Achille Loria
Nell’ultimo ventennio del 19° sec. Achille Loria fu considerato uno dei più autorevoli economisti italiani e raggiunse fama internazionale. La seconda metà dell’Ottocento fu un periodo di crisi e di frammentazione per l’economia politica in Italia, segnata dai conflitti tra i seguaci di Francesco Ferrara, dell’economia classica e della scuola storica. Loria, collegandosi al positivismo, seppe proporre una propria concezione dell’economia e sembrò ridare autorevolezza alla disciplina nel nostro Paese. Considerato in un primo momento come l’interprete in Italia del materialismo storico di Karl Marx, fu punto di riferimento sia della scienza economica accademica, sia della cultura economica del nascente Partito socialista. Con l’avvento del marginalismo, la sua centralità e la sua fortuna vennero rapidamente meno, ma Loria continuò sempre a seguire la sua strada. Figura caratterizzata da luci e ombre, fu però personaggio rappresentativo di quella corrente di economisti attenti alla questione sociale.
Achille Loria nacque a Mantova il 2 marzo 1857, da Salomone e da Anaide D’Italia, entrambi israeliti. I suoi antenati erano emigrati a Mantova dalla Catalogna nel 16° secolo. Loria, pur non rinunciando mai all’appartenenza alla comunità ebraica, fu un intellettuale laico e distaccato dai temi religiosi. Si dichiarò sempre areligioso, ma non ateo. La sua adesione al positivismo, infatti, lo portava ad affermare che si dovrebbe parlare solo di ciò che si conosce, «ma gli uomini si ostinano a parlare di ciò che sono condannati a sempre ignorare, ed ecco perché v’ha religione» (A. Loria, Una crociera eccezionale. Dialoghi con me stesso, 1947).
Uscito dal liceo classico di Mantova «con una pagella di gloria», si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza di Bologna, dove ebbe come compagni i coetanei Filippo Turati, Enrico Ferri e Leonida Bissolati, che sarebbero diventati esponenti di primo piano del movimento socialista e ai quali sarebbe rimasto sempre legato.
Non attirato dai corsi delle materie giuridiche (salvo quelli di Pietro Ellero e di Giuseppe Ceneri: cfr. A. Loria, Ricordi di uno studente settuagenario, 1927, pp. 10 e segg.), si laureò nel 1877 con una tesi intitolata Tentativo di esposizione intorno alla proprietà fondiaria ne’ suoi rapporti col diritto e colla economia. Successivamente continuò i suoi studi di economia a Pavia, sotto la direzione di Luigi Cossa, a Berlino e a Londra (1879-82).
Fu professore ordinario di economia politica, prima a Siena (1881-91) dove fu anche preside nel 1886, successivamente a Padova (1891-1903), da dove infine passò a Torino (1903-32).
Collaborò ai principali periodici scientifici italiani e a importanti periodici stranieri, dal «Giornale degli economisti» a «La riforma sociale», all’«Economic journal», al «Journal of political economy», alla «Revue d’économie politique», all’«Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik». Molte sue opere furono tradotte in diverse lingue e, principalmente in Russia e negli Stati Uniti, suscitarono grande interesse.
Fu membro dell’Accademia dei Lincei dal 1901, corrispondente italiano della Royal economic society dal 1896, socio onorario dell’American economic association dal 1926. Divenne senatore del Regno d’Italia nel 1919.
Si sposò il 29 dicembre 1889 con Adelina Artom, dalla quale ebbe tre figli.
Morì a Luserna San Giovanni (Torino) il 6 novembre del 1943. Come ricorda Luigi Einaudi, la morte lo salvò dalle peggiori persecuzioni del regime nazifascista (L. Einaudi, Achille Loria (1857-1943), «Economic journal», 1946, ora in Achille Loria, a cura di A. d’Orsi, 1999, p. 429).
Nel corso della sua lunga vita, Loria entrò in contatto con molti dei principali economisti italiani e stranieri: le carte Loria, conservate all’Archivio di Stato di Torino, sono testimonianza di questa straordinaria rete di rapporti.
