ACROSTICO (dal greco ἄκρος "sommo" e στίχος "verso")
Dicesi un componimento poetico nel quale le lettere iniziali dei versi riunite insieme, ossia lette verticalmente, vengono a formare una parola o una frase o più lungo discorso: e anche alla parola o frase risultante si dà lo stesso nome. Ma veramente i Greci dicevano acrostichide (ἀκροστιχίς: Dion. Halic., Ant. Rom., V, 62) o parastichide (παραστιχίς: Diog. Laert., V, 93; Suet., Gramm., 6; Gell., XIV, 6, 4), che viene a dire lo stesso. Pare ne incominciasse l'uso fin da tempi alquanto remoti. Secondo Diogene Laerzio, VIII, 78, il poeta Epicarmo di Cos (V sec. a. C.) si sarebbe servito di tale espediente nei suoi drammi in versi, come contrassegno di proprietà letteraria. Similmente per guarentigia di autenticità anche in responsi di oracoli, in ispecie di quelli sibillini, si poneva talvolta l'acrostico. Il più antico esempio di acrostico sicuramente conosciuto è dato da un papiro greco-egizio scritto tra il 193 e il 190 a. C., e si legge Εὐδόξου τέχνη ("arte di Eudosso", il famoso astronomo di Cnido): i dodici trimetri ond'è composto corrispondono nel numero delle lettere ai giorni dei dodici mesi, come avviene anche in altro epigramma con l'acrostico Μένιππος εὗρε ("Menippo trovò"). Non rari esempî ne offrono iscrizioni funerarie in versi, a partire, si dice, dal quarto secolo a. C. Molto vi si sbizzarrirono i Greci dell'età ellenistica, come attestano parecchi epigrammi dell'Antologia Palatina. Certe volte, per colmo di difficolta e di bravura, all'acrostico si unisce il mesostico (a mezzo il verso) e anche il telestico (in fine di verso). È ovvio che la poesia, costretta in tali morse, non diventa più che un giuoco di pazienza, simile a quello di sciarade, enimmi, logogrifi.
Nella letteratura latina sono famosi gli acrostici degli argomenti delle commedie di Plauto, dove le iniziali dei versi di ciascun argomento dànno il titolo della commedia: oggi si stimano fattura del tempo degli Antonini. Autentico è quello di cui si servì Ennio in un suo carme, come attesta Cicerone, De div., II, 111: Q. Ennius fecit. Più larga applicazione ne fu fatta nei secoli della decadenza, quando vennero anche di moda i carmi figurati di Optaziano (IV sec. d. C.). Né la poesia cristiana sdegnò farvi ricorso, massime pel cosiddetto acrostico alfabetico, d'origine orientale, dove le iniziali delle strofe si seguono secondo l'ordine dell'alfabeto, come già in alcuni salmi della Bibbia ebraica (25, 34 e specialm. 119), e come negl'inni di Sedulio, A solis ortus cardine e di Venanzio Fortunato, Agnoscet omne saeculum. Ancora più di frequente vi si provarono i Bizantini, in soggetti sacri e profani.
Dall'antichità l'uso passò alla poesia provenzale e alla nostra italiana del Medioevo. Così Dante da Maiano pose il suo nome nelle iniziali di un carme acrostico che incomincia "Di ciò che audivi dir primieramente", e il Boccaccio nell'Amorosa visione fece che i capoversi d'ogni terzina uniti insieme venissero a formare due interi sonetti e un madrigale, che sono la dedica del poema alla sua donna, "madama Maria" di Aquino. Del pari in Francia, in Inghilterra e altrove si composero carmi acrostici, anche di considerevole lunghezza, specialmente in onore di sovrani, e servendosi appunto del loro nome, come fece John Davies (1569-1626) per la regina Elisabetta. Tra i più recenti citiamo Edgar Allan Poe.
Per estensione si denomina acrostico anche una parola formata dalle iniziali di parole singole anziché di versi, come il famoso ΙΧΘΥΣ 'Ιησοῦς Χριστὸς Θεοῦ Υἱὸς Σωτήρ "Gesù Cristo, Figlio di Dio' Salvatore". La voce greca significa "pesce" e da S. Agostino De civitate Dei, 18, 33, viene recata a senso mistico. Acrostici di tal genere sono oggi divenuti comunissimi dappertutto.
Bibl.: Per i più estesi particolari, quanto all'antichità, vedasi l'articolo Akrostichos in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswiss.; Teuffel, Gesch. d. röm. Litterat., 6ª ed., I, p. 45 e seg.; H. Diels, Sibyll. Blätter, Berlino 1890, p. 35 e segg.; K. Ohlert, Rätsel und Rätselspiele der alten Griechen, Berlino 1912, p. 225 e segg.