VERTUNNI, Achille
– Nacque a Napoli il 27 marzo 1826, secondogenito di Federico, funzionario presso il Servizio telegrafico del Regno delle Due Sicilie, erede di un’agiata famiglia di origine aragonese, e della nobildonna partenopea Angela Maria Cerulli.
Rimasto orfano di padre a soli tre anni si oppose con forza, adolescente, alla volontà materna che caldeggiava per lui una carriera legale o di architetto onde consacrarsi interamente all’arte pittorica: ‘mestiere’ di cui apprese i primi rudimenti presso il Real Istituto partenopeo di belle arti (ove ebbe come maestri Salvatore Fergola e Gabriele Smargiassi) e in seguito frequentando la scuola privata di Giuseppe Bonolis al largo Vittoria.
Nella cerchia del cinquantenne pittore abruzzese, che aveva fatto proprie le riflessioni estetiche di orientamento hegeliano di Francesco De Sanctis e che di conseguenza si faceva interprete di una larvata opposizione al diffuso predominio del formalismo accademico, l’aspirante artista poté non solo aderire e prender parte alla ‘rivoluzione realista’ in corso, che intendeva disancorare l’attività creativa dai dettami neoclassici di impronta romano-francesizzante, ma anche entrare in contatto con un variegato gruppo di condiscepoli (Domenico Morelli, Filippo Palizzi, Francesco Saverio Altamura) accomunati dai medesimi sentimenti patriottici di stampo liberale. Fu con costoro e con altri giovani intellettuali legati al critico irpino (Angelo Camillo De Meis, Luigi La Vista, Diomede Marvasi, Pasquale Villari) che partecipò ai moti napoletani del 15 maggio 1848, rischiando la vita sulle barricate di largo della Carità.
Dopo aver posato come modello per una delle figure del discusso quadro Morte di un crociato del quasi coetaneo Altamura (Foggia, Pinacoteca civica) e aver esordito, secondo il gusto del tempo, con composizioni storiche di gusto morelliano (Manfredi fuggiasco dopo la presa di San Germano; L’incontro del Tasso con Marco Sciarra; Santa Margherita da Cortona rinviene il cadavere del suo amante), Vertunni avvertì di giorno in giorno sempre più viva l’esigenza di trovare una personale via artistica, che, affrancata dai convenzionalismi imposti dalla cultura romantica, sapesse conciliare il naturalismo palizziano, da cui si sentiva istintivamente attratto, con le innovative espressioni paesaggistiche della cosiddetta scuola di Posillipo. Primo frutto di questo intenso travaglio visivo e soggettistico fu la tela Dopo il duello, esposta alla Biennale borbonica del 1851 e premiata ex aequo con un’opera di Nicola Palizzi «per la ben scelta composizione e la buona esecuzione» (Ojetti, 1872, p. 82), cui seguirono Pia de’ Tolomei e Dante nella foresta: quadri per la verità solo abbozzati, dove l’ambiente naturale, a imitazione di quanto proposto da Massimo d’Azeglio, non costituiva semplice e immoto sfondo, ma uno degli ingredienti sostanziali del progetto rappresentativo assieme all’elemento umano.
Nel 1853, forte dei primi successi di critica, ma sempre alla ricerca di nuove forme pittoriche, decise di trasferirsi nella cosmopolita Roma papalina, ritenuto il contesto ideale per cogliervi grandi ispirazioni ed esercitarle appieno tra distinti cultori italiani e stranieri. Allestito un piccolo atelier presso la chiesa di S. Giacomo in Augusta, presto trasferito al civico 120 di via Flaminia, vi completò (1855) la citata Pia, presentata con successo all’Esposizione degli amatori e cultori di belle arti del 1857 e ancora due anni più tardi all’ultima Mostra borbonica di Napoli.
Detto quadro, il cui soggetto letterario era stato già illustrato in precedenza (1845) da Giuseppe Palizzi (Nello dei Pannocchieschi che ritorna al suo castello in Maremma nel momento in cui ne parte il corteo funebre della ingenua sposa tradita), oltre a «rivela[re] all’Italia una fama nascente» (F. Orioli, in L’Album, XXII (1855), 10, p. 75), segnò il punto più alto del paesaggismo storico vertunniano, destinato in tempi brevi, tranne estemporanee eccezioni (Il ratto di una donna a Capri fatto da corsari tunisini, 1865), a essere soppiantato da rappresentazioni oggettive (e dunque veristiche) di contesti spaziali intrisi di malinconica solennità.
