Vedi Abuso ed elusione del diritto dell'anno: 2015 - 2016
Abuso ed elusione del diritto
La normale tensione fra giurisprudenza e legislatore sul tema dell’abuso del diritto si manifesta anche nella recente ordinanza con cui la Cassazione ha rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale relativa alla disciplina del contraddittorio obbligatorio in materia di elusione e nel tentativo del legislatore di disciplinare funditus la materia dell’abuso. Anche se la questione di legittimità costituzionale è probabilmente destinata ad essere dichiarata inammissibile, essa rappresenta comunque un segnale della posizione della Cassazione rispetto a un principio che essa considera diritto vivente. Gli effetti della legge delega ai fini della disciplina dell’abuso potranno essere apprezzati solo a seguito dei decreti delegati. Possono però segnalarsi alcune criticità nei criteri e principi direttivi, sia per ciò che attiene alla definizione della fattispecie, sia per quanto riguarda la disciplina procedimentale, sia per i profili della successione delle leggi nel tempo.
La natura “carsica” del tema dell’abuso del diritto1 dipende in modo non trascurabile anche dalle tensioni fra giurisprudenza e legislazione.
Se è vero che l’affermazione del divieto corrisponde all’esigenza di correggere in sede giurisprudenziale i «fallimenti della programmazione normativa»2 è logicamente conseguenziale che, a fronte della rivendicazione della legittimità di siffatto intervento da parte dei giudici3, si abbiano (per un riflesso, si direbbe, “tanucciano”) i tentativi del legislatore di operare una delimitazione di tale potere e riaffermare così la centralità della legge4. Tentativi, peraltro, che molte volte riflettono le aspirazioni della società civile (o, quantomeno, di alcuni gruppi organizzati che la compongono) alla certezza del diritto quale valore in qualche misura pregiudicato (nel senso che diremo) dagli interventi correttivi della giurisprudenza5.
L’ordinanza con la quale la Corte Suprema di cassazione ha rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale riguardante la disciplina procedimentale dell’elusione recata dall’art. 37 bis d.P.R. 29.9.1973, n. 600, da un lato, e l’art. 5 l. 17.3.2014, n. 23 che contiene la delega al Governo di attuare una «revisione delle vigenti disposizioni antielusive al fine di unificarle al principio generale del divieto dell’abuso del diritto», dall’altro, costituiscono non solo le più recenti manifestazioni di questa tensione fra giurisprudenza e legislazione, ma pure un punto di svolta (anche se certamente non di arrivo) nei ricordati fenomeni “carsici”.
1.1 Questione di legittimità costituzionale sull’elusione
La Corte di cassazione, con l’ordinanza 5.11.2013, n. 24739, ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art. 37 bis, co. 4, d.P.R. n. 600/1973 nella parte in cui «sanziona con la nullità l’avviso di accertamento “antielusivo” che non sia stato preceduto dalla richiesta di chiarimenti nelle forme e nei tempi ivi prescritti».
Il dubbio di legittimità dipende, innanzi tutto, dal fatto che la disciplina esaminata appare «distonica rispetto al diritto vivente e creatrice di irragionevoli disparità di trattamento».
In particolare, muovendo dalla premessa che la regola antielusiva di cui all’art. 37 bis presenta natura palesemente speciale rispetto al divieto di abuso del diritto elevato a diritto vivente dalla Corte di cassazione, si evidenzia la singolarità di una norma speciale la cui disciplina attuativa risulti più rigorosa di quella generale, anzi – riscontrata l’esistenza di altre disposizioni antielusive “speciali” il cui procedimento di attuazione non si discosta da quello ordinario – la Cassazione sottolinea come «la nullità per irregolarità delle forme di che trattasi risulta irragionevolmente stabilita solo nella residuale ipotesi antielusiva di cui al DPR n. 600 del 1973».
In secondo luogo, sempre muovendosi sul piano della ragionevolezza della disciplina, la Corte di cassazione evidenzia come questa non sembra tener conto che la tutela del dovere fiscale sancito dall’art. 53 Cost. impone di valorizzare il contraddittorio solo in una prospettiva sostanziale e non in senso formalistico.
1.2 L’art. 5 l. n. 23/2014
La legge delega ha come principale criterio direttivo quello di operare una “revisione” del complesso delle disposizioni antielusive in vista della loro «unificazione al principio generale dell’abuso del diritto».
