BORROMEO, Achille
Figlio di Alessandro, apparteneva ad una famiglia originaria di Firenze la quale aveva fatto fortuna con la banca e con la mercatura e si era diramata anche a Padova già verso la fine del secolo XIV. Al tempo della signoria dei Carraresi la fisionomia del ramo padovano della famiglia si era definita con l'abbandono delle attività originarie e la conversione alla proprietà terriera e agli uffici, secondo il classico iter seguito dalla gran parte delle famiglie comunali italiane. Potente per ricchezza e aderenze politiche, la famiglia del B. contava tra le poche padovane associate alla signoria dei Carraresi nel governo di Padova, che la conquista veneziana defraudò dell'esercizio di ogni potere politico effettivo e ridusse a rango subordinato, alla supremazia locale nell'ambito ristretto di una mera parvenza di autono amministrativa.
Nato in data imprecisata nella seconda metà del sec. XV, il B. fu educato all'odio per la Dominante che coinvolse alla prima occasione tutta la sua famiglia nella rivolta antiveneziana. La grave crisi che investì il dominio veneziano di Terraferma in conseguenza della vittoria francese di Agnadello del 14 maggio 1509 sembrò offrire anche alle vecchie famiglie padovane la possibilità di un ritorno all'antico regime indipendente. Quando il 2 giugno i rettori veneziani convocarono il Consiglio generale cittadino, le profferte formali di fedeltà furono seguite dall'elezione di un comitato di sedici persone, otto nobili, e otto popolari, incaricato di coadiuvarli nel governo della città. Fra gli otto nobili fu scelto il B., che condivise quindi la responsabilità della decisione presa il giorno successivo di chiudere le porte alle truppe veneziane e di procedere all'arruolamento di milizie padovane. Fu il segnale della rivolta che divampò subito dopo e proclamò la repubblica padovana sotto la protezione imperiale. Il B. restò fra i sedici deputati che assunsero il governo della città in nome dell'imperatore Massimiliano, al quale si era arresa formalmente. Successivamente viene ricordato come deputato ad utilia, la vecchia carica amministrativa riservata alla nobiltà padovana dal geloso regime esclusivista veneziano e conservata nel nuovo ordinamento repubblicano, seppure con una sfera di poteri ben più ampia. In tale carica il B. si distinse per il tenace oltranzismo antiveneziano, attestato dal minaccioso atteggiamento verso il patrizio Francesco Capello venuto da Venezia per offrire le vie della riconciliazione. A lui si dovette anche la proposta, respinta dai popolari, di attingere alle casse del Monte di pietà per assoldare a difesa di Padova un contingente di fanti tedeschi stanziato a Bassano. Fin dai primi giorni della rivolta egli si era mostrato in effetti tra i più decisi a difendere l'indipendenza della città, ostentando anche un seguito personale di armati. Tanto accanimento non mancò di richiamare l'attenzione del governo veneziano: il 12 giugno il Consiglio dei dieci decise di ordinare ai provveditori generali di assoldare segretamente un sicario per ucciderlo con la promessa di un premio di 2.000 lire di piccoli. Questo proposito non dovette essere mandato a effetto. Certo è però che il B. si sapeva fortemente compromesso, tanto da abbandonare precipitosamente la città appena i Veneziani ne ripresero il controllo nella notte tra il 16 e il 17 luglio. La sua casa fu abbandonata al saccheggio dei soldati e dei contadini marcheschi, come varie altre dei più noti esponenti della rivolta. Salvatosi con la fuga, il B. si rifugiò nel campo imperiale, dove figura presente il 10 ag. 1509 insieme con vari altri Padovani ancora in stretti rapporti con i cittadini rimasti nella città occupata. Le speranze di un ritorno in patria al seguito delle truppe imperiali andarono però deluse. La restaurazione veneziana aveva radici assai più profonde di quanto non pensassero i fuorusciti padovani. Costretto ormai all'esilio, il B. dovette subire la confisca dei beni, mentre alla moglie sua e a quella del fratello Gerolamo fu imposto il domicilio coatto a Venezia, dove vissero in miseria con un sussidio di 100 ducati annui prelevati sui beni confiscati ai mariti.
Irriducibile nella sua avversione al dominio veneziano, il B. accettò la dura condizione del fuoruscito, pur di non sottomettersi all'aborrito governo della Dominante, per tutto il resto della sua vita spesa nella lotta contro Venezia, in continue peregrinazioni dai campi degli eserciti alle corti italiane ed europee, sempre ad aizzare i principi contro Venezia, a brigare contro di essa.