Coniugando l’economia con una più ampia analisi sociale e storica, Loria rappresentò bene l’influenza del positivismo sul pensiero economico. Per diversi anni, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, le sue idee ebbero grande diffusione e risonanza nel mondo accademico, ma anche in quello politico. Con il cambiamento del clima intellettuale, però, la grande fortuna di Loria si attenuò e cominciò quello che può essere considerato il periodo della sua «solitudine» (cfr. P. Jannaccone, La figura e l’opera di Achille Loria, 1955, in Achille Loria, a cura di A. d’Orsi, 1999, p. 431).
Loria inviò il suo primo libro, La rendita fondiaria e la sua elisione naturale (1880, ma uscita nell’ottobre 1879), a Marx, ricevendone un tiepido incoraggiamento. Successivamente, però, Friedrich Engels dedicò a Loria alcune pagine molto dure nella prefazione al terzo libro di Das Kapital (1894; trad. it. 1977, Libro III, pp. 23 e segg.) e Benedetto Croce mise in luce le debolezze fondamentali della sua costruzione teorica (B. Croce, Le teorie storiche del prof. Loria, in Id., Materialismo storico ed economia marxistica, 1941, pp. 21-54). Antonio Gramsci, nei suoi Quaderni del carcere, coniò la categoria del lorianesimo, a indicare quegli intellettuali italiani che avevano abdicato alla loro funzione civile. Per la verità il Loria criticato da Gramsci non è l’economista o il teorico dell’‘economismo’ storico, ma quello di alcune conferenze e scritti di occasione in cui spesso si ritrovano idee ‘bizzarre’ ma tutto sommato innocue.
Infine, l’affermarsi della teoria marginalista in Italia accentuò la solitudine di Loria, che rimase fedele all’impostazione teorica classica per tutta la vita e che non era disposto a isolare un nucleo di teoria economica pura separato dagli altri aspetti dell’analisi sociale.
Tuttavia, anche se indubbiamente dopo un periodo di grande fama la sua fortuna cominciò a declinare, secondo molti parametri egli dovrebbe essere considerato un intellettuale estremamente operoso e di discreto successo. Infatti, se Loria avesse goduto di una fama del tutto negativa, difficilmente sarebbe stato nominato socio dell’Accademia dei Lincei e senatore.
L’isolamento di Loria nella seconda parte della sua carriera scientifica va quindi ricondotto alla sua inattualità, al fatto cioè di essere rimasto ancorato a una visione positivistica della scienza sociale in generale e dell’economia in particolare, individuando l’oggetto principale dell’analisi nella distribuzione del reddito tra classi sociali, piuttosto che, come nell’economia marginalista, nel comportamento e nelle scelte degli individui e dei meccanismi equilibratori del mercato. Cosicché, si può anche ipotizzare che molti suoi colleghi potevano non disistimarlo, ma, comunque giudicassero nel merito i suoi lavori, li inserivano in un indirizzo periferico e poco significativo rispetto all’economia politica dominante, una deviazione dal campo proprio della scienza economica.
La teoria di Loria si basa sulla visione che pone a fondamento dell’evoluzione della società il rapporto tra l’uomo e la terra e le forme della sua appropriazione. Le forme dell’organizzazione economica della società sono il prodotto dei gradi successivi di occupazione e produttività della terra.
L’idea centrale della teoria loriana dello sviluppo economico è che la dinamica economica e sociale è condizionata dall’evolversi della struttura della proprietà della terra. L’aumento incessante della popolazione genera una successione di gradi crescenti di occupazione e di gradi decrescenti di produttività della terra. A ciascuno di questi gradi corrisponde un diverso stadio di sviluppo economico sul quale si erige una determinata sovrastruttura morale, giuridica e soprattutto politica. Fino a che esistono terre libere sulle quali il lavoro isolato e indipendente può produrre più delle sussistenze, non vi è possibilità di sfruttamento dell’uomo sull’uomo e quindi non esiste il profitto (che Loria definisce «reddito distinto») pur essendo presente l’accumulazione. In questo quadro si può avere «associazione propria» tra i produttori, quando i lavoratori cooperano tra loro per migliorare la coltivazione delle terre, o «associazione mista», in cui si associano tra loro da una parte i produttori del capitale e dall’altra i lavoratori. In tutti i casi, la distribuzione del prodotto resta egualitaria.