Tale unificazione deve avvenire «coordinando» i principi «contenuti nella raccomandazione Commissione europea sulla pianificazione fiscale aggressiva n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012» con i principi e i criteri direttivi indicati nelle successive lett. da a) a f) del medesimo art. 5. In particolare, tali principi e criteri direttivi sono costituiti dalla definizione generale di abuso del diritto come «uso distorto di strumenti giuridici idonei a ottenere un risparmio d’imposta» (lett. a); dalla specificazione che, posto il riconoscimento della libertà del contribuente di scegliere fra più soluzioni comportanti un diverso carico fiscale, questa trova un limite nello scopo di ottenere «indebiti vantaggi fiscali» ove esso sia la «causa prevalente dell’operazione abusiva» sempre che non vi siano «ragioni fiscali non marginali» consistenti sia nella maggiore redditività, sia nella razionalizzazione della organizzazione aziendale (lett. b); dall’individuazione dell’effetto conseguente alla integrazione della fattispecie dell’abuso nell’inopponibilità degli strumenti giuridici e nel potere di disconoscere il relativo risparmio d’imposta (lett. c); dalla collocazione dell’onere della prova a carico dell’amministrazione in relazione a tutti gli elementi della fattispecie dell’abuso con l’esclusione delle valide ragioni extrafiscali (della cui prova sarebbe onerato il contribuente), nonché nella individuazione di specifiche regole procedimentali consistenti nell’obbligo di puntuale motivazione e di contraddittorio (lett. d, e ed f).
L’ordinanza n. 24793/2013 e l’art. 5 l. n. 23/2014 devono essere apprezzati quali esiti di complessi processi giurisprudenziali e legislativi e, come tali, meritevoli di essere considerati tanto isolatamente quanto nei reciproci rapporti.
2.1 Le scelte della Corte di cassazione
L’importanza dell’ordinanza deve essere colta, prima di ogni altra cosa, nel suo valore segnaletico della posizione che il giudice di legittimità intende ufficialmente assumere sul tema dell’abuso del diritto.
Invero, il principio viene apertamente qualificato come «diritto vivente».
E questo, per un verso, costituisce la sottolineatura del ritenuto definitivo consolidarsi dell’orientamento giurisprudenziale. Per altro verso, tuttavia, non si deve ignorare come questa impostazione, nel ribadire la «fonte» giurisprudenziale della regola – e nell’escludere altre sue qualificazioni, come quella della sua «immanenza» nell’ordinamento che pure, in altre occasioni, la Cassazione ha impiegato6 – rafforza l’idea che la derivazione del principio del divieto dell’abuso del diritto dall’art. 53 Cost. – affermata in modo univoco dalle sezioni unite della Cassazione – non implica necessariamente una costituzionalizzazione anche del principio stesso.
In effetti, ed è questo il secondo aspetto della sentenza che deve essere posto in evidenza, la Corte di cassazione considera espressamente il principio dell’abuso del diritto e l’art. 37 bis d.P.R. n. 600/1973 come norme in rapporto di genere a specie, ma senza attribuzione alle stesse di una diversa “forza” normativa.
La Cassazione, invero, non appare interessata a chiarire la collocazione del divieto di abuso del diritto nell’ambito della gerarchia delle fonti, quanto, piuttosto, la sua natura di diritto vivente e di principio generale.
Ciò imporrebbe, secondo la Cassazione, l’esigenza che tutte le altre norme speciali siano coordinate con il principio del divieto di abuso del diritto a pena di risultare evidentemente incostituzionali per violazione dei canoni della ragionevolezza e dell’uguaglianza.
2.2 Le scelte del legislatore delegante
La delega recata dall’art. 5 l. n. 23/2014 non è, ovviamente, insensibile al percorso giurisprudenziale che ha condotto a ciò che la Cassazione considera, come si è visto, «diritto vivente».
Emerge, infatti, immediatamente che lo scopo della delega non è quello di introdurre un nuovo principio, ma di «unificare» in una nuova disposizione le precedenti regole settoriali (o, secondo la definizione dottrinale, «semi-generali») con «il principio generale» dell’abuso del diritto, della cui esistenza e vigenza il legislatore dà – neppure troppo implicitamente – atto.
