Adolescenza
«Stato soave, stagion lieta è cotesta...»?
Oltre la dimensione del disagio giovanile
di Paolo Crepet
21 febbraio
Una sedicenne di Novi Ligure, Erika De Nardo, insieme con il fidanzato Omar, uccide a coltellate la madre e il fratellino. Dopo la messinscena di una feroce rapina attribuita a una banda di albanesi, i due ragazzi confessano, dando però versioni contrastanti e attribuendosi a vicenda la responsabilità del massacro. La notizia suscita orrore e incredulità e in ogni parte d'Italia ci si interroga sulle motivazioni che hanno spinto i ragazzi all'efferato crimine, rimeditando su quale sia il rapporto tra genitori e figli adolescenti nella società attuale.
Una gioventù patetica
Sebbene quello di Novi Ligure rappresenti certamente un caso-limite, non passa settimana che la cronaca non debba registrare tragedie i cui protagonisti o le cui vittime sono adolescenti. Nel tentativo di capire, di leggere i nessi possibili tra realtà 'deviante', ovvero l'eccezione, e 'normalità', ovvero la regola, si rischia (ma forse è inevitabile) la generalizzazione. L'operazione è certamente ingiusta nei confronti di tutti quei giovani che pur compiendo atti al limite dell'eroismo - pensiamo, per es., a tutti quelli che credono nel merito e nella preparazione, dovendosi scontrare con una realtà sociale che premia troppo spesso l'opportunismo e l'improvvisazione - non riescono mai a essere al centro dell'attenzione e degli interessi degli adulti e tantomeno a essere additati quale esempio per i loro pari.
Scrivere dunque di disagio giovanile induce una sensazione oppressa da un'ovvietà inibente. Eppure non si può far finta che quel mondo che tutti i giorni appare riflesso nelle cronache dei giornali e della televisione non ci appartenga, né si può affermare che tutto sia già stato detto e scritto. Se concordiamo con Peter Bichsel che "le parole che non si possono mettere al plurale sono parole particolarmente patetiche, da usare con cautela", dobbiamo allora convenire che 'gioventù' è una di quelle. La cautela deve guidare chi - operatore sociale, giornalista, educatore, genitore - pretende di avvicinare questo mondo per capirne nuove ragioni d'esistere, coglierne nuove tendenze culturali e linguistiche, spiarne suggestioni emotive senza per questo volerlo ridurre nelle strette pieghe di una grammatica psicologica o sociologica. Ma la cautela implica anche imbarazzo giacché qualsiasi speculazione non può fondarsi su esperienze pregresse, su saperi consolidati. L'età giovane è infatti una scoperta recente: fino a due o tre generazioni prima del nostro tempo si passava senza soluzione di continuità dall'infanzia all'età adulta.
Perché gioventù patetica? Perché il mondo giovanile a volte sembra volersi rappresentare davvero così come appare spiegato dai media. Patetico può infatti sembrare lo sforzo di appartenere a qualcosa e a qualcuno o di voler vivere esageratamente come in un dilatato spot pubblicitario; patetico è il tentativo di introdurre ostinatamente l'estremo in un quotidiano a volte irrinunciabilmente sbiadito e melenso, patetico è balbettare un diritto inalienabile per l'età evolutiva, quello di cercare e provare emozioni.
Eppure quel disagio - ovvero tutto ciò che non attiene all'inquietudine e all'indeterminatezza di quella condizione di confine in cui si esaspera il conflitto tra scelta e identità, cioè dove per l'adolescente si apre il divario tra il non sapere chi si è e la paura di non riuscire a essere ciò che si vorrebbe - non nasce contemporaneamente ai fenomeni che quotidianamente registriamo e che hanno per protagonisti i giovani, ma in un tempo più rarefatto e lontano, cioè durante gli anni della loro infanzia.
Il rischio di un'interpretazione falsata
A questo proposito si registra una prima possibile interpretazione falsata, che nasce dalla constatazione che l'osservato dipende dalla quantità e dalla qualità dell'osservatore. Trent'anni fa il numero dei neuropsichiatri infantili, degli psicologi dell'età evolutiva, degli psicopedagogisti e degli altri specialisti che si occupavano di infanzia e di adolescenza era enormemente più ristretto rispetto a quello dei professionisti che sono attualmente al lavoro. Ciò comporta un banale quanto importante effetto distorcente sulla percezione del problema: se è vero che oggi si possono meglio e più precocemente riconoscere alcune forme di sofferenza psichica che un tempo venivano ignorate o sottovalutate, è altrettanto scontato che si corra il rischio di tradurre in termini psicopatologici espressioni e comportamenti che esulano da quelle competenze specifiche. Il risultato è dunque l'aumento del numero dei 'falsi positivi', ovvero di quei casi che vengono erroneamente classificati all'interno della nosografia ufficiale e che non infrequentemente ricevono trattamenti farmacologici e psicologici senza che ve ne sia minimamente bisogno.
Questo 'artificio statistico' può dunque generare grossolani errori di valutazione riguardo alle dimensioni del fenomeno, soprattutto quando si tende ad affermare - come spesso fanno i giornali più inclini al sensazionalismo - che le forme di disagio giovanile stanno seguendo, in questi ultimi anni, un andamento in crescita. A tutto ciò si deve aggiungere la cronica carenza di dati empirici raccolti su grandi aree geografiche e per lunghi periodi: gli unici in grado di mostrare le effettive dimensioni del fenomeno e la sua variabilità nel tempo.
D'altra parte, se utilizzassimo la dimensione dei budget di ricerca come termometro dell'interesse dei committenti, allora si potrebbe constatare che, a fronte di qualche centinaio di milioni messo a disposizione annualmente da parte dei Ministeri competenti per indagare la condizione giovanile, vi sono molti miliardi utilizzati dalle aziende che producono beni di consumo per i giovani: molte industrie di abbigliamento per i ragazzi, per es., possiedono e finanziano giacimenti informativi più completi e aggiornati rispetto a quelli in possesso del Ministero della Sanità o di quello degli Affari Sociali. La conclusione che se ne può trarre è che, nonostante il gran parlare e il comune sentimento di dolore per la triste condizione di vita di molti adolescenti così come emerge dalle cronache, l'interesse reale manifestato dalle istituzioni riguardo alla necessità di conoscere e di capire è pressoché inesistente: i ragazzi non sono interessanti in quanto persone ma, piuttosto, in quanto solidissimi e controllatissimi buyers.