Nelle fasi successive, a causa dell’aumento della popolazione e della produttività marginale decrescente dei terreni, il lavoro diviene subordinato. L’associazione dei lavoratori al capitale diviene sempre più coercitiva. Infatti, nello stadio successivo, la diminuita produttività della terra fa sì che il lavoro isolato e indipendente possa produrre solo le sussistenze; per avere un’eccedenza occorre il lavoro associato e coadiuvato da un’organizzazione capitalistica e ciò si può ottenere con la schiavitù o la servitù (associazione coattiva) e a condizione che il prezzo dello schiavo superi la sua possibilità di accumulazione e quindi di riscatto. Nel terzo stadio di sviluppo la produttività della terra si riduce ancora, poiché tutte le terre, anche le meno fertili, sono occupate. Il prodotto del lavoro isolato e indipendente diventa minore delle sussistenze e quindi il «reddito distinto», frutto del lavoro capitalisticamente organizzato, può ottenersi anche impiegando lavoratori giuridicamente liberi.
Di conseguenza, finché esistono terre libere che possono essere trattate dal lavoro, la divisione in classi della società non può che essere il risultato dell’appropriazione dell’uomo attraverso la schiavitù oppure la servitù della gleba. Quando tutte le terre in cui il lavoro potrebbe produrre le proprie sussistenze senza l’aiuto di un consistente capitale sono appropriate, può nascere l’economia capitalista. Infatti, il capitale può ottenere permanentemente il profitto impiegando lavoratori giuridicamente liberi. In una prima fase, però, l’assetto capitalistico è conservato dalla riduzione del salario al livello della sussistenza, in modo che i lavoratori non possano, attraverso il risparmio, procurarsi il capitale necessario per acquistare e coltivare i terreni. Quando tutte le terre sono occupate, e a causa della diminuita produttività marginale del lavoro in agricoltura, il lavoro può produrre solo associandosi a quantità consistenti di capitale, il salario può crescere al di sopra del minimo di sussistenza, perché il capitale necessario alla coltivazione e all’acquisto dei terreni è sempre superiore alle capacità di risparmio dei lavoratori.
Loria espose le basi della sua teoria nella prima, voluminosa monografia, La rendita fondiaria e la sua elisione naturale, che si proponeva un raffronto fra l’evoluzione economica e sociale dell’Europa e delle sue colonie, per dimostrare
che a ciascun grado successivo di densità di popolazione e di occupazione della terra corrisponde un correlativo assetto economico e che perciò una popolazione europea, la quale fondi una colonia, deve fatalmente riassumervi tutte le istituzioni economiche dell’Europa primitiva, per poi procedere gradualmente ai successivi assetti economici del mondo europeo (Ricordi di uno studente settuagenario, cit., p. 34).
Come si vede, già in questa sua prima opera è evidente il determinismo per il quale nelle colonie si sarebbe verificata «fatalmente» la stessa evoluzione già svoltasi nei Paesi europei maturi, a partire dalle istituzioni economiche primitive per poi proseguire con le altre tappe successive.