È palese l’avveduto understatement del legislatore che, nell’ambito delle enunciazioni di carattere più generale, sembra aver voluto evitare qualunque riferimento a interventi «innovativi» rispetto alla disciplina del principio medesimo: alla stregua del tenore letterale dell’art. 5 le disposizioni settoriali si uniscono al (e non «con il») principio del divieto di abuso del diritto, delineando una vicenda, apparentemente, quasi di mero ri-assorbimento.
Le innovazioni, tuttavia, sono sicuramente e ovviamente presenti nel testo della delega, costituendo anzi esse una delle ragion d’essere dell’intervento normativo.
In primo luogo, una direttiva che spinge nel senso di una diversa configurazione del principio è contenuta nel richiamo della raccomandazione Commissione europea sulla pianificazione fiscale aggressiva n. 2012/772/UE del 6.12.2012 la quale, per un verso, nell’affermare, nel primo considerando, che «I paesi di tutto il mondo hanno sempre considerato la pianificazione fiscale come una pratica legittima» sembra quasi voler attribuire al legittimo risparmio d’imposta il rango di tradizione (costituzionale?) comune.
Per altro verso, la disciplina della clausola antielusiva di cui all’art. 4.2 della medesima raccomandazione – se, inevitabilmente, richiama formule e concetti comuni a tutte le definizioni dell’abuso – declina alcuni elementi della fattispecie normativa in termini che certamente riflettono un maggior favor per la pianificazione fiscale. Tali sono, ad esempio: (i) l’affermazione che la «costruzione», per essere abusiva, deve risultare «di puro artificio» per tale intendendosi quella che «manca di sostanza economica »; (ii) la precisazione che la costruzione risponde a fini essenzialmente abusivi quando qualsiasi altra finalità «sembri per lo più irrilevante».
La riformulazione, sia pur parziale, del divieto di abuso del diritto emerge, poi, nei più puntuali criteri e principi direttivi indicati nelle lett. da a) a f) del co. 1 dell’art. 5 cit. La lett. b), in primo luogo, riconosce la libertà del contribuente di scegliere l’operazione fiscalmente più conveniente quando esistono più alternative.
E tale libertà si specifica, per un verso e in senso negativo, nell’esclusione che le operazioni aventi come causa prevalente l’ottenimento di indebiti vantaggi fiscali rappresentino un corretto esercizio della libertà medesima (della quale, anzi, in tali casi si “abusa”) – così l’art. 5, co. 1, lett. b, n. 1) –; per l’altro verso, e in senso positivo, nell’affermazione che la presenza di ragioni extra fiscali non marginali esclude l’abusività dell’operazione – secondo quanto dispone l’art. 5, co. 1, lett. b, n. 2).
Si coordinano con questo indirizzo, poi, le regole procedimentali che, da un lato, ribadiscono, ma anche definiscono puntualmente, i principi giurisprudenziali relativi al regime probatorio riferibile ai singoli elementi che integrano la nozione di «operazione abusiva»; dall’altro lato, stabiliscono regole in tema di motivazione e di contraddittorio che acquistano senso solo se concepite come completamento della disciplina del principio generale dell’abuso.
2.3 Le interferenze fra le scelte
Un primo interessante profilo di interferenza fra l’ordinanza della Corte di cassazione e la legge delega consiste in ciò che, per effetto della stessa impostazione seguita dai giudici di legittimità, l’intervento normativo, ove attuato, dovrebbe avere l’effetto di rendere non più attuale la questione di legittimità costituzionale.
Si deve infatti considerare che, se si accetta che il divieto di abuso del diritto pur essendo un principio di derivazione costituzionale, non condivide il livello gerarchico della norma da cui la giurisprudenza lo ha fatto discendere (aspetto sul quale torneremo brevemente oltre), allora dovrebbe essere certamente ammissibile che esso riceva specificazione a livello di legge ordinaria. Tutte le norme costituzionali esprimono valori e principi che tocca al legislatore ordinario concretizzare nell’ambito di un evidente spazio di discrezionalità politica.
