilità dello Stato, nel quale la separazione tra cultura e nazione si rivelò drammatico carattere della vita italiana. Omodeo acquisì allora il carattere di
educatore politico, che diventerà problema critico, storiografico nella elaborazione e definizione del concetto di ‘pensiero mitico’ come distinto dal ‘pensiero razionale’: distinzione che rimarrà acquisita agli studi storiografici (Cantimori 1947, 1959, p. 63).
Quell’esperienza richiese una rielaborazione che durò dieci anni. L’opera Momenti della vita di guerra (Dai diari e dalle lettere dei caduti) cominciò infatti ad apparire nel 1929 su «La critica», per poi venire stampata in volume nel 1934. Questo lavoro, che nel titolo si presenta come una cronaca, fu invece innovativa opera di storia contemporanea. La perizia filologica e la profonda conoscenza dei movimenti ideali della sua generazione permisero a Omodeo di andare alla radice della letteratura memorialistica e di cogliere nel suo corto respiro la dinamica profonda della nuova umanità che in quella guerra era sorta e, a suo giudizio, fecondamente scomparsa. Se, come scriverà in seguito, negli studi sul 19° sec. francese mirò a «intendere l’irrompere del moderno uomo europeo, laico, libero e liberale» (Trentacinque anni di lavoro storico, «Mercurio», 1945, 13, pp. 105-108, cit. in Il senso della storia, a cura di L. Russo, 1948, 19703, p. 5), in Momenti descrisse la comparsa dell’individuo novecentesco. Per Omodeo quest’opera fu al tempo stesso un’autobiografia e una biografia di una generazione europea, non soltanto italiana. Egli comprese e visse un crollo di valori: tutto era stato travolto, perfino lo storicismo. La rigenerazione che gli era parsa sicura promessa non c’era stata, e «la guerra come fatto bruto nulla ha generato» («L’educazione nazionale», 15 dicembre 1920, cit. in Pertici 1992, p. 614), e anzi quel «lavacro di sangue» (qui sembra che Omodeo ricordi la citata lettera di Gentile del 1915) aveva cancellato il «mito storicistico della guerra creatrice di valori […] della guerra generatrice di nuove energie» (Momenti, 1934, pp. 86 e 266).
Come detto, Omodeo pubblicò le prime parti di Momenti su «La critica» nel 1929. In quel momento rivolgeva le proprie domande a un altro storicismo, e in esso cercava risposte. Gli anni dell’apprendistato, iniziati nel fervore gentiliano, erano approdati a un capovolgimento maturato a seguito di esperienze tragiche. Il confronto con Gentile era passato anche attraverso la critica al fascismo. L’assassinio di Matteotti fu il momento chiave: il 24 giugno 1924 Omodeo scrisse a Gentile auspicando che questi contribuisse «in quest’ora triste, a risollevare in una sfera più elevata la nostra politica» e offrendogli ancora una volta la propria «devozione assoluta» (Carteggio Gentile-Omodeo, cit., p. 313). Ma nei mesi successivi la spaccatura divenne irrevocabile.
Infatti, in diverse lettere a Gentile del periodo agosto-dicembre 1924 Omodeo avanzò forti critiche nei confronti del fascismo. «Sempre, fin dai primi momenti dell’avvento del fascismo, ebbi dei dubbi che purtroppo vedo realizzarsi» (p. 316). Il fascismo era un «movimento caotico», cui egli aveva creduto di poter imporre, con Gentile, una forma «nostra e invece esso aveva entro un principio animatore che ora diverge profondamente da noi. Abbiamo errato proprio perché volevamo imporre una forma dal di fuori» (p. 327). Benito Mussolini era politico mediocre, di «personalismo bonapartistico»; nel fascismo la mentalità era «militaresca» e la disciplina era «caporalismo», e il movimento aveva dato vita a un’«assurda miscela di milizia e politica», di «stato con partito» (pp. 320, 316, 324). Il fascismo si era fiaccato urtando contro «la coscienza liberale veramente attuata nel paese, che si è avuto il torto di confondere col partito omonimo» (p. 327). Affiora qui la sua diffidenza per il partito di massa, che tradisce libertà e democrazia; una diffidenza che tornerà nel secondo dopoguerra. Per Omodeo il partito non doveva essere «una milizia», perché simili partiti creavano un feudalesimo locale e corrotto: si poteva «militare solo per la patria» (p. 327). Il fascismo aveva perduto i «punti di contatto con la politica della vecchia destra» senza costituire un «punto di partenza», ed era «rivoluzionarismo allo stato cronico, che con tanta leggerezza sovverte ogni norma giuridica e morale, senza crearne una nuova»: «non arrivo a scorgere neppure lo stato forte, come non arrivo a scorgere lo stato etico, perché non credo che la violenza sia forza» (p. 323). In Italia ci si avviava verso «una catastrofe da secondo impero» (p. 324). Gentile gli rispose con rigidità e perfino con un tocco di derisione (p. 328).