Le opere successive di Loria (fra cui principalmente Analisi della proprietà capitalista, 2 voll., 1889-1890, e La costituzione economica odierna, 1899) non faranno altro che aggiungere a questa rappresentazione ulteriori elementi, il principale dei quali è rappresentato dalla «terra libera», il cui declino storico (dovuto all’appropriazione e messa a coltura di terre vergini) rende più aspro il conflitto fra capitalisti, i cui profitti sono schiacciati dalle rendite, e lavoratori, i cui salari sono schiacciati dai profitti. È agevole per i capitalisti (che a un certo punto si alleano con i proprietari fondiari) impedire ai lavoratori «l’accesso» alla terra e la conseguente trasformazione in coltivatori diretti. Il monopolio della proprietà fondiaria diventa la chiave di volta del sistema, garantendo ai capitalisti industriali un abbondante esercito di manodopera costretta ad accettare un salario in cambio della possibilità di lavorare e permettere la formazione di redditi basati sulla proprietà (della terra o del capitale).
All’interno della sua visione dell’evoluzione e della sua teoria delle forme economiche, Loria seppe dare anche alcuni contributi che, sia pure in forma intuitiva o non elaborata compiutamente, non sono trascurabili anche alla luce di sviluppi successivi. È forse in questi contributi che il giudizio su questa singolare figura di economista è più positivo.
Il primo contributo riguarda la teoria del valore classico-marxiano. Loria è molto chiaro nel delineare la sua concezione della teoria economica come teoria del sovrappiù:
Io raffiguro il prodotto totale (detratta la reintegrazione del capitale tecnico) ottenuto, in un paese dato, nel corso di un determinato periodo, per esempio un anno, con una linea ab. Questo prodotto si divide in due parti: l’una, rappresentata dalla linea ac si distribuisce tra gli operai e costituisce il salario; l’altra bc si distribuisce tra i non operai e costituisce il reddito. Orbene, il problema economico fondamentale si riferisce esclusivamente alla divisione della linea ab fra le ac e cb (La scienza economica e i problemi sociali del nostro tempo, 1903, pp. 534-35).
Il reddito è quindi per Loria ciò che nella moderna interpretazione dell’economia classica è chiamato oggi sovrappiù o prodotto netto. La distribuzione del prodotto tra classe operaia e classi proprietarie può essere sottoposta a una critica quantitativa, quando si tratta di vedere se i salari possano crescere in rapporto agli altri redditi, o a una critica qualitativa, quando si tratta di mettere in discussione le basi della stessa divisione del reddito tra compenso dei lavoratori e redditi di proprietà. La conclusione della critica qualitativa di Loria è molto netta:
la proprietà capitalistica, l’esistenza delle disparità sociali, e le mostruose sperequazioni e stridenti ingiustizie, che ne sono il fatale detrito, non sono che il prodotto di una usurpazione, nata dalla violenza e cresciuta nell’inganno, di cui è pensabile ed avverabile il completo irremissivo tramonto (La scienza economica, cit., p. 539).
All’interno di questa concezione Loria sviluppa una teoria dei prezzi relativi che prefigura sviluppi successivi. Da una parte egli, seguendo le orme di un altro economista italiano, Emilio Nazzani (1832-1904), riesce a determinare un saggio medio di profitto sulla base di un’equazione del sovrappiù che, sia pure sotto ipotesi semplificatrici, soddisfa la condizione, successivamente illustrata da Pierangelo Garegnani (1930-2011), di esprimere
i profitti e il capitale, che appaiono nell’equazione di sovrappiù, in termini che siano proporzionali ai loro [dei beni] prezzi incogniti, ma al tempo stesso non contengano i prezzi incogniti. Il saggio di profitto apparirà allora come l’unica incognita dell’equazione (P. Garegnani, Valore e distribuzione in Marx e negli economisti classici, in Valori e prezzi nella teoria di Marx, a cura di R. Panizza, S. Vicarelli, 1981, p. 38).
Loria applica la sua equazione del sovrappiù al settore produttivo dei beni salario. In questo senso tutti i beni che compongono il paniere dei beni salario e tutti i mezzi che concorrono alla loro produzione sono chiamati prodotti base, perché le loro condizioni di produzione concorrono alla determinazione del saggio di profitto e, per questa ragione, alla determinazione del valore di scambio dei beni.