Dall’ordinanza della Corte di cassazione non sembrano emergere ragioni per le quali il principio generale dell’abuso del diritto non possa prevedere una disciplina applicativa nella quale il contraddittorio venga imposto a pena di nullità. Salva l’esigenza di dare rilievo al contraddittorio in termini sostanziali e non meramente formali, ciò che sarebbe stato possibile in base a una lettura costituzionalmente orientata delle norme anche alla luce di un cospicuo indirizzo giurisprudenziale della Corte di giustizia UE e della CEDU, nell’ordinanza si dubita della previsione dell’obbligo del contraddittorio nell’ambito dell’art. 37 bis, perché irragionevole nel confronto con la disciplina generale di cui l’art. 37 bis costituisce specificazione.
Conseguentemente, una volta che anche la disciplina generale risulti conformata legislativamente in modo da prevedere l’obbligo del contraddittorio, verrebbe meno il presupposto stesso della questione di legittimità costituzionale. E ciò al di là della decorrenza della modifica normativa, in quanto sembrerebbe corretto ritenere che la valutazione della ragionevolezza della disciplina speciale rispetto a quella generale, non possa non tener conto anche dell’evoluzione della disciplina generale medesima, anche se successiva al momento in cui la norma speciale è stata posta.
Si deve osservare, peraltro, che la legge delega – quanto alla disciplina del contraddittorio – fornisce un criterio non del tutto univoco, limitandosi a imporre regole che «garantiscano un efficace contraddittorio», ma senza prevedere espressamente la sanzione della nullità la quale dovrebbe essere intesa, sempre in senso sostanziale, come strumentale alla realizzazione di tale garanzia.
Tuttavia, anche in considerazione della più recente giurisprudenza della Corte di cassazione medesima in tema di contraddittorio (nella quale l’efficacia delle previsione normativa di questa fase procedimentale è stata fatta dipendere proprio dalla possibilità di considerare la sua omissione come vizio invalidante) appare difficile immaginare che una analoga soluzione non venga prescelta anche dal legislatore delegato7.
Su un piano più generale, tuttavia, si deve poi rilevare la circostanza che il divieto di abuso del diritto – pur essendo considerato, tanto nell’ordinanza, quanto nella legge delega come principio generale cui si coordinano (e, a seguito dell’opzione legislativa, si uniscono) le altre regole antielusive – subisce chiaramente una modifica nella propria collocazione ordinamentale alla quale (modifica) la scelta terminologica preferita dalla Cassazione ha, in effetti, fornito più di un aggancio.
In realtà, la tradizionale preferenza, nell’ambito del diritto tributario, della qualificazione della condotta in termini di «elusività» evidenziava come il contrasto fra rispetto formale della regola e suo «aggiramento» sostanziale andasse visto in rapporto a un precetto istitutivo di un «dovere» al cui vincolo, in caso di elusione, si riusciva a sfuggire. Viceversa, l’impiego del termine «abuso» pone quel contrasto in rapporto a un diritto o a un potere che sarebbe esercitato in modo esorbitante rispetto alla sua funzione e ai limiti imposti dallo spirito della legge.
È evidente che la prima impostazione è più coerente con la derivazione costituzionale del principio generale dall’art. 53 Cost.8,mentre la seconda implicherebbe una sua connessione con l’art. 41 Cost.
Ebbene, la formulazione dell’art. 5, co. 1, lett. b) – nella misura in cui pone in evidenza la «libertà di scelta» e, poi, ne individua un limite nella esclusività della causa di ottenere indebiti vantaggi fiscali – sembra esprimere una preferenza – coerente con i riferimenti di diritto comunitario – per la prospettiva dell’abuso come limite all’esercizio di una situazione giuridica attiva, piuttosto che come impropria sottrazione al dovere.
Ulteriori problemi applicativi Le conseguenze dell’ordinanza e della legge delega sul piano ordinamentale sono, come è ovvio, solo “potenziali”.
Esse dipendono, infatti, dall’esito del giudizio di costituzionalità avviatosi per effetto della remissione alla Corte della questione di legittimità costituzionale e dall’esercizio del delega legislativa.
Tuttavia, è possibile svolgere qualche considerazione su tali possibili futuri sviluppi.
3.1 Ordinanza di remissione e Corte costituzionale
Se, in conseguenza dell’attuazione della legge delega, non si dovesse ritenere la questione di legittimità costituzionale «assorbita», o comunque necessitante una nuova valutazione da parte del giudice a quo (come ipotizzato, v. supra, § 2.3), l’esito più probabile del giudizio di legittimità costituzionale è la dichiarazione di inammissibilità o di infondatezza della questione rimessa al giudizio della Consulta.
