SERENA, Adelchi
– Nacque nell’allora Aquila il 27 dicembre 1895 da Giuseppe e dall’emiliana Vincenza Bulgarelli, secondogenito dopo Ida e prima di altre tre figlie: Diva, Dora e Maria.
La famiglia, di piccoli commercianti, vide nell’istruzione una via di ascesa sociale: tra il 1906 e il 1915 Serena concluse con difficoltà nel liceo ginnasio aquilano il ciclo di studi, caratterizzato da scarsa resa scolastica e indisciplina (fu espulso dal locale convitto nazionale nel 1911 e frequentò da esterno). Allo scoppio della Grande Guerra fu tra i giovani studenti che anche nelle periferie italiane ebbero un ruolo nella decisione di entrare nel conflitto. Animò tensioni interventiste, subendo provvedimenti di polizia. Pur minorenne, riuscì a farsi accettare come volontario. Subito dispensato per la salute non ottimale, poté diplomarsi nel giugno del 1915.
Richiamato alle armi, iniziò dal 1916 la sua esperienza di guerra tra i bersaglieri, anche in zone di operazione (Cadore e Pasubio), avanzando di grado da tenente a capitano, decorato con croce al merito e congedato da maggiore nel dicembre del 1919. Visse le difficoltà di molti della sua generazione, trovatisi a comandare per il proprio livello di istruzione e non per competenze militari.
Alla fine del 1920, anche sfruttando le facilitazioni per gli studenti militari, si laureò a Napoli in giurisprudenza. La pratica forense nel noto studio di Vincenzo Speranza, sindaco giolittiano della città, gli apriva ottime prospettive professionali, che eluse preferendo l’impegno politico: discusse, e vinse, la sua prima e unica causa nel 1922 davanti alla corte d’appello penale di Aquila, si iscrisse all’Ordine solo alla fine del 1927.
Le pulsioni all’elevazione borghese, miscelate a interventismo e patriottismo, combattentismo e antisocialismo, lo avvicinarono al movimento fascista. Il 1° febbraio 1921 si iscrisse al Fascio aquilano; nel febbraio del 1922 entrò nel direttorio cittadino del Partito nazionale fascista (PNF) e vi rimase pur tra forti lotte interne. Nella seconda metà dell’anno partecipò ad azioni squadriste nella provincia: arrestato e rinviato a giudizio, fu amnistiato grazie al r.d. 22 dicembre 1922 n. 1611.
Se la marcia su Roma (28 ottobre 1922) lo trovò prudentemente a Napoli da una sorella in attesa degli eventi (giunse in tempo per sfilare davanti al Quirinale il 31 ottobre, tra polemiche che indussero i responsabili a far marciare i ritardatari in coda al corteo), egli però seppe assumere il ruolo di garante del compromesso politico e di ceto nell’Aquilano tra nascenti quadri dirigenti delle camicie nere e vecchi rappresentanti del potere locale, quale referente delle tradizionali élites cittadine che, specie nel Mezzogiorno, si riallinearono ai nuovi assetti di potere a marca fascista.
Il consolidarsi della dittatura, tra il 1923 e il 1926, lo vide personaggio più anonimo rispetto alle luci nazionali dei protagonisti iniziali del fascismo in Abruzzo, che ebbe uomini di governo (come Giacomo Acerbo, principale manovratore del regime nella zona, al quale lo legarono sempre relazioni ambivalenti, e Alessandro Sardi, l’aristocratico presidente dell’Istituto Luce), eroi di guerra (Raffaele Paolucci), censori alla guida del tribunale speciale per la difesa dello Stato (Guido Cristini).
Sotto traccia, però, seppe con ostinazione e abilità costruirsi un percorso che lo avrebbe condotto all’apice del fascismo: segretario cittadino del fascio tra il 1922 e il 1923, fino al 1927 nel direttorio federale del PNF di Aquila, nel 1923 console della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale al comando della 130ª legione (dal 1929 console generale), nell’aprile del 1924 divenne deputato per la XXVII legislatura, eletto nella lista di minoranza fiancheggiatrice del ‘listone’ fascista. Durante la crisi seguita all’assassinio di Giacomo Matteotti, nel 1924, guidò la delegazione dei notabili che incontrò Benito Mussolini in occasione della sua visita in città, ricompattando il potere locale sotto l’egida di regime.
Con il 1926 si aprì per lui un periodo di svolta. Nel partito vinse il duello intestino per il controllo del fascismo della provincia aquilana. Fiaccato da una classica campagna denigratoria il rivale Sardi (di Sulmona, da sempre antagonista di Aquila), sciolta e commissariata la Federazione dai vertici PNF (giugno 1926), Serena poté finalmente divenire segretario federale della provincia nel gennaio del 1928, rimanendovi fino all’aprile del 1929.