La teoria del valore di scambio di Loria non presenta contraddizioni interne. Tuttavia vi sono due paradossi legati alla sua elaborazione. Il primo riguarda il rapporto con la teoria del valore di Marx. Benché alla luce degli sviluppi successivi le conclusioni di Loria potrebbero al giorno d’oggi essere considerate con piena legittimità all’interno del dibattito sulla teoria del valore di Marx, Loria si presentò sempre come un suo critico. Secondo l’economista mantovano, il problema della trasformazione dei valori lavoro in prezzi di produzione è un falso problema e perciò lo stesso Marx contraddice definitivamente la sua teoria del valore nel III libro del Capitale, ammettendo che i prezzi non sono proporzionali alle quantità di lavoro. Infatti, egli scrive:
Coll’asserire che il valore a cui le merci non si vendono mai è paragonabile al lavoro in esse contenuto, che cosa ha egli fatto se non ripetere sotto forma invertita la tesi degli economisti ortodossi, che il valore, a cui le merci si vendono realmente, non è mai proporzionale al lavoro in esse impiegato? (A. Loria, L’opera postuma di Carlo Marx, 1895, in Id., Marx e la sua dottrina, 1902, p. 109).
Loria si disse sempre un ammiratore di Marx, ma nel 1883, in un necrologio apparso nella «Nuova antologia», egli prese vivacemente le distanze dalla teoria del valore-lavoro e mise in luce, forse per primo, la difficoltà di conciliarla con un’efficace teoria della formazione dei prezzi di mercato. Questo causò, come già accennato, una veemente risposta epistolare di Engels, che da allora non mancò di bollare Loria come «Dulcamara», additandolo al disprezzo come intellettualmente disonesto.
Il secondo paradosso è che l’analisi di Loria contiene alcuni elementi che saranno sviluppati successivamente da Piero Sraffa, sia pure in tutt’altro contesto teorico. Quest’ultimo fu studente a Torino negli anni in cui Loria ricopriva la cattedra di economia politica. Tuttavia Sraffa non sembra aver mai colto questo contributo di Loria. Si laureò con una tesi di economia politica, ma ebbe Einaudi come relatore. Le intuizioni analitiche di Loria sono infatti nascoste all’interno di un’esposizione prolissa che abbonda di retorica e di riferimenti alla sua visione deterministica dell’evoluzione e alla terra libera. Niente di più lontano dal modo di argomentare di Sraffa, il quale probabilmente fu influenzato dal giudizio fortemente negativo di Gramsci su Loria. Tra i due autori, tuttavia, si sarebbe potuto avere un incontro sui temi sopra accennati.
Un altro tema in cui Loria mostra capacità analitiche e intuitive interessanti riguarda la sua teoria del mercato del lavoro, collegata a quella del capitale «improduttivo» e del «subprodotto».
La sua analisi del mercato del lavoro si basa sul concetto marxiano di esercito industriale di riserva e sull’esistenza di una funzione di proporzionalità tra saggio del salario e occupazione.
In La costituzione economica odierna Loria respinge la teoria del salario di sussistenza sostenuta in precedenza, in L’analisi della proprietà capitalistica, perché a questo livello i profitti non sono massimizzati.
Nella sua argomentazione, Loria introduce innanzi tutto il tema dell’organizzazione dei lavoratori in sindacati e, conseguentemente, del loro potere di imporre elevazioni del salario attraverso azioni di sciopero. Secondo Loria, i capitalisti e i lavoratori si comportano razionalmente come agenti economici massimizzanti le proprie funzioni obiettivo, con previsioni perfette riguardanti le conseguenze e la durata degli scioperi e gli altri dati economici rilevanti. I lavoratori, in quanto agenti massimizzanti, devono richiedere un incremento dei salari che sia più alto dei profitti (calcolati al saggio di equilibrio) sul reddito da loro perso durante lo sciopero. Nel caso in cui così non fosse, infatti, essi potrebbero massimizzare il proprio reddito rinunciando allo sciopero, risparmiando i salari così ottenuti e investendoli.