Ciò premesso, ci si può soffermare brevemente su due tra le trasformazioni più evidenti che hanno scosso il mondo dell'infanzia, per utilizzarle in quanto esemplificative di uno di quei fattori predisponenti allo stato di disagio evidenziato nella popolazione giovanile: la prima riguarda i processi di maturazione, la seconda la famiglia.
L'accelerazione dei processi di maturazione in età evolutiva
Ipotizziamo di prendere un bambino che frequentava la scuola elementare negli anni Cinquanta e di introdurlo in una classe di oggi. Con ogni probabilità, la maestra chiamerebbe lo psicologo, giudicando quel bimbo ipodotato: rispetto agli altri allievi, infatti, egli, verosimilmente, apparirebbe cognitivamente lento. È evidente che la causa non consisterebbe in un deficit, dipendendo piuttosto dal grande cambiamento che si è verificato dal punto di vista cognitivo nei bimbi di oggi rispetto a quelli di soli trenta o quarant'anni fa.
Ciò è avvenuto grazie all'impressionante accelerazione che hanno subito i processi maturativi. Per convincersene basta pensare alla diversa intensità degli stimoli luminosi e sonori cui i bambini sono sottoposti: un tempo le case erano semibuie, ora sono illuminatissime e hanno televisori, apparecchi stereofonici, computer; un tempo i giochi erano costruiti con materiale semplice e sbiadito, oggi sono oggetti ridondanti di colori, luci, suoni e di ogni altro tipo di tecnologia possibile che li fa muovere e interagire con il bimbo. In altre parole, i bambini ricevono oggi una quantità e una qualità di stimoli incommensurabilmente più ricche rispetto al passato.
Naturalmente, tale accelerazione del processo maturativo, anche se ovviamente contiene aspetti positivi, non è priva di rischi. Il primo riguarda l'effetto di anticipazione delle fasi di maturazione del bambino: egli tende a essere più precoce dal punto di vista psicomotorio e realizza un percorso estremamente accelerato che porta ad accorciare l'epoca dell'infanzia e ad anticipare quella dell'adolescenza. Tuttavia questo processo si infrange contro l'impossibilità dell'adolescente di superare questa fase di crescita e accedere alla fase propria del giovane adulto. Questo fenomeno, che molti chiamano 'adolescenza protratta', non è altro che l'effetto del rallentamento di un'altra componente dei processi maturativi: quella sociale. L'adolescenza protratta implica che per il giovane slittino le componenti del conferimento dei ruoli sociali, quali l'entrata nel mondo del lavoro, la costituzione di una famiglia, l'acquisto di una casa propria ecc.
L'adolescenza, quindi, se da un lato è portata ad anticipare il suo esordio, dall'altro è costretta a prolungarsi in epoche della vita che certamente non le sono proprie. Si realizza così un vuoto che ha dimensioni non solo esistenziali, quanto soprattutto d'identità soggettiva; il giovane sarà portato a interrogarsi sulla sua identità di soggetto costretto a imparare a vivere precocemente e poi impossibilitato praticamente a farlo.
Ma lo sfasamento delle epoche maturative implica non solo un'innaturale estensione dell'adolescenza, ma anche l'induzione di aspettative altrettanto precoci nei confronti del mondo degli adulti. Spesso è proprio nei confronti di queste aspettative che i genitori si rivelano incapaci e impreparati: da qui derivano alcuni dei motivi per i quali si registrano carenza comunicativa, rarefazione delle relazioni affettive, tendenza alla deresponsabilizzazione e alla negazione delle responsabilità genitoriali. Questa è la ragione per la quale spesso i figli si sentono, o sono costretti a essere, più maturi dei loro genitori e questa è la molla delle molte fughe e delegittimazioni degli stessi ruoli genitoriali. Qui si cela anche il motivo per cui padri e madri tendono a nascondersi in una gestione anaffettiva delle relazioni con i loro figli, come quella che si basa sullo scambio delle emozioni con le merci e sull'utilizzo del denaro come strumento comunicativo (finché i genitori non si rendono conto con orrore di essersi trasformati in un 'bancomat').
Questa impreparazione degli adulti a capire e ad adeguarsi ai fenomeni ora descritti riguarda non solo il ruolo dei genitori ma anche, tra gli altri, quello degli insegnanti. La scuola infatti non è stata in grado di modificare il proprio sistema didattico alle mutate esigenze dei ragazzi. Così spesso gli insegnanti si lamentano che i loro studenti prestano poca attenzione a scuola, senza capire che il problema non sono i ragazzi irrequieti o incapaci di concentrarsi, quanto piuttosto è l'estrema accelerazione delle capacità cognitive che ha reso i processi d'apprendimento inevitabilmente più veloci. Dunque, i ragazzi impiegano meno tempo a imparare e tendono ad annoiarsi prima dei loro coetanei di qualche decennio fa.
La trasformazione della struttura familiare
La famiglia ha subito una profonda e significativa trasformazione in tutti i paesi dell'Europa. In Italia, però, tale transizione è avvenuta in un arco di tempo assai più ristretto: meno di mezzo secolo. Nel corso di cinquant'anni si è infatti passati da una struttura patriarcale a una mononucleare: la prima prevedeva un'organizzazione gerarchica piramidale dove al vertice era il nonno e alla base i bambini e il cui processo di crescita avveniva per accorpamento (nuovi nuclei familiari che si aggiungevano per apposizione); il secondo modello è invece orizzontale e si sviluppa per rotture e ricomposizioni (le separazioni e i divorzi portano ad aggregare nuovi gruppi familiari che tendono a occupare la stessa posizione e funzione educativa della struttura precedente).
Non è mia intenzione celebrare i vantaggi della famiglia patriarcale (di cui non si possono davvero tacere i limiti pedagogici, dato l'alto tasso di violenza che spesso nascondeva al proprio interno); occorre però ricordare che in essa il bambino aveva una possibilità di reperire e scegliere tra diverse sponde relazionali: non solo i genitori, ma anche i nonni, gli zii, i cugini, oltre a un numero non irrilevante di fratelli e sorelle. Ciò gli permetteva di valersi di punti di vista diversi in rapporto ai suoi quesiti esistenziali. Nella famiglia mononucleare è evidente che questa strategia è fortemente limitata.
