Provvedimento con il quale, nel processo esecutivo arcaico romano, il pretore assoggettava il debitore al potere del creditore insoddisfatto, pronunciando uno dei tre verbi in cui tradizionalmente si esplicava la sua giurisdizione (do, dico, addico). La procedura esecutiva assunse in seguito, nell’ambito del processo formulare (invalso dall’età tardorepubblicana), un carattere quasi esclusivamente patrimoniale; è quindi lecito affermare che solo nell’età più antica i creditori, chiedendo al magistrato di emettere l’a., usavano rivalersi direttamente sulla persona dei loro debitori che, pur non perdendo la libertà e la cittadinanza romana, erano costretti a sopportare una servitù di fatto. Essi, secondo la previsione della legge delle Dodici Tavole, erano trascinati nella casa del creditore che, pur obbligato a provvedere al loro sostentamento minimo, poteva nei 60 giorni successivi esporli pubblicamente a tre mercati consecutivi, affinché qualcuno li riscattasse, a soddisfacimento del credito; ove ciò non fosse avvenuto, la legge ne autorizzava la vendita oltre Tevere, in terra straniera, o addirittura la messa a morte (che si attuava per squartamento, in caso di pluralità di creditori). Dalle fonti risulta che di rado il creditore giungeva a tanto, preferendo tenere l’addictus presso di sé, al fine di sfruttarne la forza-lavoro, per poi eventualmente liberarlo. Ciò aveva reso la sua posizione simile a quella del nexus che, pur non avendo subito alcuna procedura esecutiva, si trovava egualmente assoggettato al creditore, cui si era offerto per garantirgli il pagamento del debito. Solitamente il magistrato pronunciava l’a. sulla base di una sentenza di condanna già emessa dal giudice a conclusione di un precedente processo di cognizione, ma si danno casi in cui il provvedimento veniva adottato anche a prescindere da tale condanna, come, per es., nei confronti del ladro colto in flagrante (fur manifestus).