Dall’altro lato, i capitalisti saranno disposti a concedere l’aumento salariale solo se la conseguente perdita nei profitti risulterà più piccola dei profitti sul reddito che andrebbe perduto durante lo sciopero conseguente al loro rifiuto di accordarsi con i lavoratori. In altre parole, il valore attuale della perdita dei profitti causata dall’aumento dei salari deve essere minore della perdita di reddito causata ai capitalisti dallo sciopero. Si stabilisce così un saggio di salario di equilibrio in un mercato del lavoro conflittuale, date le condizioni tecniche di produzione che determinano la porzione del capitale tecnico sull’intero capitale investito.
Secondo Loria, tuttavia, questo livello del salario è effettivamente un livello di equilibrio solo in condizioni di piena occupazione. I capitalisti infatti divengono presto consapevoli di poter indebolire la forza contrattuale dei lavoratori semplicemente limitando la propria domanda di lavoro. Più alto è il numero di disoccupati creato dai capitalisti che compete con i lavoratori occupati, più basso è il livello dei salari che può essere imposto agli occupati. Di conseguenza il saggio di salario è una funzione dell’occupazione e i capitalisti che controllano come classe sociale la domanda di lavoro, non appena divengono pienamente consapevoli di questa legge economica, possono imporre un salario che massimizza il saggio di profitto, allargando l’occupazione solo fino al punto in cui la produttività marginale del lavoro uguaglia il crescente saggio marginale di crescita del fondo salari, che è funzione dell’incremento dell’occupazione. È interessante notare, in questo caso, come Loria riesca a tradurre in termini marginalisti, in generale estranei al suo pensiero economico ma in questo caso funzionali ai suoi obiettivi analitici, il tema marxiano dell’esercito industriale di riserva.
Seguendo le orme di Adam Smith, secondo Loria il più alto benessere è raggiunto quando è massimizzato il prodotto per abitante, tuttavia l’economia capitalistica non tende, per le sue leggi interne, a massimizzare questa grandezza. Infatti Loria individua diverse classi di subprodotto, causato dalla differenza tra prodotto ottenibile e prodotto effettivamente ottenuto in una data economia. Il subprodotto si crea perché le diverse classi sociali possono assumere comportamenti volti alla creazione di rendite ai danni della collettività.
La più importante forma dei comportamenti che restringono la produzione aggregata per massimizzare il reddito di una classe particolare è la massimizzazione del profitto, per la quale, come si è già detto, i capitalisti come classe sociale hanno convenienza a restringere l’occupazione, da cui dipende il saggio di salario. Questo processo dà origine all’uso improduttivo del capitale. Secondo Loria, il capitale proveniente dall’accumulazione che non può essere impiegato produttivamente per occupare nuovi lavoratori senza provocare una diminuzione dei profitti totali, è impiegato in modo fittizio, senza dare origine ad alcun incremento della produzione.
Quando il profitto si divide in due parti, l’interesse sul capitale monetario e il compenso sul capitale prodotto, cioè il profitto nel senso stretto della parola,
l’accumulazione e l’impiego produttivo, come i loro due redditi, divengono indipendenti tra loro, in quanto che l’interesse può essere percepito dall’accumulante, senza che il capitale accumulato venga assoggettato a impiego produttivo (Analisi della proprietà, cit., p. 402).
La crescita del capitale improduttivo è stimolata enormemente dallo sviluppo del sistema bancario e finanziario. Secondo Loria una «riforma quantitativa razionale» potrebbe eliminare il subprodotto capitalistico. Infatti, se i profitti del capitale improduttivo fossero tassati, i capitalisti investirebbero la loro accumulazione unicamente in impieghi produttivi, incrementando l’occupazione e quindi il prodotto lordo, e di conseguenza, data la popolazione, il prodotto per abitante (A. Loria, I fondamenti scientifici della riforma economica, 1922).