Un secondo aspetto legato alla trasformazione del nucleo familiare riguarda la diversa età in cui si mettono al mondo i figli. I dati statistici mostrano che negli ultimi quarant'anni l'età media della donna primipara è salita di nove anni, il che vuol dire che, se la generazione precedente aveva i primi figli intorno ai vent'anni, quella attuale li ha vicino ai trenta. Questo dato comporta una serie di ricadute sul piano della crescita emotiva del bambino; per es., l'aumento delle aspettative che i genitori nutrono nei confronti dei figli, soprattutto quando si tratta di figli unici.
Tra queste ricadute se ne può segnalare una: se il primo figlio nasce quando la madre ha una trentina di anni, i genitori si troveranno a fronteggiare la sua adolescenza al raggiungimento della loro mezza età, periodo spesso difficile, in cui giunge al pettine una lunga serie di nodi della vita (i primi bilanci sulla scelta professionale, la valutazione della coesione della coppia, la possibile fragilità della rete amicale). Dal momento che l'adolescenza è - per definizione - l'età dell'inquietudine, è del tutto ipotizzabile che le prime crisi esistenziali del figlio o della figlia si verifichino in coincidenza con quelle dei suoi genitori. Il problema è che quando un adulto entra in crisi diventa egoista ed è indotto a ritenere che i suoi problemi siano effettivamente i più urgenti e gravi, mentre quelli proposti dall'adolescente siano risibili: ciò porta a una drammatizzazione delle problematiche genitoriali a fronte di una sottovalutazione di quelle filiali. Da tutto ciò può derivare il rischio di diminuire l'attenzione e l'ascolto in una fase della vita assolutamente strategica per i figli: in adolescenza, infatti, le prime difficoltà, anche se apparentemente banali, rappresentano la palestra in cui si esercita la capacità di autostimarsi, di conoscere e fronteggiare i propri limiti, di affrontare la frustrazione. Sottovalutando queste occasioni, si creano le basi di una difficile comunicazione familiare.
Riscrivere un patto
È dunque evidente che l'analisi delle componenti del disagio giovanile non può prescindere da quella delle profonde trasformazioni che hanno mutato il quadro sociale, relazionale, cognitivo, affettivo nel quale i ragazzi sono cresciuti. In particolar modo occorre analizzare il rapporto tra le aspettative (quelle indotte dai processi maturativi cognitivi e relazionali ma anche frustrate dall'impatto con il mondo degli adulti) e i possibili itinerari di realizzazioni di sé: per decenni in tale rapporto le contraddizioni sono state miti, oggi il rapporto è foriero di dolore e di rabbia esplosiva. Le ragioni della mitezza delle contraddizioni di allora risiedono nella sostanziale saldezza delle strutture di supporto e di accoglimento, ovvero della famiglia, della scuola e del quartiere. Oggi tutto questo fa parte di uno scenario esploso, così come evanescente è diventata l'etica sociale che rappresentava il fattore di coesione di quelle strutture.
Il mondo giovanile è diventato improvvisamente freddo e anaffettivo; la solitudine - caratteristica paradossale in una società dominata dalla fruibilità dei mezzi di comunicazione di massa - rappresenta la dimensione esistenziale che accomuna gran parte del quotidiano dei ragazzi. Da un'indagine svolta nella provincia di Reggio Emilia, su un campione rappresentativo della popolazione di età compresa tra i 16 e i 18 anni, è emerso che circa un terzo degli intervistati non saprebbe a chi rivolgersi nel caso in cui dovesse sentirsi in crisi (psicologica), nel senso che non vorrebbe aprirsi né con i genitori, né con gli insegnanti, né con i coetanei.
È dunque giunto il momento di riscrivere un patto capace di disciplinare i rapporti tra famiglia, scuola e città, un patto in cui tutti i contraenti devono assumersi le nuove responsabilità legate ai cambiamenti che hanno modificato la loro natura e i fini cui erano stati indirizzati dalle generazioni passate.
La famiglia deve rivedere i tempi di vita: non si può cenare in dieci minuti e poi pretendere di conoscere l'evolversi del mondo affettivo ed emozionale dei bambini e degli adolescenti. La scuola deve finalmente rivestire il ruolo di agenzia educativa (non più e non solo istruttiva), il che implica l'aggiornamento del curriculum formativo dell'insegnante (ma anche del suo stipendio), la revisione critica dei programmi e dell'organizzazione dell'attività didattica. La città deve potersi ripensare per accogliere il punto di vista di un bambino e di un adolescente, le loro esigenze, la loro cultura: dove può passare il pomeriggio un ragazzo o una ragazza di quindici o sedici anni in una delle nostre città? Esistono luoghi dove la sua creatività, la sua forza espressiva siano ascoltate e valorizzate?
Come si vede la sfida è ambiziosa. La nostra comunità ha un estremo bisogno di credere nelle nuove generazioni, di poter 'declinare i verbi al futuro', di permettere ai propri figli di progettare un mondo migliore. Perché una comunità che ha ucciso il sogno dei suoi più giovani cittadini è già morta.
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Le trasformazioni fisiche e psichiche dell'età adolescenziale
Si definisce adolescenza l'età della vita compresa tra fanciullezza e condizione adulta, nella quale si compiono fondamentali processi di crescita, di definizione della personalità e di trasformazione fisica. Tale età si svolge in un arco di tempo piuttosto lungo, all'interno del quale si evidenziano fasi con differenze sostanziali e di varia natura. Con l'approfondimento degli studi scientifici, si è suddiviso questo stadio della vita in tre momenti (uno iniziale tra i 12 e i 14 anni; uno intermedio tra i 14 e i 16; uno tardo tra i 16 e i 18), ma oggi si tende a riconsiderare i confini di età tradizionalmente assunti per delimitare il periodo. I mutamenti sociali dell'età moderna hanno infatti dilatato l'adolescenza, specie nel segmento finale; in particolare, l'estensione dell'istruzione postscolastica prolunga la dipendenza economica dei giovani, ritardandone l'autonomia e la sperimentazione della vita adulta.