Nel corso degli anni Venti, Omodeo portò a conclusione le ricerche sulla storia del cristianesimo. Aveva dinanzi a sé un nodo problematico, nel quale da un lato stava la visione filosofica hegeliana, che riconosceva positività al cristianesimo per la spiritualità individuale che aveva provocato, e dall’altro stavano le ricostruzioni storiografiche del protestantesimo e del modernismo. Si potrebbe dire che Omodeo trovò la formulazione del suo problema nella nota affermazione di Alfred Loisy: «Jésus annonçait le Royaume et c’est l’Église qui est venue» (L’Évangile et l’Église, 1902, 19305, p. 153).
In un primo momento, egli studiò la formazione del cristianesimo, del quale, anche sulla scia di Franz Cumont, sottolineò il carattere di religione orientale. Paolo di Tarso apostolo delle genti (1922, come 3° vol. della sua Storia delle origini cristiane) e Gesù il Nazoreo (1927) esplorarono il momento dell’entusiasmo e della formazione di una nuova religione, seguiti da La mistica giovannea (1930). Ma l’antologia L’esperienza etica dell’Evangelio (1921) fu messa all’Indice nel 1924.
In seguito Omodeo spostò l’indagine sul secondo corno della formula di Loisy. Indagò come si fosse formata la Chiesa nel mondo occidentale, e ne mise in luce l’irrigidimento gerarchico, la sclerotizzazione del sentimento religioso. Tuttavia, secondo lui, la Riforma aveva riportato alla luce il nucleo originario del cristianesimo e lo aveva affinato: in Giovanni Calvino egli scorse uno dei nuclei della libertà moderna (cfr. Giovanni Calvino e la Riforma in Ginevra, 1945).
Intanto maturò in lui l’interesse per il Risorgimento. Il 27 agosto 1924, annunciò a Gentile «lavori più grandi di storia del cristianesimo antico e di storia del Risorgimento» (Carteggio Gentile-Omodeo, cit., p. 319). Ma queste ricerche storiografiche, avviate quando egli si stava allontanando dal filosofo siciliano, vennero a iscriversi nell’orizzonte crociano che si stava aprendo. Nel 1925 Omodeo non firmò il Manifesto di Croce contro il fascismo; forse non gli fu chiesto, perché se ne sapeva la vicinanza a Gentile: l’anno precedente aveva infatti pubblicato il saggio B. Croce e la scuola («Giornale critico della filosofia italiana», 5, pp. 447-52), che di Gentile era stato una convinta difesa, anche se, ormai, l’ultima. Tra il 1925 e il 1927 provò invano a far raggiungere ai due filosofi una ‘tregua’, segno del suo avvicinamento a Croce. Nel 1926 apparve il saggio Storicismo formalistico («Educazione politica», pp. 434-43), nel quale avanzava dubbi sulla continuità tra filosofia e politica. L’implicita consonanza con il sistema filosofico crociano, ribadita in questo articolo, apparve palese anche in una recensione alla crociana Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928) che Omodeo redasse per «Leonardo», ma la cui pubblicazione fu impedita da Gentile.