Nell'aprile del 1510 risulta corrispondere da Mantova con l'altro eminente fuoruscito padovano Antonio Capodivacca che si trovava in Germania alla dieta imperiale. Nel luglio dell'anno successivo era di nuovo a Mantova, forse, di passaggio per la Francia, per tentare di indurre il marchese Francesco Gonzaga ad abbandonare il soldo veneziano. Nel settembre riappare nel campo imperiale di Nervesa, donde scrisse al commissario imperiale in Conegliano perché provvedesse di viveri l'esercito. Nell'ottobre fu intercettata dai Veneziani una lettera indirizzatagli dal capitano di Gorizia che lo distoglieva dalla progettata impresa di Latisana. Il suo attivismo nel campo imperiale non restò senza conseguenze a Venezia, dove il Consiglio dei dieci tentò per la seconda volta di eliminarlo per mezzo di un sicario. Alla vendetta veneziana il B. riuscì però a sfuggire ancora, visto che nel maggio del 1512 fu segnalata la sua presenza al seguito del vescovo di Gürck Matteo Lang, ministro imperiale. Per suo incarico l'ambasciatore spagnolo a Venezia sollecitò nel luglio la restituzione dei beni confiscati ai fuorusciti padovani fra i quali il B., ma senza successo. Questo atteggiamento veneziano non era certo il più adatto a indurre il B. a recedere dalla sua animosità: nell'ottobre dello stesso 1512 fu visto infatti abbattere le insegne di S. Marco e taglieggiare Monzambano e Ponte occupate dalle truppe imperiali. Nel 1513 era nel Polesine sempre attivo contro la Repubblica, cosicché il Consiglio dei dieci tornò per la terza volta al vecchio progetto di commissionarne l'assassinio a un sicario. Neanche questa volta il proposito veneziano ebbe seguito, per cui il B. poté continuare a tramare indisturbato contro la Serenissima. Nel giugno del 1514 fu mandato alla corte di Massimiliano, a chiedere denaro per le truppe. Nel giugno del 1515 venne intercettato un suo carteggio nel quale figurava in qualità di commissario imperiale. Nel 1516 era a Verona occupata dalle truppe di Massimiliano. Dal 1517 al 1519 ebbe, come il fratello Gerolamo, un sussidio imperiale di 30 fiorini mensili ridotti poi a sedici. Nel 1519, allo scadere del sussidio, si recò con altri fuorusciti veneti a Barcellona, alla corte del re Carlo d'Asburgo, per sollecitarne il rinnovo. Il duro decennio di esilio sembrò averne piegato l'indomabile fierezza: ora faceva dichiarazioni pubbliche in favore della Repubblica alla quale si mostrava disposto a chiedere il perdono. A tal fine si recò a Roma per sollecitare la concessione di brevi pontifici di intercessione. Armato di essi, il nunzio Altobello Averoldi si presentò in Collegio nel luglio e nell'ottobre del 1520, ma gli fu risposto che il B. si era troppo compromesso con i nemici di Venezia per potere aspirare al perdono. Riprese così il servizio imperiale e nel 1521 risulta attivo tra la Spagna e le Fiandre.
La possibilità di ritornare in patria gli fu offerta finalmente dall'accordo sottoscritto nel 1523 da Venezia con Carlo V che contemplava il perdono per i fuorusciti. Nel novembre dello stesso anno il B. poté così rientrare a Padova e sollecitare la restituzione almeno della dote della moglie e della madre. Ma con deliberati del 22 aprile e 28 maggio il Consiglio dei dieci respinse la richiesta, diversamente di quanto avvenne per altri fuorusciti dal passato meno compromettente del suo. A Padova in effetti non c'era posto per lui che fu costretto a una sorta di volontario esilio. Nell'aprile del 1525 risulta a Milano con gli Imperiali, ma non pare gli sia riuscito di ottenere un impiego, perché il 16 giugno ebbe il permesso di rientrare a Padova. Ritornò a Milano nel dicembre per partecipare all'assedio del castello dove si era asserragliato il duca Francesco II Sforza dopo la scoperta della congiura del Morone. Dopo questa data non si hanno più notizie su di lui. Non si conosce neanche la data della morte, che dovette cadere però prima del 1530, quando in un documento vengono ricordati i suoi congiunti, ma non più lui.
Fonti eBibl.: M. Sanuto, Diarii, IV-XL, Venezia 1880-1894, ad Indices; Lettere storiche di Luigi Da Porto..., a cura di B. Bressan, Firenze 1857, pp. 88, 90; C. G., I fuorusciti veneziani dalla battaglia d'Agnadello al congresso di Bologna (1509-1529), in Archivio trentino, XIV (1898), p. 72; A. Bonardi, I Padovani ribelli alla Repubblica di Venezia..., Venezia 1902, pp. 13, 25, 42, 48, 58, 65, 125, 133-138, 164, 168, 265 s., 289.