I processi di trasformazione fisica sono particolarmente evidenti durante la pubertà (prima fase dell'adolescenza), quando si manifestano modificazioni somatiche e neuroendocrine che portano alla maturazione delle funzioni sessuali e a cambiamenti psicologici e comportamentali. Pubertà vuol dire fertilità, impulsi sessuali, rapido aumento della statura e del peso. Le modificazioni puberali indotte dalla produzione degli ormoni della crescita - il testosterone nei maschi e gli estrogeni nelle femmine (il testosterone induce lo sviluppo del tessuto muscolare e dei peli, e si ipotizza che faccia aumentare l'aggressività; gli estrogeni determinano lo sviluppo delle mammelle e del tessuto adiposo attorno al bacino e sull'addome) - hanno implicazioni emotive e psicologiche ancora più importanti dei cambiamenti fisiologici. Nei maschi, l'improvviso accrescimento muscolare favorisce lo sviluppo dell'autostima, mentre nelle ragazze l'aumento della massa adiposa può dare origine a un acuto senso di imbarazzo, persino a un'avversione per il proprio corpo. La comparsa del ciclo mestruale ha un impatto emotivo ancora più problematico: per alcune ragazze, gli inconvenienti connessi a questa ricorrenza passano in second'ordine a fronte della certificazione di femminilità che il menarca porta con sé; per altre, questo evento si traduce in vergogna, terrore, disgusto.
Dal punto di vista dell'adattamento psicologico, ciò che sembra rivestire la massima importanza ai fini degli adolescenti è se il proprio sviluppo puberale è precoce o tardivo rispetto a quello dei loro coetanei. Un ragazzo che matura fisicamente prima degli altri inizialmente acquista un vantaggio, in quanto un precoce aumento della statura e della muscolatura alimenta la fiducia in sé stesso e il senso di autostima: con un'altezza e una forza superiori a quelle dei compagni e una maggiore abilità nelle attività sportive, il giovane ha maggiori probabilità di conquistare popolarità ed essere considerato un leader del suo gruppo. Viceversa, un ragazzo che ha uno sviluppo tardivo e resta indietro rispetto agli altri nelle prestazioni sportive, spesso è considerato debole o per altri versi inadeguato, e può diventare impacciato e perdere popolarità tra i compagni. Nelle ragazze il fenomeno assume forme alquanto diverse, benché ci sia una certa variabilità da paese a paese. Una maturazione fisica precoce si accompagna a uno sviluppo di 'forme femminili': fianchi più larghi, crescita del seno, adipe distribuito in varie parti del corpo. Data l'enfasi sulla magrezza che si riscontra in tutta la cultura occidentale, questi cambiamenti spesso inducono la ragazza a sentirsi grassa e brutta, ciò che costituisce una tra le cause dello scarso senso di autostima che si rileva con tanta frequenza nelle adolescenti. Spesso gli adolescenti di entrambi i sessi sono tesi a consolidare la propria identità di genere, e uno sviluppo tardivo o non accettato può dar luogo a considerazioni di inadeguatezza, a svalutazione o rifiuto di sé. L'identità cresce in rapporto alla rappresentazione mentale che si ha del proprio corpo. Quest'immagine è il risultato delle sensazioni, delle percezioni di sé, di una costruzione che il soggetto elabora con il concorso di componenti emotive, come di fattori antropologici e sociali, che propongono all'imitazione, e relativa identificazione, modelli di valorizzazione o svalutazione del corpo. Le ricerche più recenti suggeriscono che, generalmente, gli effetti negativi dovuti ai cambiamenti somatici dell'adolescenza, e all'accettazione o meno della propria immagine, non permangono nel tempo; vantaggi e svantaggi possono scomparire ed essere attenuati da compensazioni: una pubertà, precoce o tardiva, penosa o incoraggiante che sia al momento, può avere un'incidenza di secondaria importanza sullo stile di vita degli anni successivi.
Meno visibili, ma ugualmente importanti, sono i cambiamenti cognitivi determinati dallo sviluppo dell'intelligenza e del pensiero. Nel corso di questa fase, l'adolescente diventa capace di compiere operazioni mentali complesse e sottili con il passaggio dalle operazioni concrete (classificazione, seriazione) alle operazioni formali, cioè al pensiero ipotetico deduttivo. Le differenze tra un'età e l'altra derivano non tanto dalla quantità di nozioni acquisite ma dalla qualità del pensiero che conferisce significato alle nozioni stesse. Nella preadolescenza, termini o concetti astratti come 'società', 'libertà', 'ordinamento politico' sono intesi in senso riduttivo; allo stesso modo, il concetto di 'tempo' appare sfuggente nei nessi che collegano passato, presente e futuro.
Nell'adolescenza, il giovane acquisisce la capacità di guardare al di là di ciò che è immediato, tangibile, e di orientarsi consapevolmente nella gamma delle possibilità. Comincia un processo di approfondimento della sensibilità morale, per cui il giovane abbandona le modalità stereotipate e ripetitive, risultato di quanto gli è stato insegnato, a favore di quella complessità e sottigliezza che caratterizzano il processo cognitivo in quest'età.
La personalità dell'adolescente mostra alterazioni, di cui alcune sono transitorie, altre rappresentano gli antecedenti dei nuovi indirizzi che assumeranno il tono dell'umore, il temperamento e il carattere. Questi e altri sviluppi danno origine a nuove realtà sociali e nuove attitudini dell'ambiente (il vicinato, la scuola, la famiglia) verso il giovane e viceversa. In una fase di rapida transizione, ha inizio un difficile negoziato tra adolescente e adulti in tema di libertà, autorità e diritti. Anche la natura dell'amicizia subisce mutamenti: lo sviluppo cognitivo consente una maggiore empatia, per cui i giovani imparano a entrare nel ruolo dell'altro. Alcuni riescono a instaurare rapporti di intimità soltanto con una cerchia ristretta, selezionata di amici, altri sono attratti dal gruppo - o anche 'banda' e 'branco' - che, in assenza di una famiglia forte, può influenzare sensibilmente il loro comportamento.