L’inammissibilità può essere fondata su almeno tre profili.
Il primo è dato dall’erronea impostazione della questione. La Cassazione ha supposto che esistesse (non solo una disciplina generale dell’abuso,ma anche) una disciplina generale dell’attuazione della norma sull’abuso con la quale ha raffrontato quella speciale dell’elusione.
In realtà, esiste una disciplina generale dell’accertamento e due forme di accertamento «speciali» (quella dell’abuso e quella dell’elusione).Questi due accertamenti speciali – pur avendo una matrice comune – si pongono in un rapporto diverso con la disciplina generale: l’uno (quello relativo all’abuso) si conforma a tale disciplina, l’altro (quello dell’elusione) se ne discosta sulla base di una disciplina, anch’essa speciale.
Lo scrutinio di ragionevolezza e di eguaglianza avrebbe prima richiesto di verificare se fosse più conforme al valore tutelato dall’art. 3 Cost. la scelta di«adeguamento» della disciplina attuativa dell’abuso a quella generale, ovvero se prevalessero le ragioni di differenziazione. Solo all’esito di questo giudizio si sarebbe potuto formulare una valutazione in ordine alla legittimità della disciplina attuativa dell’art. 37 bis d.P.R. n. 600/19739.
Peraltro, se si fosse impostata la questione nei più corretti termini sopra esposti, alla Cassazione non sarebbe sfuggito – ed in questo risiede un’altra ragione di inammissibilità – che la disciplina generale dell’accertamento – secondo il medesimo diritto vivente su cui si fonda il principio del divieto di abuso del diritto – prevede anch’essa l’obbligo del contraddittorio preventivo e del pari sanziona l’inosservanza di esso con la nullità10.
Ciò che legittimerebbe, oltre alla dichiarazione di inammissibilità, anche l’esercizio da parte del giudice delle leggi del potere di sollevare dinanzi a sé la questione di legittimità costituzionale della disciplina attuativa dell’abuso del diritto ove interpretata nel senso che essa (i) illegittimamente deroghi alla disciplina generale dell’accertamento che, secondo il diritto vivente, prevede sempre il preventivo contraddittorio ovvero (ii) illegittimamente non segua la medesima ratio distinguendi che (ove non si valorizzi il diritto vivente sul contraddittorio) è alla base della (ragionevole) deroga disposta, per fattispecie del tutto analoghe a quelle dell’abuso del diritto, dall’art. 37 bis d.P.R. n. 600/1973.
Infine, la dichiarazione di inammissibilità potrebbe discendere da una lettura dell’ordinanza che valorizzi, non tanto la supposta irragionevole differenziazione della disciplina dell’abuso del diritto e dell’elusione sotto il profilo della previsione di una fase di contraddittorio, quanto l’asserita violazione del principio di ragionevolezza per la parte in cui la disciplina dell’elusione prevedrebbe un contraddittorio meramente formale. Invero, questa impostazione tende a dimenticare che le regole procedimentali, per essere davvero efficaci, devono sempre presentare un profilo formalistico (o, meglio, la loro «sostanzialità» deve essere individuata in ragione dei valori tutelati, non in base al loro meccanismo applicativo).
Ma anche a prescindere da questa considerazione, resta il fatto che la semplice lettura della giurisprudenza della CEDU e della Corte di giustizia UE attesta che è possibile pervenire a una declinazione in senso sostanziale della norma sul contraddittorio (ossia nel senso che la nullità non discenderebbe dalla sua mera missione,ma dalla dimostrazione che, se il contraddittorio fosse stato esperito, l’avviso di accertamento avrebbe potuto avere un contenuto diverso) anche sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata che nel caso di specie risulta completamente omessa.
Va da sé che una dichiarazione di inammissibilità in questo ultimo senso avrebbe un effetto sicuramente più incisivo perché indicherebbe la linea da seguire nell’ambito di una riflessione sul principio del contraddittorio che sembra ormai improcrastinabile in considerazione dell’estensione che esso sta assumendo nel nostro ordinamento.
I medesimi argomenti cui prima si è accennato potrebbero, peraltro, sorreggere una dichiarazione di infondatezza della questione. Tuttavia, una sentenza che dichiarasse l’infondatezza della questione rimessa dalla Cassazione perché la disciplina procedimentale dell’elusione ragionevolmente discrimina rispetto alla disciplina generale dell’accertamento ovvero è ad essa conforme (secondo il diritto vivente) solleverebbe più di un dubbio sulla costituzionalità della disciplina attuativa dell’abuso e sarebbero palesi i rischi di una successiva remissione alla Corte costituzionale della questione relativa alla legittimità di quest’ultima.
