CLAVANO (Chiavano, Clovano), Abrunamonte (Brunamonte, Albunamonte)
Figlio di Enrico e di una nobildonna di cui ignoriamo il nome ed il casato, nacque presumibilmente intorno alla metà del sec. XIII, da una potente famiglia umbra padrona del castello di Chiavano presso Cascia.
I Clavano erano stati coinvolti nelle vicende che avevano contraddistinto l'età di Federico Barbarossa: alcuni esponenti della famiglia erano stati fatti prigionieri dall'imperatore dopo l'incendio di Spoleto del 1155 e un omonimo del C., un altro Abrunamonte, aveva sposato Agnese, la figlia del duca di Spoleto Corrado di Urslingen.Signore di un vasto territorio che comprendeva, oltre al castello che aveva dato il nome alla famiglia, anche molte altre rocche poste in posizione strategica al confine tra Umbria e Abruzzo - come San Silvestro, Buda, Trognano, Pianezza, Sala, Viesci, Trimezzo (il castello di Pescia all'estremo limite nordorientale del territorio fu annesso solo nel 1300 per la munificenza di Norcia, riconoscente per un atto di protezione verso le sue donne) -, la biografia del C. è caratterizzata, almeno per i primi anni documentabili, dalle lotte impegnate con i Casciani. Il possesso dei castelli di confine era infatti tra i principali, se non il principale, obiettivo delle lotte fra i Comuni della zona: anche Chiavano subì le conseguenze della guerra che nel 1275, cessata la tregua stipulata sei anni prima, oppose Cascia a Spoleto. È del 1280, infatti, un'ingiunzione di papa Niccolò III ai Casciani "indevoti filii", perché pagassero duemila libre ravennati alla Camera apostolica e quattrocentoventotto fiorini al C., al di lui fratello Nicola e al nipote Bartolomeo per i danni arrecati al castello durante il conflitto. La somma non risulta ancora pagata nel 1301, quando il Comune di Cascia dette procura a Franceschetto Rodolfoni per ottenere dal mercante spoletino Simone Fidanza un prestito per il pagamento del debito. Nel 1289, comunque, il C. con il fratello Nicola, forse per cautelarsi contro altre possibili aggressioni e forse anche per necessità, vendette al Comune di Spoleto per 7.000 libre ravennati il castello e il monte di Chiavano con le ville, le terre colte ed incolte, boschi, prati, acqua e molini con le loro pertinenze. Nella vendita erano comprese centoventinove famiglie di vassalli con i loro tenimenti (beni e cose che testimoniano la vastità e l'importanza del feudo), mentre ne erano esclusi i beni demaniali e dotali e le terre coltivate; queste ultime sarebbero rientrate nella vendita solo quando il Comune avesse voluto restaurare il castello. L'atto di cessione, stipulato il 21 luglio 1289 alla presenza del procuratore di Spoleto, messer Ciperio di Pietro, che era stato investito della carica due giorni prima, non contribuì a distendere i sempre tesi rapporti del C. con Cascia: la cittadina umbra, anzi, il 17 ottobre di quello stesso anno escluse i nobili di Chiavano da un patto di pace stipulato con il Comune di Leonessa, sancendo il definitivo passaggio del C. e della sua famiglia nell'orbita di Spoleto. Ne è prova, tra l'altro, il Constitutum di Spoleto del 1296 che, alla rubrica 50, obbligava i nobili di Chiavano a prestare giuramento davanti ad ogni nuovo podestà e ad abitare in città. La casa del C., secondo il Fabbi - che non documenta però la sua asserzione -, sarebbe stata presso la chiesa di S. Matteo.