Riguardo al rapporto adolescente-famiglia, secondo numerosi studi esistono quattro fondamentali stili familiari che riflettono l'atteggiamento adottato dai genitori nei confronti dei figli: autorevole, autoritario, indulgente, indifferente. I genitori autorevoli mostrano affetto, ricompensano con premi il merito, stabiliscono limiti ben definiti su ciò che è inaccettabile. Il prevalente sforzo educativo dei genitori autoritari è di tenere a freno e inibire i comportamenti trasgressivi dei figli; le manifestazioni aperte di affetto sono inesistenti o sporadiche. I genitori indulgenti sono disponibili ma incapaci di imporre regole. Quelli indifferenti mostrano scarso interesse o affetto, la disciplina è assente o marcatamente incoerente. Le differenze tra ragazzi cresciuti in questi distinti regimi familiari si esprimono nelle modalità di adattamento adolescenziale. I figli di genitori autorevoli sono capaci, sicuri di sé, responsabili, mostrano considerazione per gli altri; al contrario, quelli di genitori autoritari sono insicuri e hanno una propensione alla dipendenza e passività; quelli di genitori indulgenti hanno a loro volta atteggiamenti di indulgenza e sono privi di iniziativa e di costanza; gli adolescenti più disturbati sono quelli che provengono da famiglie indifferenti, inclinando a comportamenti aggressivi, scarso autocontrollo e poca attenzione per gli altri.
Anziché con i membri della propria famiglia, i giovani trascorrono la maggior parte del loro tempo con i coetanei, la cui influenza è però meno determinante di quanto comunemente si pensi, soprattutto nel caso di adolescenti ben adattati. C'è una tendenza a considerare il triangolo relazionale tra genitori, amici e figlio in maniera semplificata, con i genitori e gli amici che si contendono la fiducia del giovane, mentre nella maggior parte dei casi i valori familiari sono stati interiorizzati e sono effettuali anche in assenza delle figure parentali. In tal senso, l'adolescente non si pone come un 'contenitore vuoto', pronto a essere 'riempito' passivamente; è invece agente attivo che compie autonomamente le proprie scelte selezionando il gruppo dei 'pari'.
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La psiche dell'adolescente
Il processo fondamentale che avviene nell'adolescenza è l'acquisizione di un coerente senso del sé. L'identità, che si costruisce attraverso un processo di integrazione di tendenze e caratteristiche psicologiche in risposta a richieste sociali e culturali di varia natura, è una sintesi di talenti, interessi, capacità, predisposizioni istintuali, difese, identificazioni del giovane, sintesi interconnessa con gli ideali, le aspettative e le proibizioni dell'ambiente familiare e culturale. La ricerca dell'identità implica un continuo adattamento delle proprie esigenze e aspettative a ciò che l'ambiente permette, vieta o incoraggia più o meno esplicitamente. Trovare la propria identità è come un rito di passaggio dilatato nel tempo, un periodo di transizione in cui si devono saggiare tutte le possibili alternative.
Attraverso le modificazioni biologiche e psicologiche, il giovane acquisisce un'identità sessuale stabile e la capacità di indipendenza nei confronti dell'ambiente esterno. Il percorso è tutt'altro che agevole: l'adolescente deve affrontare una delicata e complessa riorganizzazione strutturale del proprio mondo interno per riuscire a distaccarsi dalle figure parentali interiorizzate e per conquistare una propria dimensione. In questo processo l'adolescente è impegnato in una rielaborazione psicologica di conflitti e di equilibri costituitisi in età infantile, in una sorta di seconda fase di 'separazione-individuazione', e al tempo stesso è esposto a problemi e difficoltà specifici della nuova fase evolutiva. Lo sviluppo non è lineare, ma avviene in un alternarsi di movimenti regressivi e progressivi: un ritorno al passato (in una specie di fusione con gli oggetti originari) e una spinta verso il futuro (differenziazione), verso nuove integrazioni, sostenute anche dai più complessi procedimenti cognitivi.
La comparsa della sessualità nelle sue forme mature è uno degli eventi adolescenziali complessivamente più evidenti. Il comportamento sessuale si manifesta però con grandissima variabilità, legata per es. al grado di maturità, alla religione, alla classe sociale e al genere. In ogni sistema sociale si cercano dei modi per incanalare gli impulsi sessuali, per condizionare l'adolescente a preferire certe forme di erotismo ed evitarne altre. Tutti i sistemi hanno in comune obiettivi che sono quelli di proteggere le ragazze da gravidanze premature o fuori dal matrimonio e di permettere comunque, specialmente ai maschi, la manifestazione della sessualità, durante quel periodo sempre più prolungato che precede l'autonomia economica.
In questa fase così delicata non è raro l'insorgere di disturbi psicopatologici, soprattutto quelli legati alla sfera dell'alimentazione e le sindromi depressive, tutti fenomeni rari durante l'infanzia.
Le più diffuse psicopatologie relative all'alimentazione sono l'anoressia e la bulimia. Esse hanno in comune alcuni aspetti - essenzialmente l'intenso desiderio di perdere peso - ma differiscono profondamente per la maggior parte delle caratteristiche. L'anoressia è un disturbo in cui ci si priva volontariamente del cibo, sino ai limiti della sopravvivenza, al fine di diventare magri; a esserne affette sono quasi esclusivamente le ragazze che cominciano a ritenersi grasse e stabiliscono di perdere una certa quantità di peso; ma una volta raggiunto l'obiettivo prefisso, decidono di dimagrire ancora, dando così inizio a un processo che può andare avanti fino a condurle alle soglie della morte: perché sopravvivano sono talvolta necessari il ricovero e l'alimentazione forzata. La bulimia, invece, si presenta con aspetti più diversificati: talvolta comporta periodi di avide e incontrollate ingestioni di cibo, poi seguiti da vomito, mentre in altri casi gli eccessi alimentari diventano secondari rispetto a un bisogno compulsivo, in realtà assimilabile a una tossicodipendenza, di prendere dei purganti, fino a tre, cinque volte al giorno. La diffusione di forme anoressiche e bulimiche fra gli adolescenti, che si riscontra in tutti i paesi industrializzati, è un fatto relativamente recente: fino a poco più di un quarto di secolo fa, infatti, l'anoressia era una condizione in cui ci si imbatteva raramente nella pratica professionale o in testi specialistici sulle anomalie comportamentali; era stata descritta in epoche passate - per es. nel Medioevo, in giovani donne che si privavano del cibo come pratica devozionale, e ancora, per un breve periodo, in epoca vittoriana - ma non sembrava aver mai interessato contemporaneamente un consistente numero di persone. Poiché le ragazze bulimiche e quelle anoressiche hanno personalità differenti per molti altri aspetti, ma ciò che le accomuna è il fanatico desiderio di essere magre o, quanto meno, di perdere peso, è probabile che sulla diffusione del fenomeno abbia influito l'importanza della magrezza in chiave estetica e salutistica imposta dai modelli culturali dominanti. Resta comunque da spiegare perché i disturbi si manifestino quasi sempre nelle donne e così di rado negli uomini, sia nell'epoca attuale sia nei secoli passati, quando dominavano altri sistemi di valori. I clinici peraltro tendono a considerare la bulimia come una variante della sindrome depressiva, dato che dalla storia familiare dei giovani che ne sono affetti si rileva che nei parenti vi è un'incidenza di depressione e di alcolismo superiore alla media.
