Adamo
. Padre di un Cacciaguida fiorentino, che compare come testimone in un atto del 28 aprile 1131 e che il Davidsohn identifica con Cacciaguida (v.) trisavolo di Dante. Il documento, del fondo Strozzi-Uguccioni dell'Archivio di Stato di Firenze, fu redatto " infra claustrum ecclesiae sancti Apollenarii ", non lontano da S. Martino del Vescovo, dove a quella data già avrebbe dimorato Cacciaguida dopo aver lasciato le case degli Elisei al principio dell'attuale via degli Speziali Grossi. Ma l'identificazione di questo Cacciaguida figlio di A. col Cacciaguida avo di D. non è del tutto sicura.
Bibl. - Davidsohn, Storia I 651.
Adamo, maestro (mastro). - Nome (If XXX 61, 104) di un dannato che compare tra i falsari della decima bolgia, e che, più particolarmente, appartiene alla categoria dei falsificatori di monete, come dichiara egli stesso, specificando di aver falsato la lega suggellata del Batista (XXX 74), cioè il fiorino, obbedendo agli ordini dei conti Guido e Alessandro di Romena e di un loro fratello (e' m'indussero a batter li fiorini / ch'avevan tre carati di mondiglia, vv. 89-90), e di aver subito per tale colpa, s'intende da parte dei Fiorentini, il supplizio del rogo (v. 75).
I commentatori antichi non forniscono notizie più precise sul dannato, a parte alcune contrastanti indicazioni sulla sua patria (" de Casentino " per il Bambagliuoli; " bolognese " nelle chiose Selmi; " de civitate opulenta Brixiae " [Brescia] secondo Benvenuto). Un contributo importante all'identificazione del falsario si trae invece da un atto rogato a Bologna il 28 ottobre 1277 (pubblicato dal Tarlazzi nel 1869, ma posto in evidenza dal Palmieri nel 1889), nel quale si parla di un " magistro Adam de Anglia familiare comitum de Romena ". Il Palmieri, per accordare questa testimonianza con quella di Benvenuto, supponeva uno scambio inammissibile tra Brixia e Brestia (Brest, allora appartenente all'Inghilterra). Poco fondate anche le correzioni congetturali del termine ‛ Anglia ' proposte dal Torraca (in ‛ Agna ', località del Casentino), da V. Rossi (in ‛ Angleria ' [Angera]), e da un dantista anonimo citato dal Livi (in ‛ Angolo ', paese della Val Camonica). Sull'origine inglese del personaggio dantesco ha invece insistito lo Zaccagnini, ritenendo di poterlo identificare anche con un " magister Adam de Anguila " e con un " Adam Anglicus ", nominati in altri atti bolognesi del 1270 e del 1273; identificazioni possibili, ma (come hanno mostrato il Livi e il Contini) non inevitabili; mentre anche meno sicura appare l'ipotesi di un soggiorno più o meno lungo del maestro a Brescia, pure formulata dallo Zaccagnini, per accordarsi con Benvenuto, sulla base di un altro atto bolognese del 1276, nel quale è ricordato un " Adam qui fuit de Brixia ". L'indicazione di Benvenuto può invece essere forse meglio spiegata (col Contini) come nata da una confusione con la patria (appunto Brescia) del podestà Matteo de' Maggi, sotto il quale (secondo la testimonianza del cronista Paolino Pieri, in Rer. Dal. Script. Suppl., II, Firenze 1770, 36) a Firenze, nel 1281, fu arso uno spenditore di monete false mandato dai conti di Romena, e identificabile, secondo ogni probabilità, col personaggio. dantesco. Non ci sono, in conclusione, ragioni serie per mettere in dubbio l'origine, o almeno la provenienza, dall'Inghilterra del maestro A.; ed è certo, in ogni caso, che egli non fu un semplice artigiano, ma appunto un magister, " termine tecnico del mondo universitario, grado sinonimo di dottore ", addottorato in una facoltà che " più che la medica, ben probabilmente è ancora quella delle Artes, fra le quali vennero classificate le cosiddette scienze naturali " (Contini).
