aborto
Interruzione della gravidanza prima del 180° giorno; va distinto dal parto prematuro, che è l’espulsione del prodotto del concepimento tra il 196° e il 265° giorno.
Numerose cause, anche concomitanti, possono portare all’a. spontaneo: cause ovulari (o cromosomiche); cause materne generali (endocrine, tossiche, influenza di fattori ambientali, malattie sistemiche, infettive, autoimmuni); cause materne locali (alterazioni dello sviluppo dell’apparato genitale, incontinenza cervicale, tumori, sinechie endouterine). L’incidenza di alterazioni cromosomiche, sia numeriche che morfologiche, è di circa il 50% negli a. spontanei che si verificano nel 1° trimestre e di circa il 20% in quelli del 2° trimestre. Anche le alterazioni cromosomiche riscontrate nella coppia possono essere causa di patologia abortiva. Tra i fattori ambientali, hanno effetti nocivi in partic. l’esposizione a radiazioni ionizzanti (il periodo più critico corrisponde alle prime due settimane di gestazione), alcuni farmaci (per esempio antagonisti dell’acido folico) e abitudini di vita come il tabagismo e l’alcolismo. I suddetti fattori, per vie diverse, realizzano il distacco dell’uovo dalle pareti uterine, cui seguono le successive fasi (contrazioni uterine, dilatazione del collo, ecc.) che conducono all’espulsione del prodotto del concepimento. La minaccia d’a. decorre con emorragia, lievi dolori, scarsa dilatazione del collo e integrità dell’uovo. L’a. in atto è caratterizzato da grave emorragia, dolori intensi, dilatazione dell’orifizio uterino ed espulsione dell’uovo o di parti di esso, nel caso dell’a. incompleto. Si parla di a. abituale quando l’a. si ripete a ogni gravidanza: ne sono cause predisposizioni costituzionali e condizioni morbose varie.
Può essere attuato a scopo terapeutico o per interrompere volontariamente una gravidanza. L’a. terapeutico può essere preso in considerazione in caso di malattie gravi della gestante, qualora il proseguimento della gravidanza rappresenti un pericolo per la vita o la salute della madre, oppure quando sia accertato che a carico del prodotto del concepimento sussistano alterazioni cromosomiche che testimoniano l’esistenza di una grave malattia ereditaria.
L’aborto indotto, detto più precisamente interruzione volontaria della gravidanza (IVG), viene effettuato ogni anno nel mondo su oltre 40 milioni di donne, nella grande maggioranza dei casi nel corso del primo trimestre di gravidanza. Spesso l’IVG è praticata illegalmente, in condizioni di scarsa igiene e con metodi primitivi. Si parla in questo caso di aborto pericoloso (unsafe abortion) e si stima che esso provochi annualmente il decesso di circa 200.000 donne. L’interruzione volontaria della gravidanza è stata legalizzata in Italia con la legge 194/78 che specifica le condizioni e i tempi entro cui l’IVG può essere praticata. La legge parte dall’affermazione che l’IVG non è, né deve essere, un metodo per la pianificazione o il controllo delle nascite e distingue chiaramente le ragioni per cui l’IVG può essere praticata durante il primo o il secondo trimestre (quindi entro, o successivamente, ai novanta giorni dall’ultimo flusso mestruale).
Esistono due modalità sostanzialmente diverse per l’esecuzione di una IVG. La prima è definita aborto chirurgico e consiste nello svuotamento mediante aspirazione del contenuto uterino. Viene comunemente eseguita in anestesia generale, ma è possibile effettuare l’intervento anche in anestesia locale (blocco paracervicale). Previa dilatazione del canale cervicale, si introduce la cannula in modo che, penetrati nel sacco gestazionale, si procede all’aspirazione di tutto il contenuto.
La seconda modalità, l’aborto farmacologico (o medico, o chimico), è considerata una tecnica appropriata fino a 9 settimane (63 giorni), di prima scelta fino a 7 settimane (49 giorni), non raccomandata per epoche superiori. Consiste nella somministrazione di due farmaci: il primo è costituito da un antiprogestinico (RU 486 o mifepristone; CDB 2914 o ulipristal) oppure da un farmaco (metotrexato) con specifica citotossicità verso il trofoblasto, il tessuto che permette gli scambi tra madre e concepito. Il secondo è rappresentato da una prostaglandina (misoprostolo) in grado di espellere il prodotto del concepimento dopo la sua morte.
La metodica oggi disponibile consiste nella somministrazione di mifepristone alla dose di 200 mg seguito da misoprostolo 400 µg per via orale o 800 µg per via vaginale. L’espulsione avviene entro 24÷48 ore dall’applicazione della prostaglandina.
Va detto innanzitutto che, quando la legge entrò in vigore nel 1978, il ginecologo doveva di necessità basarsi sulla data dell’ultima mestruazione riferita dalla donna; oggi le tecniche ecografiche sono in grado di stabilire con notevole approssimazione la data del concepimento. Poiché di norma esso avviene due settimane dopo l’inizio di un flusso mestruale, il medico è in grado di stabilire autonomamente la possibilità di eseguire una IVG. La legge specifica che «la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito», può rivolgersi a una struttura abilitata ad hoc dalla Regione.
Riguardo alla IVG la legge italiana precisa che «essa può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna».
Le due modalità hanno un obiettivo fondamentalmente diverso: nel primo caso si tratta di aborto terapeutico, nel senso che esso è praticato per salvare la vita della donna (per esempio, di fronte a una condizione cardiaca acuta, a un tumore maligno che progredisce tumultuosamente, ecc.); nel secondo si tratta invece di salvaguardare la salute psichica della donna, che potrebbe nel corso degli anni deteriorarsi gravemente di fronte alla necessità di accudire un figlio con disabilità grave. Quindi la legislazione italiana non ammette il cosiddetto aborto eugenico (cioè quello volto a eliminare un feto con gravi anomalie fisiche) e la possibilità di eseguire l’IVG al secondo trimestre resta esclusivamente legata alla previsione di un grave danno psichico della madre. Ciò nonostante un’esperienza trentennale documenta che la legge è stata applicata in maniera estensiva, praticamente a tutti i casi di malformazioni gravi evidenziate.
Va sottolineato che nel caso dell’aborto terapeutico esiste, logicamente, l’obbligo di rianimare il neonato ogni volta che sia possibile. Infatti, in questo caso la donna desidera la maternità e l’intervento è praticato esclusivamente per salvarle la vita. Diverso è il caso con presenza di malformazioni: in questa eventualità, sia pure indirettamente, l’IVG è praticata per eliminare un feto affetto da gravi anomalie; è quindi assurdo estrarlo per poi rianimarlo. È questo il motivo per cui, saggiamente, la legge prevede che questo tipo di IVG non possa essere praticata quando il feto ha presumibilmente raggiunto la vitalità.
Nel caso dell’aborto indotto al secondo trimestre, vi è stata un’evoluzione da metodiche chirurgiche a metodiche farmacologiche. Oggi sono utilizzate le prostaglandine, somministrate per via intramuscolare o endovenosa. La metodica non è priva di rischi e va eseguita solo in centri appositamente attrezzati.