Ben più eversivi sarebbero, ovviamente, gli effetti di una pronuncia di accoglimento la quale, pur investendo in via diretta solo le norme sospettate di incostituzionalità, costituirebbe inevitabilmente la premessa per pervenire ad una identica valutazione relativamente alla legge delega e all’eventuale decreto delegato.
3.2 La “nuova” disciplina dell’abuso del diritto
Gli aspetti problematici che porrà la disciplina dell’abuso hanno natura del tutto diversa.
Innanzi tutto, è certo che – indipendentemente dagli sforzi profusi dal legislatore delegato per pervenire a una definizione maggiormente precisa dell’oggetto del divieto – non si potrà mai eliminare il conflitto fra l’esigenza di certezza che costituisce l’obiettivo forse prevalente della riforma e la disciplina dell’abuso.
Ogni formulazione del principio che voglia essere sufficientemente generale non può per definizione rinunciare a una espressione della propria fattispecie astratta (ossia delle ipotesi in presenza delle quali subentra la particolare reazione dell’ordinamento costituita dalla “inopponibilità”) che presenti la contemporanea presenza di: (i) concetti indeterminati, ovvero definizioni (di parte) della fattispecie che richiamano intere e non perfettamente definite, né razionalmente ordinate classi di “oggetti” (tipico è il caso degli «atti, fatti, contratti, anche fra loro collegati») così rimettendo all’interprete l’individuazione esatta di quali siano tali “oggetti”; in questa stessa categoria possono poi essere ricomprese espressioni verbali quantitativo-relazionali o probabilistiche («esclusivo fine di», «non marginali», «prevalenti» ecc.) note anche negli studi di psicologia per l’assoluta non univocità della loro comprensione11; (ii) clausole generali, ossia concetti che richiedono per la loro individuazione ciò che è stata perspicuamente definita come «integrazione valutativa» e che, inoltre, sono «destinate a concretizzarsi nell’ambito di programmi normativi di altre disposizioni»12; nel caso di specie appaiono quali clausole generali, ad esempio, sintagmi come «indebito risparmio di imposta», «valide ragioni economiche», «uso distorto di strumenti giuridici», «artificiosità» ecc.; ed infatti, l’interprete sarà obbligato ed autorizzato al tempo stesso ad attingere a valori estranei alla disposizione – e forse anche al diritto13 – per individuare cosa è indebito, o distorto, o valido, ovvero artificioso ecc.
A questo si aggiunge, poi, un inevitabile senso di circolarità delle formule normative i cui concetti sembrano partecipare a un continuo gioco degli specchi. È, infatti, difficile negare che l’aggiramento sussiste in quanto il vantaggio è indebito, ma che, al tempo stesso tale caratteristica del vantaggio dipende dall’aggiramento della norma; oppure che un’operazione ha il solo fine di ottenere un vantaggio fiscale se è priva di valide ragioni ancorché, specularmente, l’operazione sia priva di valide ragioni economiche ogni qual volta abbia un esclusivo fine fiscale.
La difficile compatibilità del precetto con il valore della certezza del diritto risulta allora pienamente evidente se si considera che l’amministrazione prima e il giudice poi possono, innanzi tutto, “determinare” i (molteplici) concetti indeterminati e “concretizzare” le più clausole generali e, poi, in conseguenza di queste operazioni (già di per sé connotate da un elevato tasso di soggettività), “disapplicare” il regime giuridico formalmente applicabile sostituendovi quello sostanzialmente eluso14 autonomamente individuato dal giudice medesimo.
Da questo punto di vista, i rimedi possono essere reperiti solo, per ciò che attiene alla definizione della regola, nell’opera ricostruttiva della giurisprudenza – la quale, attraverso un uso meditato del proprio potere, potrebbe elaborare quelli che nell’esperienza tedesca dell’applicazione delle clausole generali si definiscono Fallgruppen15 ossia insieme ordinati di casi definiti puntualmente e decisi omogeneamente – nonché nell’intervento del legislatore limitatamente all’individuazione di corrette (e auspicabilmente stringenti) regole procedurali per l’applicazione della norma antielusiva.