Un tempo si pensava che la depressione si manifestasse solo di rado nel corso dell'adolescenza. I sintomi di tipo depressivo erano interpretati come stati d'animo transitori, espressioni delle 'normali' turbe adolescenziali. Questi assunti hanno ceduto il passo al riconoscimento che gli adolescenti sono soggetti a sindromi depressive della stessa natura di quelle riscontrabili nell'età adulta. L'attenta raccolta di dati ha evidenziato che la loro incidenza è progressivamente aumentata dalla fine della Seconda guerra mondiale. L'età critica inizia tra i 13 e i 15 anni e raggiunge il suo picco intorno ai 17-18 anni, con valori più alti nelle ragazze che nei ragazzi. Si è riscontrato che i giovani che soffrono di depressione durante l'adolescenza hanno probabilità molto maggiori degli altri di ricadere in episodi depressivi in epoche successive della vita, a meno che non si sottopongano a trattamento. È oggi generalmente riconosciuto che per la depressione esiste una predisposizione genetica, ma altrettanto riconosciuta è l'importanza che possono assumere nel suo manifestarsi gli stress psicologici, soprattutto in un periodo in cui il narcisismo del giovane è costantemente messo alla prova e le due principali fonti di depressione - la perdita di amore e la perdita di autostima - appaiono possibilità costantemente in atto.
Il suicidio, un tempo poco comune tra i giovani, è ora al secondo posto, preceduto solo dagli incidenti, tra le principali cause di morte degli adolescenti. Difficile dire cosa induce un giovane a una visione della vita così priva di speranza da fargli considerare il suicidio come unica soluzione: forse aspettative eccessive, oppure standard che appaiono irrealistici. Si uccide un maggior numero di ragazzi, mentre le ragazze apparentemente compiono con uguale frequenza dei tentativi di suicidio, che però in genere falliscono. La differenza si deve, in primo luogo, al fatto che i ragazzi usano strumenti più letali: la stragrande maggioranza fa uso di armi da fuoco, mentre tra le ragazze è più frequente il ricorso all'avvelenamento. In secondo luogo, le ragazze in genere desiderano essere salvate, e il loro tentativo è una richiesta di aiuto mentre nei ragazzi, come anche negli uomini adulti, vi è una volontà di uccidere, nel tentativo di distruggere qualcos'altro entro di sé, oltre sé stessi. Gli adolescenti che hanno tendenza a compiere un tentativo di suicidio presentano in genere storie familiari simili. Essi spesso provengono da nuclei dissolti e, quando il nucleo è integro, l'atmosfera è densa di conflittualità oppure il giovane si sente rifiutato da uno o da entrambi i genitori.
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Uno sguardo al passato: infanzia e adolescenza nell'età medievale e moderna
Le età della vita
Filosofi e artisti si sono a lungo soffermati sul tema delle età dell'uomo e sul ciclo evolutivo della vita. Tale concetto rientrava in un sistema di descrizione e spiegazione fisica risalente alla filosofia ionica del 6° secolo a.C., ripreso dai compilatori medievali e presente ancora nei libri di volgarizzazione scientifica del 16° secolo. La visione sottesa era quella di un'unica legge che regolava insieme i moti dei pianeti, il ciclo delle stagioni, il rapporto tra elementi, il corpo dell'uomo e il suo destino, essendo ricondotti tutti i fenomeni a un'unica causalità. L'astrologia consentiva di conoscere l'incidenza di questo determinismo universale o siderale sugli individui umani.
La medicina antica e medievale, sulla scorta di alcune osservazioni di Aristotele, aveva diviso la vita umana in periodi in base alle possibili combinazioni tra le quattro qualità primarie (caldo, freddo, secco, umido) costituenti, nel loro reciproco rapporto, la 'complessione' dell'organismo umano. Variamente delimitata quanto alla sua durata e divisa a sua volta in gradi (infanzia, puerizia e pubertà o adolescenza propriamente detta) dalla teoria più diffusa, l'adolescenza era fatta consistere nei primi 25-30 anni di vita, precedendo la gioventù o aetas consistendi (l'acmé di Aristotele, da alcuni considerata però soltanto il punto divisorio del periodo ascendente da quello discendente), prodromo, a sua volta, del terzo periodo, di declino della vita.
In un testo medievale, Grand propriétaire de toutes choses, le età sono sette e corrispondono ai sette pianeti: "La prima età è l'infanzia in cui si mettono i denti; comincia al momento della nascita e dura sette anni. In questa età, l'individuo si chiama infante, cioè non parlante perché […] non può formare perfettamente le parole […]. Dopo […] viene la puerizia, … l'individuo, come dice Isidoro, a questa età è come la pupilla dell'occhio; dura fino ai quattordici anni. Segue la terza età, detta adolescenza, che […] secondo Isidoro dura fino a ventotto. C'è chi la fa arrivare fino a trenta e anche a trentacinque anni. Isidoro dice che si chiama adolescenza perché la persona è abbastanza grande per generare. In questa età le membra sono elastiche e atte alla crescita, pronte a ricevere forza e vigore per il calore naturale […]. Tien dietro la giovinezza che è l'età di mezzo, e pertanto segna il culmine della forza; secondo Isidoro dura fino a quarantacinque anni; secondo gli altri fino a cinquanta […]" (il testo è citato da Ph. Ariès, L'enfant et la vie familiale sous l'ancien régime, Paris, Plon, 1960; trad. it., Bari, Laterza, 1968, p. 18).