Fu però sul piano amministrativo che si determinò un autentico scarto, con la nomina a podestà di Aquila, carica ormai politica e non più elettiva (23 dicembre 1926).
Fino al gennaio del 1934 l’incarico gli consentì di trasformare la città in un triplice senso: negli assetti urbanistici; nella promozione, visionaria ma riuscita solo in parte, del turismo nell’area, con il massiccio montuoso del Gran Sasso e l’altopiano di Campo Imperatore collegati da una funivia e serviti da un hotel in quota (costruiti tra il 1931 e il 1935); nella creazione della cosiddetta Grande Aquila (luglio-dicembre 1927), accorpamento imposto, e non indolore, di nove comuni limitrofi che portò a più che raddoppiare la popolazione del capoluogo. Il tutto rispondeva a una doppia esigenza: controbilanciare la nascita della quarta provincia abruzzese di Pescara, cesura storica che nel gennaio del 1927 aveva spezzato i plurisecolari equilibri nella regione e sottratto zone industriali al territorio aquilano; mantenere alla fascia montuosa una centralità che invece si andava ormai spostando verso la costa adriatica.
La notorietà derivatagli dalla sua attività podestarile gli procurò la salita di altri gradini politici e sociali. Nel 1929 continuò a sedere alla Camera, tra i quattrocento deputati designati della lista unica fascista votata nel primo plebiscito del regime. L’8 febbraio 1932 sposò Maria Angelica Ciarrocca a Roma, dove ormai si era stabilito. La moglie era erede di una delle famiglie benestanti aquilane e ciò – oltre che elevare il suo tenore di vita, segnare l’ingresso nei ‘piani alti’ della società romana e dargli quattro figli tra il 1932 e il 1940 (Giuseppe, Maria Laura, Fausta e Piera) – gli sarebbe stato utile nella carriera. Dal dicembre del 1932, per un anno, fu membro del direttorio nazionale del PNF e poi, tra il luglio e il novembre del 1933, commissario straordinario della turbolenta Federazione romana, incarichi che gli diedero lo slancio per assurgere alla vicesegreteria nazionale del partito, sotto la protezione decisiva del segretario Achille Starace, compiendo un ideale percorso dalla provincia alla capitale (dicembre 1933).
Nel 1934 concluse l’esperienza podestarile, incassò la conferma a deputato nel secondo plebiscito di regime e fu cooptato nel Gran Consiglio del fascismo. Da allora, pur tra diverse altre cariche fino al 1943, si dedicò soprattutto al partito. Il suo attivismo gli valse una notorietà sempre maggiore, anche per la nomina a segretario nazionale reggente del PNF tra il febbraio e il luglio del 1936, quando sostituì Starace, impegnato nella guerra d’Etiopia. In quei mesi, attraverso la mediazione del partito, tentò di stimolare una gestione autarchico-corporativa dell’economia nel Comitato nazionale per l’indipendenza economica.
Non firmò il Manifesto degli scienziati razzisti nel 1938 e, dal marzo del 1939, sedette nella non più elettiva Camera dei fasci e delle corporazioni: i suoi anni parlamentari (1924-43) furono anonimi e nessuna delle proposte legislative che presentò venne approvata. Per lui si apriva però il biennio più intenso della sua vita pubblica: il 31 ottobre 1939 fu nominato ministro dei Lavori pubblici, nel rimpasto ministeriale orchestrato da Galeazzo Ciano. Primo ministro aquilano dall’Unità, si trovò a gestire la più alta spesa in opere pubbliche della parabola del regime.
Un anno dopo, ecco la chance che lo ricondusse nel partito: esautorato Starace e fallita la parentesi di Ettore Muti, il duce lo chiamò alla segreteria nazionale del PNF (30 ottobre 1940).