A detta di un biografo contemporaneo (Ojetti, 1872, p. 83), furono «le difficoltà incontrate nel collocare [sul mercato] il dipinto, che costandogli anni di lavoro, non poté vendere che dopo sette anni tenutolo nel proprio studio», a far sì che la sua poetica dell’immaginazione evolvesse verso la ‘pura’ e semplice pittura di paese, affrontata con indubbia perizia tecnica e abilmente adoperata non solo per «trasfondere negli animi pensamenti profondi, memorie, affetti [e] speranze», ma anche – teste il critico Pietro Selvatico – per «destare nell’osservatore sentimenti ora ilari, ora mesti, ora placidamente sereni, a seconda dei siti trascelti».
Oltremodo predilette, tra questi (Venezia, Chioggia, Terni, Subiaco, Pozzuoli, Napoli, Capri, Amalfi, Salerno, Paestum, ma anche scorci egiziani eseguiti in loco nei primi mesi del 1874), furono diverse località della desolata Campagna romana (Maccarese, Castel Fusano, Tivoli, Nemi, Astura e così via), battuta in lungo e in largo da Vertunni al fine di coglierne en plein air gli aspetti più vivaci e suggestivi per poi trasporli con il pennello in tavole dall’ampio taglio scenografico.
Malgrado la sua produzione si risolvesse in pochi temi, replicati serialmente con minime varianti, e che molte delle sue opere fossero eseguite a quattro mani con alcuni giovani allievi (Pietro Barucci, Bernardo Celentano, Nazzareno Cipriani, Pio Joris, Gino Piccioni), prerogative entrambe rimproverategli in vita e post mortem, l’arte scevra da preconcetti intellettualistici di Vertunni, difesa più volte pubblicamente, incontrò per più di cinque lustri il gusto del pubblico aristocratico e altoborghese nazionale e internazionale, così come il favore di molte delle giurie chiamate a valutarla. Ciò non impedì, per altri versi, che essa stessa, l’ispirazione che ne era alla base e le modalità con cui veniva veicolata, basate quest’ultime su ponderate relazioni mondane e interumane, venissero bollate come tralignanti dal polemico ‘collega’ Nino Costa, nonché dal medesimo perentoriamente additate quali causa prima della deriva commerciale che aveva inquinato la ‘piazza’ capitolina nell’ultimo trentennio dell’Ottocento (Querci, 2012, p. 209, con bibliografia).
Diverse fonti profilanti quello scorcio di secolo (Baldassarre Odescalchi, Giovanni Gozzoli, Raffaele De Cesare, Ugo Pesci, Augusto Jandolo) riferiscono di come i lauti guadagni ricavati dalla professione prima e dopo l’Unità fossero stati da Vertunni man mano investiti nell’impiantare un fastoso studio-museo privato nello stabile Patrizi di via Margutta: quattordici stanze finemente arredate con oggetti pregiati di ogni epoca e provenienza, intervallati da vedute d’après nature in bella mostra, che costituirono fino al 1881 non solo lo specchio della vita protodannunziana del titolare, ma anche lo strumento con cui questi, giunto ormai ai vertici della carriera, coltivava e gestiva senza pregiudizi e scrupoli di sorta i rapporti con la propria clientela/committenza, annoverante la migliore società della belle époque.
A ben vedere appare assai significativo il fatto che la dismissione integrale al pubblico incanto di questo straordinario patrimonio collezionistico (S. Tadolini, Una vendita d’arte di ottant’anni or sono, in Strenna dei Romanisti, XXV (1964), pp. 488-490), provocata dalla necessità di recuperare la liquidità necessaria per far fronte alla crescente indigenza della numerosa famiglia (in tutto tredici figli avuti da due mogli sorelle tra loro, Agnese e Guendalina Silvagni, della nota famiglia di patrioti, sposate rispettivamente nel 1857 e nel 1868), si collochi temporalmente all’inizio dell’ultimo ventennio del XIX secolo. Momento in cui, pur continuando diverse sue elaborazioni a essere ammesse in raccolte europee e americane, queste stesse abbiano cominciato a esser ormai percepite come ‘antiquate’, specie al cospetto della pittura sfavillante e ammaliatrice degli epigoni di Mariano Fortuny Marsal, il maestro catalano prematuramente scomparso nel 1874. Con questi Vertunni e l’amico Attilio Simonetti condividevano una robusta passione antiquaria ai limiti della febbre accumulatoria, un sincero trasporto per le atmosfere tipiche del mondo orientale e, non ultimo, il concetto di oggetto artistico come bene mercificabile.