La periodizzazione di un poema del 14° secolo (Grant Kalendrier et compost des bergiers, in J. Morawski, Les douze mois figurez, "Archivum romanicum", 1926, pp. 351-63) pone le età della vita in rapporto con i dodici segni dello Zodiaco e le scene del calendario: "Giustamente paragoniamo al gennaio i primi sei anni della vita perché […] difettano virtù e vigore. Gli altri sei anni sono di crescenza […] come fa ogni anno il febbraio […]. E quando gli anni sono diciotto si trasforma in sollazzo amoroso […] come si trasforma in bellezza il marzo e si scalda". Nell'iconografia del tempo le scale dell'età rappresentavano non solo le tappe biologiche ma anche le funzioni sociali: il periodo dei giochi, della scuola, dell'amore e degli sport cortesi e cavallereschi, della guerra, poi della vita sedentaria, esemplificata dagli uomini di legge, di scienza e di studio.
Le età indifferenziate
La speculazione classico-medievale lasciava dietro di sé un'ampia terminologia a proposito delle età. Tuttavia in un calendario del 16° secolo l'espressione 'infanzia forte e virtuosa' è riferita ai 24 anni; nei cataloghi, coevi, di alcuni collegi gesuitici i termini puer e adolescens sono usati indifferentemente (un ragazzo di 15 anni è bonus puer, un altro di 13 anni optimus adolescens).
L'adolescenza si confondeva con l'infanzia e la scansione era in tre fasi: infanzia, giovinezza, vecchiaia. Giovinezza significava a sua volta 'età media', vigore dell'età, e dunque non c'era posto per l'adolescenza. La lunga durata dell'infanzia che si manifesta nel linguaggio comune, con l'adozione di un termine vago e 'onnicomprensivo', è indicativa della poca attenzione ai fenomeni biologici: era estranea l'idea di farla terminare con la pubertà.
La visione dell'infanzia, almeno fino al Seicento, non è autonoma rispetto al mondo degli adulti e ai riti della società, in una specie di apprendistato continuo alla vita. All'età del divezzamento (a 4 anni e più, quindi ritardato rispetto a oggi) il bambino smetteva di essere tale, diventava il compagno naturale dell'adulto e veniva inserito nella vita dei grandi. L'indifferenza per i tratti caratteristici dell'infanzia è attestata anche dalla realtà concreta dei costumi: appena uscito dalle fasce, il bambino era vestito come gli adulti della sua condizione; già nei primi anni della sua esistenza apparteneva alla cerchia dei grandi; tra i 13 e i 15 era un uomo o una donna di fatto e prendeva parte a tutti gli eventi della vita sociale. La stessa specializzazione dei giochi non andava oltre i 3-4 anni: la musica, la danza e i giochi, anche d'azzardo, degli adulti riunivano tutta la collettività mescolando attori e spettatori di ogni età. Nel Cinquecento e nei primi anni del Seicento promiscuità e situazioni scabrose coinvolgevano i bambini in più occasioni, nelle feste private e in quelle stagionali; il modo corrente di associarli agli scherzi attinenti al sesso non destava riprovazione; licenza del linguaggio e contatti precoci non erano, per l'epoca, episodi scandalosi né anomalie sessuali. "Qualunque fosse la parte assegnata all'infanzia e alla gioventù c'era sempre a fissarla un protocollo di costume rispondente a un gioco collettivo che impegnava contemporaneamente il gruppo sociale e tutte le diverse età" (Ariès, cit. p. 87).
Nell'antico regime erano inflitte punizioni corporali e prove di coraggio erano richieste fin dall'età più precoce; paura e soggezione non risparmiavano neppure i principi ereditari. È una delle ragioni per le quali l'uomo adulto dell'antichità e quello del Medioevo non amavano rievocare la propria infanzia. A dieci secoli di distanza un padre della Chiesa, s. Agostino, e un mercante di fama, Giovanni Morelli, affermavano con immodificata convinzione che per nulla al mondo sarebbero voluti ritornare in quello stato, per il carico di ricordi negativi accumulati in quegli anni. Solo tra Settecento e Ottocento la letteratura conoscerà un successo della memorialistica, per l'affermarsi di un diverso sentimento dell'infanzia.
Nelle classi subalterne il momento dell'inserimento nella vita adulta era segnato dall'acquisizione della capacità di svolgere un qualche lavoro nei campi o nei mercati. Il ragazzo o la ragazza passavano direttamente dalla cura materna alla vita produttiva: l'economia dell'epoca si fondava anche su una serie di semplici mansioni che potevano essere eseguite da quanti non avevano raggiunto la pubertà, trascorsa la quale le differenze con gli adulti divenivano pressoché irrilevanti. "Per la grande maggioranza della popolazione l'educazione si identificava con i diversi momenti dell'allevamento della prima infanzia o con quelli dell'esistenza nelle comunità familiari e interfamiliari senza più distinzioni di età. L'educazione corrispondeva alla socializzazione sviluppata dai normali modi di vita e di produzione" (A. Santoni Rugiu, Storia sociale dell'infanzia, Milano, Principato, 1987, p. 175).
Per secoli un bambino nei primi anni di vita è stato ritenuto inutile o ingombrante, a meno che non avesse per destino o per censo un futuro dinastico o sociale già assegnato. Nei ceti più poveri, era un mero fatto biologico e non aveva alcuna garanzia di sopravvivenza. Non essendo ancora in età o in condizioni di risultare produttivo per essere avviato alla pastorizia e al lavoro agricolo, egli aveva solo il compito di far crescere il proprio corpo per rendersi al più presto utile alla comunità. Si trattava di una selezione sociale, non dissimile da quella naturale che concerne la vita animale, superata la quale il bambino si era conquistato il diritto a esistere. Spesso moriva prima, di malattia, di stenti, di calamità naturali o per guerre, e il suo corpo si perdeva nell''anonimato dei morti', così come si sarebbe perso nell''anonimato dei vivi'. Le condizioni sociali e igieniche erano tali che specialmente negli strati meno abbienti oltre la metà dei bambini non oltrepassava i primi anni di vita. La soluzione più pratica era allevare i piccoli senza particolari preoccupazioni, anzi con 'rassegnazione fatalistica', nei limiti delle possibilità naturali ed economiche, rendendoli via via più partecipi dell'attività lavorativa e delle forme di vita dei grandi.