L’ascesa al vertice di un esemplare ‘uomo nuovo’ che il fascismo aveva elevato dalla provincia si compiva proprio in una fase delicata, dopo l’ingresso nel conflitto dell’Italia e l’avvio della fallimentare guerra parallela in Grecia. In quattordici mesi, rivelando doti di intraprendenza in discontinuità con la sua immagine un po’ grigia, egli animò un estremo esperimento di rilancio del partito nell’emergenza bellica. L’illusoria accelerazione totalitaria del PNF di guerra si estrinsecò da un lato in un numero notevole di iniziative, finalizzate a rinnovarne quadri e funzionamento, istituire servizi per le popolazioni (specie nel campo dell’assistenza alimentare), coinvolgere fette d’Italia ai margini (pletorici fasci femminili, gruppi universitari fascisti, istituti fascisti di cultura). Dall’altro, però, egli giocò su un tavolo più scivoloso: lavorò al rafforzamento del ruolo del partito nei confronti dello Stato, riesumando così una delle più antiche aporie del regime. Formando vari organi, tra cui l’Ufficio studi e legislazione, cercò di ridare al PNF persino una rinnovata preminenza giuridica. Le sue proposte non divennero norme approvate né applicate del tutto e le commissioni create rimasero senza seguito concreto, non per la brevità dell’incarico ma perché in contrasto con l’intento del regime di tenere calme le acque politiche mentre le prospettive del conflitto si facevano negative.
Indebolito dalle faide interne al potere fascista e dal deteriorarsi dei rapporti con l’esercito, il Senato (che non ne approvò i progetti), lo stesso Mussolini, il sottosegretario agli Interni Guido Buffarini Guidi, nonché dallo scontro pubblico con il ministro dell’Agricoltura Giuseppe Tassinari sulla disciplina dei prezzi degli approvvigionamenti, fu infine costretto alle dimissioni di fatto: il duce accolse la sua richiesta di partire volontario in guerra (26 dicembre 1941).
Destinato in Croazia, vi rimase dal 10 gennaio 1942 all’8 settembre 1943, guadagnando la promozione a tenente colonnello di fanteria, la croce di guerra (che si aggiunse a varie onorificenze civili precedenti) e la nomea di critico delle difficoltà belliche dell’Italia fascista. All’annuncio dell’armistizio assunse una falsa identità e rientrò a Roma. Optò per la clandestinità senza aderire alla Repubblica sociale italiana.
Protetto da varie gerarchie cattoliche in sedi religiose, rimase nascosto oltre la fine del conflitto. Subì da contumace la controversa epurazione postbellica, facendo valere sia gli appoggi ecclesiastici sia una mai chiarita collaborazione con la Resistenza romana sotto il nome di Alberto Scerni. Indagato dall’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo dall’agosto del 1944, processato presso la I Sezione speciale bis della corte d’assise di Roma, con sentenza 10 luglio 1947 fu assolto per i reati previsti dall’articolo 2 del DDL 27 luglio 1944 n. 159 (annullamento delle garanzie costituzionali) e amnistiato per l’articolo 3 (organizzazione squadrismo).
Da allora scelse la vita privata a Roma, nella cura dell’azienda agricola del suocero, declinando proposte di candidatura nel Movimento sociale italiano, rimanendo però vicino al neofascismo; rinunciando a pubblicare le acritiche difese del proprio passato come tanti colleghi di regime; solo facendosi paladino della candidatura di L’Aquila a capoluogo di regione. Affetto dal morbo di Parkinson dai primi anni Sessanta, morì a Roma il 29 gennaio 1970.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato, bb. 4, 89, 93; Ministero dell’interno, Direzione generale pubblica sicurezza, Divisione servizi informativi e speciali (SIS), Sezione II, Categoria HP-Reati politici, Fascicoli personali, b. 168; Divisione affari riservati, Categorie permanenti, Fascicoli personali, b. 339; Archivio di Stato di Roma, Corte d’Appello, Sentenze Sezione speciale, b. 3, 37/47; Archivio privato della famiglia Serena.
E. Savino, La nazione operante: profili e figure, Milano 1934, p. 82; M. Missori, Gerarchie e statuti del P.N.F., Roma 1986, pp. 275 s.; R. De Felice, Mussolini l’alleato, I, Torino 1990, ad ind.; E. Gentile, La rivoluzione continua. Il progetto totalitario di A. S., in E. Gentile, La via italiana al totalitarismo, Roma 1995, pp. 225-298; E. Cavalli, A. S. nella storiografia ufficiale, in Abruzzo contemporaneo, 2001, vol. 12, pp. 149-156; Id., La Grande Aquila. Politica, territorio e amministrazione ad Aquila tra le due guerre, L’Aquila 2003, ad ind.; A. Vittoria, A. S., in Dizionario del fascismo, II, a cura di V. De Grazia - S. Luzzatto, Torino 2003, pp. 621 s.; E. Fimiani, A. S., in Gente d’Abruzzo. Dizionario biografico, IX, a cura di E. Di Carlo, Castelli 2006, pp. 257-264; W. Cavalieri - F. Marrella, A. S. Il gerarca dimenticato, L’Aquila 2010.