Come si vede, in questo caso, può essere trovata qualche similitudine tra il pensiero di Loria e l’economia keynesiana, nell’individuazione di un equilibrio di sotto-occupazione e nella proposta di eutanasia del rentier. Tuttavia Loria rimase sempre un critico della teoria di John Maynard Keynes, e in particolare dell’idea che possano esservi atti di risparmio cui non corrisponda un equivalente investimento di capitale. Per Loria i capitalisti sono spinti ad accumulare ciò che risparmiano, cioè a investire. L’investimento però può trasformarsi, come si è visto, in capitale improduttivo.
L’idea del capitale improduttivo è poi legata a quella del lavoro improduttivo e dell’articolazione delle classi e gruppi sociali. Oltre alla distribuzione fondamentale del reddito tra lavoratori produttivi e proprietari dei mezzi di produzione, Loria analizzò anche la redistribuzione conflittuale del sovrappiù fra differenti classi e gruppi sociali (proprietari fondiari, capitalisti produttivi e improduttivi e lavoratori improduttivi). Riprendendo Smith, per Loria la categoria dei lavoratori improduttivi risponde soprattutto a esigenze sociali e politiche, sia pure con la finalità economica di mantenere la coesione e la continuità della società «a reddito distinto». Questa funzione è svolta creando una classe media, distinta, ma legata agli interessi della classe capitalistica, che da una parte sembra offrire speranze di possibile mobilità sociale verso l’alto ai proletari, ma dall’altra, soprattutto, ha la funzione di mantenere e rafforzare il consenso delle classi subalterne rispetto all’ordine costituito.
La rendita fondiaria e la sua elisione naturale, Milano 1880 [in realtà 1879].
La costituzione economica odierna, Torino 1899.
Marx e la sua dottrina, Milano 1902.
La scienza economica e i problemi sociali del nostro tempo, «Giornale degli economisti», 1903, 27, pp. 522-46.
Il valore della moneta, 1905, in Id., Opere, Torino 1957.
La sintesi economica, 1909, in Id., Opere, Torino 1957, pp. 659-722.
Corso completo di economia politica, a cura di G. Fenoglio, Torino 1910.
La crisi della scienza, in Id., Verso la giustizia sociale (idee, battaglie ed apostoli), 2° vol., Nell’alba di un secolo: 1904-1915, Milano 1915.
I fondamenti scientifici della riforma economica, Torino 1922.
Carteggio Loria-Graziani, 1888-1943, a cura di A. Allocati, Roma 1990.
R. Faucci, Revisione del marxismo e teoria economica della proprietà in Italia, 1880-1900: Achille Loria (e gli altri), «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 1976-1977, 5-6.
R. Faucci, Achille Loria, in Il pensiero economico italiano 1850-1950, a cura di M. Finoia, Bologna 1980.
S. Perri, Il contributo di Emilio Nazzani e Achille Loria alla teoria classica del valore, «Quaderni di storia dell’economia politica», 1989, 7, pp. 135-65.
R. Faucci, S. Perri, Socialism and marginalism in Italy, 1880-1910, in Socialism and marginalism in economics 1870-1930, ed. I. Steedman, London-New York 1995, pp. 116-69.
P.A. Samuelson, rec. a Socialism and marginalism in economics 1870-1930, ed. I. Steedman, «The European journal of the history of economic thought», 1997, 4, pp. 179-87.
Achille Loria, a cura di A. d’Orsi, Torino 1999 (in partic. L. Einaudi, Achille Loria (1857-1943) [1946], pp. 426-29; P. Jannaccone, La figura e l’opera di Achille Loria [1955], pp. 432-42).
«Quaderni di storia dell’Università di Torino», 1999, 4, nr. monografico: Achille Loria, a cura di A. d’Orsi.
S. Perri, L’analisi del capitalismo negli economisti ‘socialisti’ italiani (1889-1922). Valore, prezzi, mercato del lavoro e capitale improduttivo, in Marginalismo e socialismo nell’Italia liberale, 1870-1925, a cura di M.E.L. Guidi, L. Michelini, «Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli», Milano 2001, pp. 247-79.
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