Ferguson, Adam
Filosofo e storico scozzese (Logierait, Perthshire, 1723 - St. Andrews, Fifeshire, 1816). Fu uno dei principali protagonisti dell’Illuminismo scozzese. Dopo aver studiato nelle università di St. Andrews e di Edimburgo, dal 1745 al 1754 fu cappellano militare del 43° reggimento scozzese degli Highlanders (di stanza nelle Fiandre) e prese parte alla battaglia di Fontenoy. Nel 1757 sostituì Hume nell’incarico di bibliotecario alla facoltà di Legge dell’univ. di Edimburgo, dove divenne poi professore di filosofia naturale (1759), di filosofia morale (1764) e di matematica (1785). Si batté per una militia scozzese e nel 1778 fu incaricato di negoziare un accordo con il Congresso americano. La sua opera più celebre è An essay on the history of civil society (1766; trad. it. Saggio sulla storia della società civile), che ebbe sette edizioni durante la vita del suo autore ed influenzò alcuni protagonisti della cultura tedesca dell’Ottocento (tra cui Hegel e Marx): a essa è legata la sua fama di anticipatore delle moderne scienze sociali. Tra gli altri suoi scritti, Institutes of moral philosophy (1769), History of the progress and germination of the Roman Republic (1783), Principles of moral and political science (1792).
Il Saggio sulla storia della società civile segna una delle tappe fondamentali nell’elaborazione del moderno concetto di ‘società civile’, intesa come sfera distinta rispetto alla ‘società politica’, cioè allo Stato. Su questa strada si era già posto Rousseau, che aveva preso le mosse dallo stato di natura (connotato positivamente) e aveva presentato la società civile come l’esito di un processo degenerativo, nel quale l’istituzione della proprietà privata giocava un ruolo decisivo. A tale visione F. rivolge varie critiche. Anzitutto è impossibile ipostatizzare, come fanno tutti i giusnaturalisti, uno stato presociale come lo stato di natura, perché l’uomo, a differenza dell’animale, è caratterizzato dal progresso, che si compie attraverso la specie: ogni generazione costruisce sulle fondamenta delle generazione precedente. L’uomo, inoltre, ha sempre vissuto in società, come testimoniano anche i resoconti più antichi; ammesso che sia esistito un tempo in cui l’uomo viveva nello stato di natura, è così lontano che non disponiamo di alcuna testimonianza e quindi ogni ragionamento su di esso ci conduce nel regno delle pure congetture. Proprio perché meramente congetturale (e quindi inevitabilmente soggetto «al desiderio di dare fondamento ad un sistema prediletto»), il metodo dei giusnaturalisti ha condotto a una visione unilaterale dell’uomo, rappresentato come naturalmente socievole o insocievole: in realtà, negli uomini convive sia la forte tendenza a unirsi ai propri simili (negli affetti familiari, nei rapporti di amicizia, nei legami comunitari), sia la tendenza a entrare in conflitto con essi, non solo per ragioni di ordine materiale, ma anche e soprattutto per un’innata disposizione all’aggressività (nelle menti degli uomini, scrive F., vi sono germi di animosità che li spingono a cogliere con piacere le occasioni di reciproco contrasto). Per F., come per Kant, convivono quindi nell’uomo le opposte tendenze alla socievolezza e all’insocievolezza: quest’ultima dà luogo ai conflitti, nella cui valutazione positiva F. si spinge molto più avanti rispetto al filosofo tedesco. «Colui che non ha mai lottato con i suoi simili è estraneo alla metà dei sentimenti umani», scrive F., il quale sostiene anche che «senza la rivalità tra le nazioni e la pratica della guerra, la stessa società civile difficilmente avrebbe potuto trovare una ragion d’essere». Infine, F. capovolge il giudizio di Rousseau sulla proprietà, riconoscendo in essa un potente fattore di progresso. Egli divide i popoli primitivi in due categorie: i primi (selvaggi), non conoscendo la proprietà, consumano in comune i prodotti della caccia e della pesca e hanno un’organizzazione sociale soltanto embrionale; i secondi (barbari) sono dediti alla pastorizia e si dividono, grazie all’istituzione della proprietà, in ricchi e poveri, dando vita a un’articolazione sociale complessa, che ha degli inconvenienti ma è la condizione del progresso. La proprietà, infatti, si acquisisce (o si migliora) attraverso l’operosità, e quest’ultima «richiede un’abitudine ad agire in vista di oggetti futuri tale da poter permettere di superare la disposizione presente all’apatia o al godimento»; ed è questa abitudine al lavoro e al sacrificio che caratterizza le nazioni più avanzate (civili), dove la sempre più articolata divisione del lavoro – dalla manifattura all’amministrazione civile e militare – ha condotto a un’organizzazione sociale sempre più complessa.
Pur mettendo in luce i vantaggi della divisione del lavoro, F. ne sottolinea al tempo stesso gli svantaggi, cioè la formazione di intere classi prive di sviluppo intellettuale e spirituale. Qui emergono le riserve di F. su alcune caratteristiche della società moderna, incentrata sull’individuo e sul commercio e carente di quelle risorse etiche che invece caratterizzavano i popoli antichi: i grandi uomini dell’antichità, scrive F., si facevano guidare da «obiettivi che suscitavano grande passione nell’animo e che li portavano ad agire avendo di mira l’interesse dei loro concittadini e a praticare quelle arti di deliberazione, di eloquenza, di politica e di guerra da cui dipende nel loro insieme il benessere delle nazioni e degli uomini». Se per un verso, quindi, F. accoglie gli sviluppi della modernità (contrapponendosi in ciò a Rousseau), per altro verso è anch’egli critico verso certe tendenze della società moderna (prevalenza esclusiva dell’interesse commerciale, isolamento individualistico) e guarda con ammirazione all’ethos del mondo antico. Non a caso, F. critica con forza le etiche edonistiche e utilitaristiche (polemizzando spesso con Mandeville e Hume) e si fa promotore di un’etica della lotta, del sacrificio, dell’abnegazione, che colloca la felicità umana non nel calcolo razionale dei piaceri o nel self-interest, ma nel perseguimento appassionato e rischioso di grandi obiettivi di natura sovrapersonale. Un tema sul quale, invece, F. rientra pienamente nella tradizione anglo-scozzese è la sua concezione del progresso, visto non come l’effetto di un piano cosciente elaborato da qualche projector (in primis, l’uomo di Stato), ma l’esito di un processo spontaneo fondato sullo sforzo congiunto di molte generazioni e sugli effetti inintenzionali delle azioni umane.