Nel 1929-30 Omodeo era dunque passato all’opposizione e alla comunanza di lavoro con Croce. Questi così gli scrisse:
Ho piacere che abbiate avviato i vostri lavori cavourriani; e credo che non dovrete abbandonare l’idea di tornare sulle questioni metodologiche della storiografia. Finora sono rimasto solo o quasi a predicare per questa parte. Stimo molto giovevole che si sia in più d’uno (lettera del 18 luglio 1930, in Carteggio Croce-Omodeo, a cura di M. Gigante, 1978, p. 29).
Ne «La critica» Omodeo, che agli occhi di Croce, come questi gli scrisse, aveva raggiunto «quell’armonia interiore che è insieme l’ideale della saggezza pagana e della pace cristiana», tenne la sezione «storico-morale» (lettere del 10 agosto 1929 e del 13 settembre 1930, pp. 23 e 36).
Omodeo, che rivolgendosi a Croce ammise di posporre ogni sua ricerca agli «studi del Risorgimento» e di sentirsi «lontanissimo dagli studi cristiani» (lettere del 29 luglio 1929 e del 13 settembre 1930, pp. 20 e 28), fu da questi esortato a volgersi «con libertà di movimento agli altri argomenti che ora vi interessano. Ma, se la storia è storia religiosa, voi avete fatto una magnifica preparazione, che ai nostri storici manca» (lettera del 10 agosto 1929, p. 22). C’era però in gioco più che la filologia. L’esperienza religiosa per Gentile trovava risoluzione nella struttura gerarchica della tradizione; per Croce rappresentava l’inestinguibile, irrequieta energia della cultura, che era energia critica e di creazione di istituzioni. In primo piano venivano gli eretici, non i custodi della tradizione; il rapporto tra mito e ragione cambiava, perché suo oggetto erano non le forme della tradizione, ma quelle della libertà. Pensate alla luce dei nuovi concetti di cultura e di religione, le ricerche di Omodeo sul Risorgimento ebbero una nuova direzione.
Omodeo non interpretò più il Risorgimento come un momento storico chiuso nei confini italiani, secondo la linea storiografica ufficiale del fascismo e di Gioacchino Volpe, ma lo fece circolare nella storia europea, cui apparteneva per genesi e per raggiungimenti. La sua ricerca risorgimentale ora poggiava da un lato sul riconoscimento della dimensione europea del Risorgimento e sull’accostamento di Giuseppe Mazzini a Camillo Benso conte di Cavour – del quale aveva iniziato nel 1932 a curare, insieme a Luigi Russo, la monumentale edizione dei Discorsi parlamentari –, e dall’altro sul legame che veniva individuato con la Rivoluzione francese e con l’Illuminismo (si pensi alla recensione del 1939 a Jeunesse de Diderot di Franco Venturi).
La sua interpretazione di Mazzini fu in esplicito contrasto con quella di Gentile, ma aveva anche elementi che la resero irriducibile a quella di Croce; e originale soprattutto fu la ricostruzione che fece nei due volumi di L’opera politica del conte di Cavour (1940). La fecondità della politica risorgimentale era scaturita dalla collaborazione tra Mazzini e Cavour, da lui definita «involontaria» (in Il senso della storia, 1948, 19703, a cura di L. Russo, p. 5). Da quella polarità Cavour trasse una visione politica più generale e volta alla strategia unitaria. Intorno a L’opera politica fiorirono altre ricerche di analisi metodologiche e erudite, come La leggenda di Carlo Alberto nella recente storiografia (1940) e Vincenzo Gioberti e la sua evoluzione politica (1941). Omodeo pensava ormai a se stesso come a uno storico dell’età moderna più che del cristianesimo, e nel 1929 provò a passare alla cattedra di storia moderna, come successore di Michelangelo Schipa. Il diniego che ricevette fu da lui a ragione sentito come una decisione politica (Archivio Omodeo, busta 11, relazione Ciaceri).