A questo proposito sembra sufficiente rilevare che la significatività delle regole in tema di ripartizione dell’onere della prova è scarsa o, forse, nulla.
Invero, gli elementi di fatto dell’operazione, in caso di contestazione della natura abusiva della stessa, sono normalmente certi e ben definiti. La contestazione attiene piuttosto alle relazioni fra tali elementi e/o alla loro valutazione in termini funzionali o finalistici.
Tutti aspetti, insomma, rispetto ai quali non si pone né un problema di giudizio di fatto in senso proprio, né (per logica conseguenza) un problema di onere della prova. Il giudizio, cioè, attiene alle argomentazioni delle parti e alla razionalità e persuasività delle dimostrazioni logiche ed empiriche, non alla loro verità fattuale. Proprio da questo punto di vista, la formulazione della norma in chiave puramente oggettiva potrebbe rappresentare un progresso maggiore di quanto non lo è la corretta ripartizione dell’onere probatorio16.
La disciplina procedimentale che sarà recata delle disposizioni delegate avrà carattere innovativo e sarà efficace secondo le ordinarie regole di diritto intertemporale, ossia in base al principio tempus regit actum.
Più complesso il discorso per ciò che attiene alla disciplina sostanziale. Si potrebbe dubitare, infatti, che una disposizione scritta possa comunque innovare rispetto a un principio generale dell’ordinamento, tanto più se di derivazione costituzionale17.Si tratta, con ogni evidenza, di un tema estremamente complesso cui qui è dato solo accennare.
In primo luogo, se si accetta l’idea secondo cui hanno vigenza (rectius non è dato distinguere) tanto i principi espressi che quelli inespressi e che, quindi, razionalmente «ogni norma postula il suo principio»18, si deve ammettere che la successione delle norme ai rispettivi principi costituisce un processo continuo dell’ordinamento che, al tempo stesso, è dichiarativo e costitutivo dei principi medesimi, i quali orientano i successivi interventi normativi, ma ne sono al tempo stesso conformati.
Se anche la norma espressa è «di principio» sarà questa che costituirà il punto di riferimento per l’interprete perché la sua vigenza avrà conformato l’ordinamento.
Al limite, l’interprete potrà anche ricavarne elementi per la disciplina di rapporti preesistenti alla sua introduzione proprio per le implicazioni valoriali del “principio”.
La questione potrebbe apparire più complicata se il principio previgente è di natura costituzionale.
In realtà, il problema probabilmente non si pone nel caso di specie perché la questione della derivazione della disciplina dell’abuso del diritto dall’art. 53 Cost. ha rappresentato la soluzione di un problema di legittimazione che è tuttavia rimasta priva di una specifica e puntuale dimostrazione ed è al tempo stesso contraddetta dalla ricorrente configurazione del divieto di abuso del diritto, nella giurisprudenza e nei testi normativi, come limite alla libertà d’iniziativa economica nonché dalla necessità di tener conto, nella sua declinazione, di altri formanti normativi di rilievo comunitario e internazionale (non sembra, invero, concepibile che lo stesso principio derivi dall’ordinamento comunitario e dai relativi valori per l’Iva e dall’art. 53 per le altre imposte). Peraltro, il superamento di quella soluzione sembra adombrato dalla stessa Cassazione nella ordinanza di cui si è dato conto. Cosicché non sembrerebbe improprio considerare il principio come una norma di chiusura dell’ordinamento, intesa a tutelarne l’integrità (secondo un determinato ordine valoriale) in conformità alla ricordata concezione dell’abuso come rimedio ai «fallimenti della programmazione normativa».
Ma se anche si ammettesse che il principio del divieto di abuso del diritto è direttamente derivato da una disposizione costituzionale e ne assume anche il livello gerarchico, non per questo si potrebbe disconoscere una specifica efficacia normativa alla disposizione avente forza di legge che lo disciplina in modo più puntuale. Se si escludono le disposizioni che si limitano a riprodurre testualmente i principi costituzionali (come nell’esperienza di taluni Statuti regionali), tutte o quasi tutte le disposizioni di legge dovrebbero poter essere considerate come innovative dell’ordinamento e, contemporaneamente, specificative di principi costituzionali. Cosicché dovrebbero essere esse stesse il termine di riferimento per la disciplina dei rapporti a loro riconducibili, salvo l’operare dei principi costituzionali come parametro per valutarne la legittimità e criterio per orientarne l’interpretazione.