Si spense nella sua casa romana di via Curtatone il 20 giugno 1897. Minato nel corpo da una paralisi progressiva, forse causata da intossicazione da piombo (saturnismo), «i suoi quadri [già] celebrati e [pressoché] invenduti [dal 1890] non valsero a salvarlo dall’inopia delle ultime ore» (G. Diotallevi, A Gabriele D’Annunzio, in Gazzetta letteraria, XXIII (1899), 18, p. 138).
Paesaggista di dimensione internazionale, mercé l’assidua partecipazione alle principali rassegne collettive del suo tempo (Londra, Vienna, Philadelphia, Chicago, Parigi), la figura di Vertunni non è stata sinora oggetto di una specifica indagine monografica, a dispetto della sua rubricazione in vita come innovatore o caposcuola: circostanza questa indubbiamente determinata da una storiografia retrograda che – stante la mancanza di un catalogo delle opere cronologicamente ordinato – ha teso in passato a leggere la sua arte in una chiave autoreferenziale, deprimendone di fatto gli aspetti più alti. Parimenti ancora tutto da indagare è il suo ruolo di pubblicista-addetto ai lavori coinvolto nel dibattito cultural-politico tardottocentesco sul ruolo delle istituzioni in rapporto al rinnovamento e allo sviluppo delle abilità creative figlie del disegno.
Fonti e Bibl.: Scarne e compendiose sono le notizie su Vertunni reperibili nei pochi necrologi anonimi noti: Il pensiero italiano, VII (1897), 79-80, p. 408; La vita italiana, n.s., III (1897), 14, p. 156; L’Italia. Rassegna di scienze, lettere ed arti, I (1897), 1, p. 196. Maggiormente utili per la ricostruzione dei passaggi nodali della vita e della carriera dell’artista sono i seguenti contributi: R. Ojetti, Biografia di A. V. pittore, in Roma artistica, I (1872), 11, pp. 81-85; P. Levi l’Italico, Dal V. della Lirica al V. dell’Elegia, in Nuova Antologia, s. 5, CL (1910), pp. 238-248; S. Sersale, I Vertunni: una famiglia ispano-napoletana. Saggio storico, Roma 1938 (in partic. p. 333 ss.). Tra gli apporti critici più recenti si segnalano le schede di E. Farioli, in Il secondo ’800 italiano. Le poetiche del vero (catal.), a cura di R. Barilli, Milano 1988, p. 337; A.V. Jervis, in La pittura in Italia. L’Ottocento, a cura di E. Castelnuovo, Milano 1991, p. 1059; K. Fiorentino, in Antonio Fontanesi e la pittura di paesaggio in Italia: 1861-1880 (catal., Reggio Emilia), a cura di E. Farioli - C. Poppi, Milano 1999, pp. 82 s., 226; D. Grasso, in Dal vero. Il paesaggismo napoletano da Gigante a De Nittis (catal., Torino), a cura di M. Picone Petrusa, Torino-Londra-Venezia 2002, pp. 193 s.; S. Rolfi, in La pittura di paesaggio in Italia. L’Ottocento, a cura di C. Sisi, Milano 2003, pp. 378 s.; G. Berardi, Pittura all’aria aperta nei dintorni di Roma, in Storia del Lazio rurale: ’900, a cura di L. Barozzi, Roma 2005, pp. 325 ss.; G.L. Marini, Il valore dei dipinti italiani dell’Ottocento e del primo Novecento. L’analisi critica, storica ed economica, Torino-Londra-Venezia-New York 2012, p. 708; E. Querci, A. V. e Mariano Fortuny. Roma tra arte e mercato nella nuova stagione internazionale, in Roma fuori di Roma. L’esportazione dell’arte moderna da Pio VI all’Unità (1775-1870), a cura di G. Capitelli - S. Grandesso - C. Mazzarelli, Roma 2012, pp. 209-226; S. Iafisco, Paesaggio e collezionismo nella vita di A. V., in Belle Arti 131, 2013, n. 2, pp. 54-69; E. Querci, Influenze islamiche e ispano-moresche a Roma, tra arte, collezionismo e architettura, in Tra Oltralpe e Mediterraneo. Arte in Italia 1860-1915, a cura di M. Carrera - N. D’Agati - S. Kinzel, Bern 2016, p. 184 ss.; S. Spinazzè, Simonetti artista-antiquario tra Ottocento e Novecento, in Attilio Simonetti (1843-1925): pittore alla moda e antiquario a Roma, a cura di T. Sacchi Lodispoto - S. Spinazzè, Roma 2019, pp. 92 ss.