Queste notizie sulla figura storica del falso monetiere non sono inutili a una più esatta interpretazione del complesso significato etico e artistico che egli assume nella rappresentazione dantesca.
La critica recente ha ormai abbandonato la caratterizzazione di maestro A. (avviata dal De Sanctis) quale espressione esemplare e conclusiva del " mondo prosaico e plebeo " di Malebolge, quasi " animale, senza coscienza della sua bassezza "; e, nel quadro di una più articolata e approfondita valutazione di tutto il cerchio dei frodolenti, ha messo in luce la ricca dialettica di toni grotteschi e patetici e i raffinati procedimenti stilistici con cui il poeta ha costruito questo personaggio. In realtà, pur prendendo lo spunto dalla particolare colpa e pena del dannato, D. ha inteso rappresentare in lui, imprimendole più forte rilievo, una situazione che è comune un po' a tutti i grandi peccatori del suo Inferno: la disperata aspirazione a emergere, distinguendosene con tutta la forza dell'intelligenza e della passione, dall'eterna infamia della condizione infernale; un'aspirazione che alla fine non può non chiarirsi irrealizzabile, poiché quella intelligenza e quella passione sono irrimediabilmente contaminate dall'impiego colpevole a cui sono state rivolte.
Questo nucleo drammatico è già implicito nella presentazione del dannato (XXX 49-57), nella quale alla descrizione tragicamente caricaturata della pena (si vedano in particolare le similitudini del leuto e dell'etico) fa riscontro l'insistenza sulla ‛ singolarità ' della pena stessa (si ricordi anche che l'idropisia, come immagine della sofferenza spirituale di chi è assetato di ricchezze, è un raro topos: di illustre ascendenza letteraria), che distingue il maestro A. dagli altri suoi compagni di bolgia. A svolgere in senso positivo questa prima impressione di singolarità, a tramutarla nella considerazione di un caso umano particolarmente degno di compassione, in contrasto con l'orribile e infamante castigo eterno, è indirizzato il lungo discorso con cui il monetiere si rivolge a D. (XXX 58-90): patetica e drammatica apologia, che ha il suo culmine d'intensità umana e artistica nel celebre ricordo dei ruscelletti che d'i verdi colli / i del Casentin discendon giuro in Arno, / faccendo i lor canali freddi e molli (vv. 64-66), ma in cui si inseriscono funzionalmente sia gli echi biblici e letterari e i preziosi artifici retorici (sottolineati dal Contini), intesi a nobilitare non solo stilisticamente il discorso, sia il violentissimo movimento polemico contro i conti di Romena, che, nella sua stessa violenza eloquentemente accentuata, dovrebbe contribuire, gettando la colpa su quei signori, ad attenuare il peccato del maestro. La medesima aspirazione a emergere dall'infamante condizione infernale si ritrova anche nel secondo e più breve discorso (vv. 94-99), con cui il falso monetiere fornisce, a richiesta di D., notizie sui suoi più vicini compagni di pena, Sinone e la moglie di Putifarre: ambedue presentati con un tono tra disgustato e sprezzante, a sottolineare il distacco che il maestro vuol porre tra sé ed essi. Ma proprio nella spietata malignità di questo discorso comincia a rivelarsi la degradazione morale del personaggio, l'irrimediabile contaminazione subita dalla sua intelligenza. Compito dell'alterco con Sinone (vv. 100-129), con colui che era stato nomato si oscuro, sarà quello di rendere esplicita tale rivelazione, di immergere il maestro in un rapporto in cui egli cessa ormai di esistere come ‛ personaggio ', e viene invece, per così dire, generalizzato sul piano della ‛ malizia ' intellettuale e morale tipica della media dei dannati di Malebolge. A ragione alcuni critici (Contini, Sapegno, G.B. Salinari, Santangelo) hanno messo in rilievo il largo uso, in tale alterco, di moduli espressivi (pugno, croia, tamburo, crepa, marcia, ventre, squarcia, rinfaccia, ecc., per lo più in rima; lo schema della ‛ ritorsione ', che governa tutto il dialogo) caratteristici di quella poesia ‛ comico-realistica ' dallo stesso D. già sperimentata nella giovinezza. Non sarà forse il caso, tuttavia, di intendere l'episodio prevalentemente in chiave biografico-letteraria, come cioè la ripresa, e insieme la condanna, di un'esperienza personale ormai superata. Sembra invece più giusto affermare che quei moduli ‛ comico-realistici ', disciplinati come sono entro procedimenti tipici dello stile ‛ illustre ' (antitesi, chiasmi, perifrasi, ripetizioni, annominazioni, ecc.), valgono soprattutto a creare una scena che, mentre rappresenta con precisa e concreta aderenza la maligna ed eloquente gara di contumelie fra i due dannati, al tempo stesso lascia avvertire come quella gara si inquadri essa stessa, in definitiva, entro gli schemi solenni del giudizio divino, assuma cioè il significato di un'esemplare punizione inflitta da Dio a un'intelligenza irrimediabilmente degradata in ‛ malizia '. Tale interpretazione dell'alterco trova conferma nella scena seguente (vv. 130-148), in cui D. si fa redarguire da Virgilio per aver ascoltato con troppo interesse il piato fra i due dannati. Il rimprovero del maestro e il rimorso del discepolo, infatti, si pongono come un chiarimento definitivo, attraverso la dura condanna della malsana suggestione che quello sfoggio di maligna eloquenza poteva esercitare, del giudizio etico e religioso presente nella stessa descrizione dell'alterco: un chiarimento che, posto com'è a conclusione dei tredici canti dedicati a Malebolge, intende forse anche riassumere, più generalmente, il valore di tutta la complessa esperienza accumulata in quel cerchio.
Bibl. - I giudizi del De Sanctis citati nel testo sono in Storia della letteratura italiana, Torino 1958, 220 e 225. Tra le letture del canto XXX dell'Inferno si vedano quelle di O. Bacci, Firenze 1901; F. Torraca, in "Giorn. d. " XIII (1905) 4-13 (poi in Nuovi studi danteschi, Napoli 1921); L. Fassò, Firenze 1931 (poi in Dall'Alighieri al Manzoni, ibid. 1955); M. Porena, La mia ‛ lectura Dantis ', Napoli 1932, 113-139; G. Contini, Sul XXX dell'Inferno, in " Paragone " XLIV (1953) 3-13 (poi in Lett. dant. [senza però le note, alcune delle quali molto importanti]); G. Santangelo, Motivi del canto di maestro A., nel vol. misceli. Saggi e ricerche in memoria di E. Li Gotti, III, Palermo 1961; E. Bigi, Firenze 1963. Considerazioni sull'episodio sono anche in G.B. Salinari, Il comico nella " D.C. ", in " Belfagor " X (1955) 639-641; E. Sanguineti, Interpretazione di Malebolge, Firenze 1961, 345-357; R. Dragonetti, D. et Narcisse ou les faux monnayeurs de l'image, nel vol. miscell. D. et les mythes. Tradition et rénovation, Parigi 1965, 85-146. Sulla figura storica del maestro A. cfr. G. Palmieri, Introiti ed esiti di papa Niccolò III (1279-1280), Roma 1889, XXV-XXVI; G. Zaccagnini, Personaggi danteschi, in " Giorn. stor. " LXIV (1914) 2-8; G. Livi, Un personaggio dantesco: Maestro A. e la sua patria, in " Giorn. d. " XXV (1921) 265-270 (poi in D. e Bologna, Bologna 1921); e la lettura cit. del Contini, pp. 7-8.