COLORNI, Abramo
Nacque nel sec. XVI (è impossibile determinare l'anno) da famiglia ebrea di Mantova. Sulla sua formazione giovanile fornisce alcune notizie la lettera-prefazione (rivolta al C. stesso con l'invito ad abbandonare l'ebraismo per il cristianesimo) che Tommaso Garzoni fece precedere alla sua Piazza universale: ivi si accenna infatti all'ottima istruzione impartita dal padre al giovane C., alla sua educazione di tipo cortigiano (d'altra parte pare che entrasse ben presto al servizio dei Gonzaga), al suo addestramento alla scherma.
Dalla stessa fonte si apprende pure come fosse multiforme l'attività del C. come ingegnere e inventore, come costruttore di orologi, di archibugi e di congegni vari non meglio specificati, nonché addirittura come prestigiatore e mago (i suoi "prodigi" deliziavano gli invitati alle feste di corte a Mantova prima e a Ferrara poi). Fu pure abile allestitore di spettacoli pirotecnici: tuttavia questo era soltanto il risvolto giocoso di attività che lo portarono ad avere a che fare con armi e polvere da sparo. E si vedrà come proprio la fabbricazione della polvere da sparo gli procurasse notevoli traversie.
Il C. ottenne comunque i suoi primi successi in qualità di architetto militare a Mantova: nelle fortificazioni da lui ideate, secondo la testimonianza del Garzoni, un intero esercito poteva scomparire e trovare riparo in tempo brevissimo. Dal servizio dei Gonzaga il C. passò poi a quello della casa d'Este: nel 1578 (ed e questo il primo dato cronologico della sua vita), quando Alfonso II fece costruire il palazzo della Mesola, lo troviamo a Ferrara. In quello stesso anno furono rinnovate le fortificazioni della città: probabilmente fu opera del C., e altrettanto probabilmente fu proprio questo il motivo della sua chiamata presso gli Estensi, cui non era certo ignota la sua fama di architetto.
A Ferrara compose una Euthimetria, per la stampa della quale nel marzo del 1580 richiese il privilegio a Guglielmo Gonzaga, suocero di Alfonso II: il privilegio venne concesso nel mese di ottobre, ma lo scritto, di cui non si ha traccia, rimase ugualmente inedito. Tra le opere del C. il Garzoni segnala pure uno scritto contro la chiromanzia e la fisiognomia, ma non se ne hanno notizie precise.
Nel maggio del 1581 egli venne inviato in missione diplomatica a Moncalieri presso Giacomo di Savoia, duca di Nemours, cognato di Alfonso II. A Moncalieri il versatile C. non si limitò a svolgere la propria missione, ma, trasformatosi da architetto in meccanico, ideò un nuovo tipo di carrozza per Giacomo menomato nella mobilità dalla gotta. A proposito di carrozze, vi è una testimonianza di Alessandro Tassoni (Pensieri diversi, X, 18), il quale cita il C. dicendo che questo avrebbe sostenuto di saper realizzare "questi strumenti da mostrare in una carrozza da campagna quante miglia si fanno e che tempo si corre": il C. si sarebbe dunque dichiarato inventore di un "contachilometri". Che egli fosse in grado di realizzare un prototipo di tale strumento dì misura non è affatto improbabile, dato il suo interesse per l'orologeria, attestato dal Garzoni.
Una seconda testimonianza del Tassoni (ibid., X, 26) ci introduce alla discussione su quella che potrebbe essere l'invenzione più interessante di Colorni. Nel brano citato si parla di un architetto del duca Alfonso II, il quale "fece duemila archibugi che caricati una volta sola fanno dieci tiri seguiti": possiamo ritenere che egli fosse questo architetto. La testimonianza del Tassoni concorda infatti ampiamente con quella del Garzoni, che attribuisce al C. l'invenzione di un archibugio capace di sparare (anche se non dieci) quattro o cinque colpi consecutivi.