L’adesione critica allo storicismo e alle categorie crociane di cultura e religione lo spinse a far propria anche un’altra delle maggiori tesi crociane, che era il riconoscimento dell’importanza del primo liberalismo ottocentesco francese per la costituzione di una matura storiografia e di un maturo pensiero liberale. Ne ricostruì, quindi, la storia, il cui enjeu era rappresentato dal processo della secolarizzazione e del farsi della religione cristiana religione della libertà. Tali ricerche, che nel 1946 sarebbero confluite in due libri, Aspetti del cattolicesimo della Restaurazione e Cultura francese nell’età della restaurazione, a partire dal 1936 apparvero su «La critica». Omodeo vi volle fare, come scrisse a Croce, «una specie di storia della civiltà» (lettera del 24 settembre 1932, in Carteggio Croce-Omodeo, cit., p. 59), sull’esempio degli storici ottocenteschi della civilisation. Pensò a «la storia di quel periodo come un vero Kulturkampf (quello tedesco non può reggerne il paragone). La rivoluzione francese si rivela in quegli anni come una vera civiltà laica, contro cui si spezza la reazione borbonico-clericale» (lettera del 22 luglio 1932, p. 50). La storia che egli tracciò iniziava con Blaise Pascal (del quale nel 1935 curò un’edizione italiana delle Pensées) e terminava con Alexis de Tocqueville e altri storici e politici francesi, ma anche con il Benjamin Constant della riflessione sulla storia religiosa e sul suo nesso con il pensiero della libertà. Attraverso un’analisi di eccezionale ricchezza e attenta ai contrasti (sia tra i due campi sia interni a ciascun campo), ricostruì la storia dell’idea di libertà come una storia non soltanto politica o filosofica, ma più profondamente culturale. Fu perciò proprio Constant l’autore che secondo lui emergeva come il protagonista di quell’epoca e che inoltre aveva ridestato il suo interesse per la politica greca del 5° sec. a.C.
Alla fine degli anni Trenta, Omodeo intensificò la propria attività di consulente editoriale, in particolare con l’Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI). Il suo obiettivo era quello di diffondere la cultura storica e di costruire un pubblico criticamente maturo, proponendo classici della storiografia, ovvero suggerendo la preparazione di monografie. Progettò varie collane: di memorie e documenti, di studi storici, di classici della storiografia, di documenti significativi della storia europea (da Seneca a Constant), quest’ultima da affidare a giovani studiosi, come Armando Saitta. Scrisse a Pierfranco Gaslini che sentiva giunto il tempo per creare una scuola di storici:
Si tratta di formarmi un certo numero di collaboratori fra i giovani, quali non vengono fuori dalle scuole storiche tenute dai Volpe e dagli Ercole e di divulgare gli strumenti della cultura storica senza cui non si avrà mai un pubblico sicuro (lettera dell’8 maggio 1943, Archivio Omodeo, ISPI)
Formare giovani storici significava però non soltanto insegnare gli strumenti del mestiere, ma formare personalità di intellettuali autonomi, quale egli rivendicava con orgoglio per se stesso. Deprecò che nelle scelte editoriali dell’ISPI potessero avere voce il presidente dell’istituto e il ministro degli Esteri, perché, come scrisse nella citata lettera a Gaslini,
ciò potrebbe significare che io debba trovarmi nella situazione sciagurata di uno degli intellettuali burocratizzati, che redigono ad usum Delphini, perché […] col solo intervenire e scartare questa o quell’opera si può dare un sospetto tendenzioso a tutta la mia attività […] importa definire la mia posizione e la mia autonomia di direttore di collezione. Io non intendo affatto accettare una posizione a cui si possono piegare un Ercole o un Volpe. Uomo di studi ho accettato la povertà a preferenza degli onori servili; ho raggiunto per le sole mie forze una posizione negli studi italiani; perciò da chi intende collaborare con me richiedo di essere accolto senza benefizio d’inventario e con piena fiducia.
L’ambizione di formare una scuola di storici e di moderni intellettuali indipendenti non si realizzò. Forse l’unico suo discepolo può considerarsi Ernesto De Martino, che con Omodeo cominciò a discutere della natura del fenomeno religioso.