Il bambino aveva un'identità umana, ma era privo di una sua identità culturale. Gliene era attribuita una dagli altri da cui dipendeva, genitori o educatori, a seconda della gerarchia sociale di appartenenza. Qualunque identità gli venisse imposta, non poteva che essergli estranea. L'accento posto sul lato poco apprezzabile dell'infanzia è anche una conseguenza dello spirito classico e della sua esigenza di razionalità. I latini traducevano il termine greco paidèia - l'educazione pubblica fatta di ginnastica e musica (per musica si intendeva tutto ciò che avesse a che fare con le Muse) - non con "educazione del bambino" ma con humanitas, ossia formazione nel ragazzo delle qualità razionali dell'adulto: la sola giustificazione dell'infanzia era sopravvivere e condurre all'uomo futuro. L'educazione era intesa come iniziazione a un modo di vita tradizionale, come un processo di conquista di consapevolezza etica e di abitudine alla virtù, come imitazione dei gesti, dei comportamenti e delle attività dei grandi.
La società medievale e moderna non aveva l'idea di un'educazione graduale e specifica per le varie età. Nella scuola, la pedagogia era caratterizzata dall'assenza di gradazione dei programmi, dalla simultaneità dell'insegnamento, dai metodi orali della ripetizione. Nei testi sono rari i riferimenti precisi all'età degli scolari perché questa preoccupazione era inesistente. Nei collegi - prima ristretti a una minoranza di chierici istruiti, poi, nel Quattro-Cinquecento, ampliati a un numero crescente di laici, nobili e borghesi, e anche a famiglie più modeste - le varie età erano confuse nel medesimo uditorio: bambini di 9-10 anni si trovavano mescolati ad adolescenti di 15 e anche ad adulti desiderosi di apprendere. "L'elemento psicologico essenziale di questa struttura demografica è l'indifferenza all'età dei suoi componenti" (Ariès, cit. p. 173).
Il sentimento dell'infanzia
Pur non essendo diminuita di molto la mortalità infantile tra il 1200 e il 1600, nel 17° secolo si fa strada una diversa considerazione dei bambini; c'è una sensibilità nuova che accorda loro caratteristiche che prima non ci si curava di riconoscere. L'importanza attribuita alla personalità infantile si collega al rinnovamento religioso e morale e al mutamento dei costumi che promossero l'imposizione di altri codici.
Non si tratta di pensatori isolati ma di un movimento di cui si scorgono segni ovunque, nella letteratura morale e pedagogica, nelle pratiche del culto e in una nuova iconografia religiosa. Si precisano regole di buona educazione e si diffonde una letteratura pedagogica a uso di genitori ed educatori, basata sui principi di 'decenza', 'modestia', 'ritegno', 'severità'. Prende consistenza la nozione di 'innocenza infantile', quella visione morale dell'infanzia che insiste sulla sua debolezza e associa alla debolezza l'innocenza, riflesso della 'purezza divina'. È un concetto rivoluzionario rispetto all'infanzia come pochezza o anche come nobiltà: i bambini delle chansons de geste e dei romanzi cavallereschi si comportavano come cavalieri, testimonianza della loro virtù e nobiltà. Il senso dell'innocenza infantile dà luogo a un duplice atteggiamento verso l'infanzia: "da un lato preservarla dai vizi, in particolare dalla sessualità tollerata, dall'altro rinvigorirla sviluppando il carattere e la ragione" (Ariès, cit., p. 135). Bisognava conservare l'innocenza e bisognava sopprimere o ridurre a ragione l'ignoranza o debolezza. In questa concezione, nuova rispetto al Medioevo, i termini del binomio innocenza-ragione non erano in opposizione. La relazione tra infanzia, primitivismo, irrazionalismo o stadio prelogico comparirà nel Settecento con J.-J. Rousseau, per il quale è errato 'vedere nel fanciullo l'uomo' e l'educazione deve essere 'negativa', eliminando ogni intervento nel processo di naturale maturazione delle facoltà del bambino; e successivamente con F. Fröbel, che scopre nel fanciullo una libera attività creatrice, una 'specificità avente in sé il proprio fine'. Ma il processo di valorizzazione dell'infanzia ha inizio nel Seicento, quando si delinea una distinzione tra 'piccoli', 'medi' e 'grandi', tra 'angioletti' e 'giovani spiriti', e si usa una terminologia più varia rispondente alle età, con accenti che preludono al sentimento del 18° secolo e al romanticismo.
Nel Seicento il bambino di famiglia nobile o borghese acquista una sua autonomia anche nell'abbigliamento: indossa un abito che lo distingue dagli adulti e che consiste in una veste lunga, aperta sul davanti e chiusa da bottoni o lacci, simile a una tonaca da ecclesiastico. Nell'iconografia medievale e moderna, il bambino si accompagnava di solito alla figura della madre, a familiari o educatori; ora, con la scoperta della specificità del mondo infantile nella coscienza collettiva, egli diventa un protagonista. Il Bambino Gesù è rappresentato spesso isolato, non più unito alla Vergine o inserito nella Sacra Famiglia, in atteggiamento simbolico: calpesta il serpente, si appoggia su un globo.
Nei collegi persiste l'arcaico miscuglio delle età degli scolari: ragazzi di 10, 15, 20 o anche 25 anni frequentavano le medesime classi. Rimangono ancora confuse e indistinte la seconda infanzia, l'adolescenza e la giovinezza, ma i più piccoli sono separati dagli altri, ricevono cure particolari, sono sottratti alla società dei grandi. Con il riconoscimento di una prima infanzia, una "prima breccia si apre nell'indifferenziazione delle età" (Ariès, cit., p 273).
Il nuovo atteggiamento, in cui si fondono interesse psicologico e attenzione morale, ispirerà l'educazione fino al 20° secolo, in città come in campagna, nella borghesia come nel popolo. Al tempo stesso l'approfondimento degli studi sui gradi dell'infanzia e dell'adolescenza, condotti da molti autori - A. Freud, M. Klein, O. Decroly, E. Claparède, M. Montessori, J. Piaget - segna un mutamento della prospettiva per il rilievo dato alla psicologia evolutiva e per la definizione sempre più sottile delle caratteristiche fisiche, psicologiche e cognitive che separano queste età.