Troviamo dunque in pieno sec. XVI un'arma a ripetizione: è ovvio chiedersi come dovesse funzionare. Le testimonianze citate non suggeriscono minimamente l'ipotesi di un'arma a canne multiple, e tanto meno a canne rotanti; tale ipotesi è poi definitivamente esclusa da una terza testimonianza, che inoltre conferma altrettanto definitivamente come qualche inventore - e non si può pensare ad altri che al C. - avesse dotato le truppe estensi di una nuova arma. Rivolto alla ricerca di alleanze per la casa estense, Alfonso II nascondeva il vero fine della propria attività diplomatica dietro il pretesto di voler costituire un'alleanza europea per muovere guerra ai Turchi, e gli argomenti propagandistici per tale guerra sono oggetto delle istruzioni che Alfonso inviava nel 1595 e 1596 agli ambasciatori ducali. In tali istruzioni sono citati due volte certi archibugi e moschetti diversi dai soliti, cioè capaci di sviluppare un volume di fuoco quattro volte superiore (e ciò concorda con la testimonianza del Garzoni), e tali da poter essere realizzati modificando le vecchie armi: è appunto questo fatto ad escludere l'ipotesi di un'arma a canne multiple o rotanti. Resta da appurare se questa invenzione, che possiamo attribuire al C., fosse originale: mentre è notizia vaga quella secondo la quale un'arma analoga sarebbe stata notata a Venezia nel 1583, è invece certo che nel 1572 l'armaiolo milanese Marco Antonio Valgrana costruì un archibugio capace di sparare più colpi in successione. Non è però possibile stabilire se il suo funzionamento fosse analogo a quello dell'arma del C. e se questi fosse a conoscenza dell'invenzione milanese: pur riconoscendo l'anteriorità di questa non si può dunque parlare di plagio. L'archibugio del C., anche se posteriore a quello del Valgrana e citato per la prima volta da Alfonso Il nel 1595, doveva essere in dotazione alle truppe estensi già da vario tempo: la testimonianza del Garzoni è del 1585, mentre d'altra parte il C. aveva lasciato Ferrara per Praga fin dal 1588.
Si è già detto come il C. godesse fama di mago: probabilmente egli era un abile manipolatore. Fu forse tale dote a fargli acquistare un'altra particolare rinomanza: quella di essere capace di evadere da qualsiasi cella, da qualsiasi locale chiuso, quali che fossero le serrature e i catenacci che ne bloccassero le porte. La sua abilità nelle evasioni determinò il suo trasferimento a Praga.
L'arciduca Massimiliano d'Asburgo, fratello dell'imperatore Rodolfo II e pretendente al trono di Polonia in contrapposizione a Sigismondo Vasa, era stato sconfitto in battaglia e dal gennaio del 1588 si trovava prigioniero di Sigismondo: un certo Antonio Funech, che prima di passare alle dipendenze di Rodolfo aveva lavorato alla corte estense e qui aveva conosciuto il C., ebbe allora l'idea di far convocare quest'ultimo presso la corte imperiale, al fine di architettare la fuga di Massimiliano.
Anche se il progetto non ebbe seguito, il C. si stabilì a Praga a partire dall'aprile del 1588: il suo originale talento dovette trovare facilmente adeguato inserimento entro la schiera di alchimisti, di astrologi, di artisti dalle svariate inclinazioni che popolavano la pittoresca corte di Rodolfo. Non poté tuttavia avere subito il primo incontro con l'imperatore, perché appena giunto a Praga si ammalò, e soltanto nel luglio poté essere ricevuto da Rodolfo. Seguirono altri numerosi incontri, nei quali il C. sottopose all'attenzione dell'imperatore le proprie realizzazioni.
Per quanto generosamente ospitato, il C. non percepiva dalla corte imperiale stipendio alcuno: a Ferrara giunsero numerose sue lettere, allo scopo di ottenere che la corte estense continuasse a versargli il suo precedente stipendio, per poter provvedere alle necessità della famiglia, rimasta in Italia (si apprende così che il C. aveva numerosa prole, anche se si conosce il nome di un unico figlio, Simone). Pur risiedendo a Praga, egli rimase dunque alle dipendenze di Ferrara.
A Praga il C. realizzò un cifrario per volgere in codice i carteggi diplomatici. L'invenzione è probabilmente del 1591: in tale anno infatti, su sua istanza, l'ambasciatore veneto Giovanni Dolfin informò della cosa il proprio governo. Voltosi dunque alla crittografia, nel 1593 il C. compose e dedicò a Rodolfo uno scritto su questo argomento: Scotographia, overo scienza di scrivere oscuro, facilissima et sicurissima per qualsivoglia lingua et con privilegio di quasi tutti i Potenti Christiani, pubbl. a Praga, presso G. Sciumam, 1593. Tuttavia altro doveva essere la divulgazione generica dei principî di crittografia e altro la realizzazione di veri e propri cifrari: e appunto uno di questi dovette essere inviato al duca di Mantova per mezzo di un certo Marcantonio Avegni, il 12 marzo 1593, insieme con una lettera in cui si dà notizia dell'invenzione.