Nel triennio 1943-46 Omodeo s’impegnò con passione e coerenza nella vita politica. I criteri che si diede nel 1944 per la defascistizzazione degli uffici statali esprimono l’animus con il quale affrontò la vita politica dopo la Liberazione: l’apposita commissione
esaminerà con ogni scrupolo ogni accusa debitamente firmata e accompagnata da documenti; distruggerà le delazioni anonime e allontanerà senza riguardi gli insufflatori di accuse non documentate. Il penoso compito cui la Commissione si sobbarca, per essere fecondo, deve introdurre una riforma del costume guasto dalla tirannide. Un paese libero ha bisogno delle franche e leali accuse, ma deve tener lontano come una lebbra ogni delazione irresponsabile (Archivio Omodeo, busta 11).
Come sempre era ostile alla monarchia e ai Savoia, che si erano avviliti «ad un punto cui non giunsero Ferdinando II e Francesco II» (lettera al circolo Pensiero e azione del 18 gennaio 1944, in Lettere, cit., p. 722). In lui l’ideale repubblicano prese accenti mazziniani, nei quali cercò protezione contro il «Leviathan statale» (I fondamenti ideali del Partito d’azione, discorso a Radio Napoli del 16 novembre 1943, cit. in Libertà e storia. Scritti e discorsi politici, 1960, p. 117). Nella costruzione di una moderna società laica, rifiutò le soluzioni palingenetiche, ma, attento ai nuovi movimenti sociali e culturali, ripensò criticamente anche le tradizioni della libertà e della democrazia. Su questo punto, da un lato si accentuò il suo dissenso con Croce, dall’altro con il PdA, al cui interno trovò sintonia con il gruppo milanese di Garosci e Leo Valiani.
Sviluppò un’originale riflessione sul partito di massa, che collegò al totalitarismo, tema molto discusso nel PdA (per es. da Venturi); il 13 febbraio 1946 intervenne alla Consulta su questo argomento. Nel 1945 aveva scritto che «il pericolo del totalitarismo non è soltanto a sinistra, ma anche a destra e su basi antiche e in dipendenza da prassi millenarie» (Totalitarismo cattolico, «L’Acropoli», 1945, 9, pp. 385-90, cit. in Libertà e storia, cit., p. 338). Il partito di massa, fascista o bolscevico, aveva infatti radice nel totalitarismo cattolico: il modello era la Chiesa, che, essendo «‘societas perfecta’, [aveva] il suo diritto e la sua giurisdizione» (p. 334), e di conseguenza minacciava di frantumare l’unità della nazione in particolarismi feudali. Il totalitarismo costituiva la logica del partito di massa, che esigeva obbedienza di tipo militare o religioso: ma
in una democrazia i partiti non debbono avere la rigidezza di ordini monacali, legati da una disciplina che alieni i singoli, per una specie di vincolo feudale, dal rapporto con lo stato, […] non debbono avere una specie di dottrina rivelata dinanzi a cui prosternarsi (La situazione politica. Problemi nazionali e compiti del Partito d’azione, discorso del 9 luglio 1944 al circolo Pensiero e azione, cit. in Libertà e storia, cit., pp. 199-200).
Siffatti partiti erano incompatibili con la democrazia, perché avevano «ingoiato» gli individui (Uomini e partiti, 1946, cit. in Libertà e storia, cit., p. 472). Tornava il tema, sviluppato nel primo dopoguerra, del pericolo della militanza di partito. I partiti dovevano avere una struttura di quadri, capaci di porsi tra l’opinione pubblica e la rappresentanza politica. L’esempio per lui veniva dai vincitori, dalle società statunitense e britannica (p. 475). Il problema rimase irrisolto; ma Omodeo pensava, in coerenza con il suo impegno storicista, che la soluzione venisse anche dalla storia, non soltanto dal presente. L’ultimo suo articolo, rimasto incompiuto, era dedicato alla Nostalgia del passato.