La posizione del C. nei confronti del Comune spoletino si chiarì ben presto; nel 1305, infatti, capeggiava i ghibellini locali che, approfittando dello sbandamento provocato dal trasferimento ad Avignone della sede pontificia, occuparono la città, rovesciando il tradizionale predominio della parte guelfa. L'azione pròvocò l'intervento di Perugia, sempre fedele al suo ruolo di protettrice degli interessi della Chiesa e di guida del guelfismo umbro. La concordia presto ristabilita, anche grazie alla mediazione del rettore del ducato Arnolfo Garzia di Bordeaux, non significò tuttavia la definitiva stabilizzazione dell'assetto politico e territoriale dell'Umbria. Nella primavera del 1310, infatti, le lotte di parte ripresero più forti, perché la notizia della discesa in Italia dell'imperatore eletto Enrico VII aveva risvegliato le mai sopite speranze ghibelline. Anche a Spoleto le fazioni ripresero subito le armi, dando il via ad un estenuante conflitto, che vide per lungo tempo alternarsi al potere ora l'una ora l'altra delle parti. Nel conflitto, che si andò man mano dilatando fino a coinvolgere quasi tutte le città umbre, non poca parte ebbe, nella sua qualità di capo dei ghibellini di Spoleto, il C., che in quegli anni dovette ricoprire anche importanti cariche nei centri della regione. Risulta infatti, dalle fonti in nostro possesso, che il 17 nov. 1311 era podestà di Monteleone, Comune tributario di Spoleto.
Nel febbraio dell'anno successivo - le fonti non concordano sul giorno, così come non sono chiare nel precisare le vicende della campagna - il C. trovò la morte nella piana di San Brizio combattendo alla testa dei ghibellini di Spoleto contro le forze coalizzate di Perugia, Foligno, Assisi e Spello, nel tentativo di riconquistare Trevi, dove avevano trovato rifugio i fuorusciti guelfi di Spoleto. La sollecitudine, con cui le magistrature di Perugia si affrettarono a comunicare questo avvenimento alle città di Firenze, Lucca e Siena, e la risonanza che tale notizia ebbe testimoniano - meglio di ogni altro dato - l'importanza del ruolo svolto dal C. nelle lotte intercomunali dell'Umbria nel primo decennio del sec. XIV.
Il Fabbi (pp. 144, 153) pone la morte del C. al 6 luglio 1324, ma non indica le referenze su cui appoggia tale sua affermazione. La notizia è tuttavia contraddetta sia dalle fonti narrative sia dalle fonti documentarie a noi note. Le prime indicano infatti come data mortuale del C. o il 1312 0 il 1310, anno in cui nella piana di Maiano avvenne uno scontro simile - e per le forze schierate in campo e per lo svolgimento - al fatto d'arme in cui perse la vita il condottiero ghibellino; mentre in un atto del 23 luglio 1322 uno dei figli del C., Riguccio, è detto figlio "quondam domini Abrunamontis" (L. Fumi, I registri..., p. 244).
Dei figli del C. ricordiamo Riguccio (Enrico), che nel 1319 insieme con molti altri nobili ghibellini fu a capo della terza sedizione di Spoleto, sostenuta con le armi, il danaro e le vettovaglie da Federico da Montefeltro, allora alla testa della "Societas amichorum Marchiae". Espulsi i guelfi e rinchiusi i loro capi nei ruderi di un antico edificio romano presso S. Agata, dove furono trattati con estrema crudeltà, la parte ghibellina ebbe di nuovo il sopravvento, e Riguccio venne creato - grazie anche all'appoggio del vescovo Guido Tarlati di Arezzo - gonfaloniere del Popolo. Non si hanno più notizie di lui dopo la sottomissione di Spoleto a Perugia (9 apr. 1324), ma è lecito supporre che abbia subito la stessa sorte degli altri artefici della rivolta, condannati all'esilio ed alla confisca dei beni. Da atti del 1325 e del 1331 risulta infatti che anche i suoi possessi furono avocati dalla Camera apostolica. Un altro figlio del C., Rogerio, il 25 apr. 1319 risulta priore della chiesa di S. Pietro a Spoleto e collettore delle decime. Fautore del partito ghibellino, non rispettò l'interdetto cui era allora sottoposta la città onde nel maggio del 1326 venne sospeso dal godimento dei benefici che gli erano stati attribuiti e privato delle sue sostanze con un provvedimento del rettore del ducato, Giovanni d'Amelia.