Dopo alcuni anni di soggiorno a Praga il C. cominciò ad avere a noia la corte imperiale e a sentire il desiderio di rientrare nella città natale: nel luglio del 1593 e poi ancora nel maggio del 1595 scriveva al duca di Mantova, chiedendogli di intercedere per liberarlo dagli impegni verso Rodolfo e verso Alfonso (che continuava a stipendiarlo) e di consentirgli di rientrare a Mantova. Gli si offrì tuttavia l'occasione di mutare sede verso la fine del 1596, quando fu invitato a Stoccarda da Federico, duca di Württemberg. Per trasferirsi dovette richiedere il permesso di Alfonso, dal quale pur sempre dipendeva: ottenutolo, ricevette un secondo invito, da parte di Sigismondo Bathory, principe di Transilvania, ma dovette rifiutare. Passò dunque a Stoccarda, pur rinnovando poco dopo le proprie istanze per rientrare a Mantova.
Soltanto vario tempo dopo la morte di Alfonso (1597) Vincenzo Gonzaga, per mezzo del figlio del C., Simone, chiese a Federico di rimandare a Mantova il proprio ospite. E si trattava ormai di un ospite forzato. Il 6 maggio 1598 fu risposto che il C. avrebbe potuto tornare a Mantova soltanto dopo aver condotto a termine un lavoro che - sosteneva Federico - egli si era impegnato a eseguire, mentre da parte sua il C. negava di aver assunto qualsiasi impegno. Egli si era probabilmente, e imprudentemente, vantato di conoscere un metodo per l'estrazione del salnitro su vasta scala, ed essendo il salnitro indispensabile per la preparazione della polvere da sparo il fatto poteva rivestire un interesse militare non indifferente. Evidentemente il C. non fu capace dì conseguire i risultati sperati, ma, per Federico, egli avrebbe dovuto riuscirvi ad ogni costo: il C. fu virtualmente posto agli arresti e trattenuto in prigionia dorata, sotto la minaccia di non essere più rilasciato fino alla completa attuazione del programma di estrazione dei salnitro.
L'unica soluzione rimastagli era la fuga, che egli attuò nel marzo del 1599. Rientrato in Italia, transitò da Modena e infine raggiunse Mantova, sempre inseguito dalle richieste di arresto di Federico, che però non ebbero seguito. Non poté tuttavia godere a lungo del ritorno in patria: morì infatti a Mantova verso la fine dello stesso 1599.
La sua fuga provocò una lunga contesa diplomatica tra il duca di Mantova e Federico, che non potendo più pretendere la consegna del C. esigeva ora quella del figlio Simone. Ricevuti vari rifiuti, riuscì infine a ottenere, in cambio di appoggi diplomatici a Mantova, che Simone passasse al suo servizio.
Fonti e Bibl.: Si veda la lett. al C. di T. Garzoni anteposta a T. Garzoni, La Piazza universale delle professioni del mondo, Venezia 1595; le testimonianze di Tassoni nel libro X dei Pensieri diversi (capp. 18 e 26) si possono vedere in A. Tassoni, Paragone degli ingegni antichi e moderni, II, Lanciano 1919, pp. 79, 149. Vedi inoltre: G. Tiraboschi, Storia della letter. ital., IX, Modena 1781, pp. 178 s., 188; A. Ricci, Storia dell'archit. in Italia, III, Modena 1860, p. 176; A. Bertolotti, Architetti, ingegneri e matematici in relazione coi Gonzaga signori di Mantova nei secc. XV, XVI e XVII, Genova 1889, pp. 68 s.; A. D'Ancona, Le origini del teatro ital., II, Torino 1891, p. 399; G. Jarè, A. C., ingegnere del sec. XVI, in Atti e mem. della Dep. prov. ferrarese di storia patria, VI (1891), pp. 255-312; Mantova. Le lettere, II, Mantova 1962, pp. 463-65.