Momenti della vita di guerra (Dai diari e dalle lettere dei caduti), Bari 1934, 19682.
Diario di un anno (1944, allora inedito)¸ a cura di C. Ceccuti, «Nuova antologia», gennaio-marzo 1998, pp. 279-90.
Per la difesa della cultura. Diuturna polemica, Napoli 1944.
Antologie:
Il senso della storia, a cura di L. Russo, Torino 1948, 19703.
Difesa del Risorgimento, Torino 1951, 19552.
Libertà e storia. Scritti e discorsi politici, Torino 1960.
Studi sull’età della Restaurazione, Torino 1970.
Carteggi:
Lettere, 1910-1946, Torino 1963.
Carteggio Gentile-Omodeo, a cura di S. Giannantoni, 9° vol. di G. Gentile, Epistolario, Firenze 1974.
Carteggio Croce-Omodeo, a cura di M. Gigante, 4° vol. di B. Croce, Epistolario, Napoli 1978.
L’Archivio Omodeo si trova presso l’Istituto italiano per gli studi storici (Napoli).
D. Cantimori, Commemorazione di Adolfo Omodeo (1947, allora inedito), in Id., Studi di storia, Torino 1959, pp. 51-75.
E. Croce Craveri, Adolfo Omodeo, personalità e linguaggio, «Lo spettatore italiano: rivista di politica», 1956, 3, pp. 112-16.
F. Parente, Omodeo storico del cristianesimo, «La parola del passato», 1966, 21, pp. 141-52.
G. De Marzi, Guida bibliografica degli scritti su Adolfo Omodeo: 1914-1987, in Id., Adolfo Omodeo: itinerario di uno storico, Urbino 1988, pp. 227-34.
Studi per Adolfo Omodeo, dossier di «Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici», 1989-1990, pp. 413-634 (in partic.: M. Gigante, Adolfo Omodeo educatore, pp. 413-42; M. Reale, Storia, cultura e politica: una rilettura de ‘La cultura francese nell’età della Restaurazione’ di Adolfo Omodeo, pp. 535-97; F. Tessitore, Omodeo tra storicismo e storicismo, pp. 599-614).
M. Musto, Adolfo Omodeo: storiografia e pensiero politico, Bologna 1990.
R. Pertici, Preistoria di Adolfo Omodeo, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», 1992, pp. 513-615.
M. Rascaglia, Bibliografia di Adolfo Omodeo, Napoli 1993.
R. Pertici, Come Adolfo Omodeo divenne storico delle origini cristiane, «Belfagor», 1997, 2, pp. 179-88.
G. Imbruglia, Religione e storia nel pensiero di Omodeo, «Rivista storica italiana», 1997, 109, pp. 198-244.
M. Griffo, Il pensiero politico di Omodeo alla ripresa della vita libera (1943-1946): un breve profilo, «Pensiero politico», 2008, 3, pp. 359-72.
F. Torchiani, Il ’29 di Adolfo Omodeo: il Concordato, i ‘Discorsi’ di Cavour, la rottura con Gentile, «L’Acropoli», 2009, 6, pp. 555-73.
F. Torchiani, La difesa della cultura: gli anni Trenta di Adolfo Omodeo. Dal carteggio con Ernesto Codignola, «L’Acropoli», 2010, 3, pp. 234-55, e 4, pp. 364-89.
M. Grifo, Adolfo Omodeo, Aldo Garosci, Leo Valiani: uno scambio epistolare (1945-1946), «L’Acropoli», 2012, 3, pp. 276-87.