Ricordiamo inoltre qui un fratello del C., Giovanni, nato intorno al 1270, il quale, dopo aver partecipato alle vicende politiche del suo tempo, volle ritirarsi a vita di povertà, di penitenza e di preghiera nell'eremo di Atino, presso l'oratorio di S. Eufemia, dove morì in fama di santità il 24 giugno 1350. Le sue spoglie, circondate dalla venerazione dei fedeli, furono inumate nella chiesa di S. Agostino a Cascia. Era probabilmente suo figlio quel Bartolomeo (o Bartolo) Clavano, che nel 1312, dopo la sconfitta dei ghibellini nella piana di San Brizio, preferì stringere patti con Cascia, cui cedette tutti i beni dei quali era entrato in possesso per eredità alla morte del C., per sottrarli alle mire espansionistiche del Regno di Napoli.
Ricordiamo infine un pronipote del C., Tommaso, figlio di Pietruccio di Cola di Abrunamonte, il quale insieme con altri sbanditi guelfi e ghibellini riuscì a penetrare, il 7 sett. 1390, in Spoleto, dove il card. Francesco da Monopoli, legato generale di Bonifacio IX, assediava la rocca saldamente tenuta dai partigiani dell'antipapa Clemente VII. Tommaso riuscì a sbloccare la fortezza, abbattendo le opere d'assedio e costringendo alla fuga il cardinale che, con il suo operato, si era alienato le simpatie del popolo e dei nobili. Dopo un breve periodo di calma scaturito da un accordo tra le fazioni cittadine, i guelfi e gli sbanditi rientrati in.città ripresero, il 1º genn. 1391, l'assedio della rocca, dove si era asserragliato Tommaso con i ghibellini. Gli attaccanti potevano contare sull'appoggio delle milizie del vescovo di Montefeltro, rettore del ducato, sui contingenti di Ugolino Trinci, signore di Foligno, e Giannello Tomacelli congiunto del papa. Il fatto d'armi decisivo avvenne il 9 apr. 1391, e ne fu protagonista Tommaso. Uscito dalla rocca con Gaspare Pazzi da Arezzo per recuperare gli uomini dispersi sulle montagne e raccogliere vettovaglie, Tommaso non solo riuscì a procurarsi una grande quantità di grano ed a riunire un contingente di mille armati tra fanti e cavalleggeri, ma si impadronì anche di due fortificazioni nemiche, l'una sul Monteluco, l'altra all'inizio del ponte delle Torri. L'azione fallì tuttavia per il tempestivo intervento delle milizie guelfe di Giovanni de Domo: le bastie vennero riconquistate, gli armati di Tommaso, battuti in battaglia campale, furono costretti a disperdersi nuovamente sulle montagne. La rocca di Spoleto, priva dei rifornimenti in uomini e vettovaglie di cui avrebbe avuto bisogno per proseguire nella resistenza, dovette capitolare.
I ghibellini furono banditi e subirono, ancora una volta, la confisca dei beni; già nel 1393, tuttavia, venivano riammessi in città. Alcuni anni dopo - le fonti, ricche di particolari leggendari, non permettono di precisare meglio le date -, Tommaso ed altri suoi compagni tentarono di far sollevare alcuni castelli, ma la rivolta fu subito soffocata con la forza da Giovanni de Domo. Secondo il Minervio, dopo questi avvenimenti Tommaso sarebbe riparato a Milano, dove sarebbe morto e dove le sue spoglie sarebbero state inumate nella chiesa di S. Francesco: l'attendibilità di questa notizia è inficiata dalle indicazioni cronologiche fornite dal memorialista, il quale pone la sconfitta definitiva di Tommaso e dei suoi seguaci al 1419.
A ricordo della battaglia alle falde del Monteluco, sulla parete destra della cappella dedicata a S. Pietro martire nella chiesa di S. Domenico, tra la fine del sec. XVII e gli inizi del XVIII fu collocata una tela di Maffeo Catalli da Terni raffigurante l'episodio.
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