Ciò sembra quindi postulare l’effettiva verificazione di un fenomeno di successione delle leggi nel tempo, da risolvere secondo gli ordinari criteri di diritto intertemporale, salva la previsione di deroghe e/o di apposite disposizioni transitorie.
1 Pino, G., Il diritto e il suo rovescio. Appunti sulla dottrina dell’abuso del diritto, in Riv. crit. dir. priv., 2004, 25 ss.
2 Gambaro, A., Abuso del diritto II) Diritto comparato e straniero, in Enc. giur. it., Roma 1988, I, 1 ss.
3 Per la storia delle elaborazioni giurisprudenziali anteriormente all’ultima decade del XX secolo, cfr. Zoppini,G., Prospettiva critica della giurisprudenza “antielusiva” della Core di Cassazione (1969-1999), in Riv. dir. trib., 1999, I, 919 ss.
4 Cfr. per la sottolineatura della tendenza del legislatore a “bloccare”, piuttosto che a promuovere l’innovazione, Falsitta, G., L’interpretazione antielusiva della norma tributaria come clausola generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali, in AA. VV., L’elusione, Maisto, G., a cura di, Milano 2008, 5 ss.
5 Sul contrasto fra abuso del diritto e principio della certezza del diritto, si veda, da ultimo, La Rosa, S., L’accertamento tributario antielusivo: profili procedimentali e processuali ¸ in Riv. dir. trib., I, 2014, 499.
6 Cfr. Fedele, A., Il valore dei principi nella giurisprudenza tributaria, in Riv. dir. trib., 2013, I, 875.
7 Si vedano, al riguardo, le considerazioni di La Rosa, S., L’accertamento tributario antielusivo: profili procedimentali e processuali, cit.
8 Questa la scelta delle Sezioni Unite della Cassazione nel 2008 (sent. nn. 30055, 30056 e 30057) cui ha aderito un’importante dottrina: cfr. Falsitta, G., L’interpretazione antielusiva della norma tributaria come clausola generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali, cit., 4 ss.
9 Cfr. Fransoni, G., La diversa disciplina procedimentale dell’elusione e dell’abuso del diritto: la Cassazione vede il problema, ma non trova la soluzione, in Riv. dir. trib., 2014, II, 47.
10 Si veda, da ultimo, Cass., S.U., 18.9.2014, n. 19667.
11 Cfr., Teigena, K.H.-Brunb, W., The Directionality of Verbal Probability Expressions: Effects on Decisions, Predictions, and Probabilistic Reasoning, in Organizational Behavior and Human Decision Processes, 1999, 155–190.
12 La letteratura è, ovviamente, assai vasta. Per un accurato sguardo d’insieme sulle diverse teorie, cfr., da ultimo, Fabiani, E., Clausola generale, in Enc. dir., Annali V, Milano, 2012, 183 ss., nonché nell’ottica della filosofia del diritto secondo una prospettiva orientata al corretto inquadramento semantico, Veluzzi, V., Le clausole generali, Milano 2010.
13 Secondo la definizione di Mengoni, L., Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1986, 5 ss. le clausole generali «esprimono punti di vista, criteri direttivi per la ricerca di valori che il giudice deve poi tradurre, con un proprio giudizio valutativo, in una norma di decisione» (op. loc. ult. cit., 15).
14 Sull’inopponibilità dell’operazione elusiva come disapplicazione del regime legale (formalmente) proprio dell’operazione a favore di altro regime ritenuto cfr. La Rosa, S., L’accertamento tributario antielusivo: profili procedimentali e processuali.
15 Si veda, Patti, S., L’interpretazione della clausole generali, in Riv. dir. civ., 2013, 263 ss.
16 Cfr. Fransoni, G., Spunti in tema di abuso del diritto e “intenzionalità” dell’azione, in Rass. trib., 2014, 403.
17 Il tema è stato correttamente posto in evidenza da Fedele A., Il valore dei principi nella giurisprudenza tributaria, cit., 877.
18 Così Crisafulli, V., Per la determinazione del concetto dei principi generali del diritto, in Studi sui principi generali dell’ordinamento giuridico, Pisa, 1941, 240.