Su Alessandro Galante Garrone:
P. Borgna, Un paese migliore. Vita di Alessandro Garrone, Roma-Bari 2006.
Per Federico Chabod, Alessandro Galante Garrone (Vercelli 1909-Torino 2003) fu un discepolo spirituale di Adolfo Omodeo: una definizione pertinente, che mette in evidenza l’affinità tra i due intellettuali e le differenze di Galante Garrone dal suo ‘maggiore’. In comune essi ebbero l’interesse per il 19° secolo. Ma Omodeo aveva sottolineato, come Benedetto Croce, la distinzione tra movimenti e istituzioni per affermare che un movimento il quale non sappia farsi istituzione è solo l’aspirazione del machiavelliano profeta disarmato. Galante Garrone, al contrario, nella sua opera rese autonomi quei due termini, pur condividendo la visione etico-politica della storia. Non minore fu la sua divergenza dal liberalismo di Omodeo, per il quale la democrazia e i moderni partiti furono ragione di inquieta indagine, mentre per Galante Garrone tale processo determinò le coordinate della vita civile dell’Italia repubblicana.
Formatosi sotto il fascismo nella Torino antifascista, Galante Garrone storico appartiene alla seconda metà del Novecento. Si formò allora la sua coscienza morale e civile, che ne ispirò l’opera di magistrato e la voce di intellettuale, nonché la sua vocazione di storico. Il problema che egli sempre tenne presente fu quello delle ragioni dell’Unità d’Italia e lo studio delle forme che quel processo poi prese. Il suo lavoro storico fu profondamente segnato dall’amicizia con Franco Venturi: in comune essi ebbero l’attenzione critica al documento e alla pluralità delle fonti, la volontà di fare una storia politica delle idee, la consapevolezza della necessità di una visione cosmopolita dei movimenti europei.
Il doppio cognome di Galante Garrone è testimonianza del sacrificio della sua famiglia nella Prima guerra mondiale: poiché i suoi zii materni, Giuseppe ed Eugenio Garrone, alpini volontari, erano morti sul Grappa nel 1917 ed erano stati insigniti della medaglia d’oro, a lui e ai suoi fratelli fu permesso per decreto reale di unire al cognome del padre, il latinista Luigi Galante, quello della madre, Margherita Garrone.
Laureatosi nel 1931 a Torino in storia del diritto italiano, relatore Gioele Solari, con la tesi Il problema costituzionale nei moti rivoluzionari italiani del 1831 (a cui aggiunse in appendice un opuscolo del giacobino Filippo Buonarroti) affrontò quelli che sarebbero stati i suoi temi storiografici: le origini dello Stato italiano, il liberalismo francese, la tradizione democratica.
Nel 1933 si avviò alla carriera di magistrato (negli anni del fascismo cercò di recuperare modi giurisdizionali di salvaguardia delle libertà individuali), che concluse nel 1966, con il grado di consigliere di Corte d’appello. Fu anche professore universitario, e insegnò, prima a Cagliari e poi a Torino, storia moderna, storia del Risorgimento e storia contemporanea.
Nel 1942 iniziò a collaborare con il Partito d’azione, ispirato dall’idea di libertà liberatrice di Omodeo, secondo la quale la riconquista della libertà significava per il cittadino partecipare alla vita pubblica. L’avvento della Repubblica, in lui come in tutti i suoi compagni, suscitò un convinto entusiasmo, rapidamente spento dalla delusione: il movimento non era riuscito a farsi anima delle istituzioni.
La passione politica lo spinse a cercare una più profonda visione della realtà attraverso la scoperta di nuovi problemi storici e di nuove ricerche, maturate nel largo e cosmopolita fermento del dopoguerra. Ebbe sempre presente la necessità del confronto leale e approfondito con le diverse correnti storiografiche europee, fu attento a rintracciare il legame tra vita politica e impostazione storica, mentre il suo senso critico e la sua eccezionale accuratezza filologica rivelavano, oltre alla padronanza del mestiere, l’esigenza morale di rigorosa ricerca della verità.
La sua produzione è stata varia e molteplice; ma, come Delio Cantimori con gli Eretici italiani del Cinquecento (1939), egli è stato per così dire l’autore di un solo libro, Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento, 1828-1837 (1951, 19722). Attraverso la vita, le lotte, i contrasti di Buonarroti, Galante Garrone raggiunse una prospettiva che gli permise poi di intendere l’Ottocento nella sua complessa latitudine ideale, nelle sue radici settecentesche, nelle sue vicende europee e italiane, nei suoi esiti novecenteschi.