ABITUDINE (fr. habitude; sp. hábito; ted. Gewohnheit; ingl. habit)
Il latino habĭtus si riconnette ad habere "avere, essere fornito", sicché habitus viene a significare "modo (di essere) che si ha" (cfr. il greco ἕξις "attitudine", da ἔχω "ho") o modo che si è finito per acquistare e che ci è solito (e a una radice *su̯edk "solere" da cui anche il latino solere, si riferisce il greco ἔϑος "abitudine, costume, moralitài)). Abito è anche l'abbigliamento esterno, e abitazione è la dimora abituale, solita.
Tuttora, in un'accezione volgare, "educare" è sinonimo di "bene abituare, accostumare". Ma il problema etico-pedagogico dell'abitudine si è venuto complicando, ora estendendosi e ora restringendosi il significato e la portata dell'abitudine a traverso molti secoli di esperienze e di riflessioni politiche, psicologiche, fisiologiche, biologiche, sociologiche, speculative. E sull'abitudine si è soprattutto riflettuto in epoche di crisi e di riforma razionale o di tentata restaurazione dell'educazione del costume. E poiché l'abitudine si presenta da un lato come un processo che è prodotto di una causalità naturale, dall'altro come un processo volontario, la concezione dell'abitudine e del suo valore educativo è variata in rapporto al significato che si è assegnato alla natura e alla conservazione e alla assimilazione per rispetto all'iniziativa e all'inventività nello sviluppo dello spirito.
Dopo la crisi illuministica e intellettualistica provocata dai sofisti e da Socrate, Aristotele svolse, nel mondo antico, la prima teoria storicamente decisiva sull'abitudine. E la svolse mentre era tratto a ritenere che l'appetito naturale, particolare, quale fondamento del volere, non avesse in sé intrinseca la ragione, non possedesse una razionalità immanente, e che quindi, anche se potenzialmente ben disposto, esigesse, ai fini della virtù etica, di essere ricostituito in una seconda natura che fosse come un prodotto naturale e sociale della ragione. L'abitudine gli si offerse, allora, come l'attività capace di adempiere questa funzione conformatrice, disciplinatrice degli appetiti e delle passioni naturali. E gli parve che si potesse acquistare con la ripetizione e l'esercizio di atti conformi, appunto, a ragione, anche se non ispirati da un tale proposito in chi li compie. Così l'abituazione anche forzata dei fanciulli concluse dovesse precedere l'istruzione nel corso dell'educare; e il costringere gli uomini, vita durante, a buone abitudini, giudicò fine delle leggi.
Riavvalorata e teorizzata, anche con vario riferimento ad Aristotele, nel Medioevo e nella Rinascita e nella Controriforma, l'abitudine tornò ad imporsi come principio formativo fondamentale in quella direzione empiristica del pensiero moderno, che pure si contrapponeva alla razionalistica, in una radicale volontà di dissolvere criticamente le abitudini storiche di pensiero e di azione - costumi, istituzioni, tradizioni - che facevano appello a principî innati della ragione. Quanto più esplicitamente si faceva base d'ogni sviluppo umano la natura sensibile, tanto più doveva cercarsi una legge intrinseca al senso, che rendesse conto delle più complesse formazioni psichiche e culturali. E allora, a principio formale ultimo della spontaneità sensibile, si presentava l'abitudine. Così, semplice perfezionatrice delle attività dell'anima, e simulatrice opportuna, per opera della prima educazione, di principî innati, in Locke (1693 e 1695), l'abitudine già spiegava e giustificava biologicamente in Hume (1739), con le aspettazioni che veniva a suscitare, la credenza nel mondo esterno e nei nessi causali. Ed essa spiegava a Condillac (1746 e 1753), come conseguente a condizioni diverse di esercizio della sensibilità, lo stesso specificarsi delle attività psichiche diverse: sicché abitudine individuale apparivano la stessa percezione sensibile e l'istinto; e al suo svilupparsi l'"io della riflessione" avrebbe dovuto soprattutto analizzare criticamente l'"io dell'abitudine". Helvétius poi (1758) spiegava con prime diverse abitudini individuali passivamente acquisite, e perciò come solo apparenti, le differenze di comportamento psicologico dei varî individui, e faceva quindi onnipotente l'educazione mediante l'azione ambientale.
A difesa di una certa originalità dello spirito, Maine de Biran era tratto a distinguere (1803) dalle abitudini passive le abitudini attive. Ma tosto, tenuto conto degli effetti fisici, oltre che psichici, dell'abitudine, Lamarck (1808) e poi C. Darwin (1859) potevano spingersi a presumere che gli organismi fossero venuti sviluppando variamente gli stessi loro organi da forme più indifferenziate, in funzione di abitudini fissate dall'eredità, e che per questa via le specie si fossero venute differenziando. E Haeckel poteva riportare (1866) le concordanze ontofilogenetiche alla tendenza a ripetersi delle abitudini acquisite dalla specie, nel costituirsi dell'individuo; e Spencer poteva (1864 e 1870-72) ricondurre ad abitudine ereditaria sia l'istinto sia l'a priori mentale. E nell'atmosfera spenceriana (Murphy, 1889) veniva a risolversi esplicitamente l'associazione delle idee - come base di tutti gli sviluppi psichici - in un caso della legge fisio-psichica dell'abitudine, per la quale le azioni e i caratteri degli esseri viventi tendono a ripetersi e perpetuarsi nell'individuo e nella specie. Così l'abitudine appariva biologicamente e psicologicamente sovrana: potere fissante e associante, selettore e formatore, ma anche dissociatore e riformatore: potere, insomma, di conservazione, ma anche condizione di progresso. Ed ecco, il Groos (1889) era in grado, allora, di riassumere la funzione dell'infanzia, la quale si esercita giocando, in un riadattamento degl'istinti mediante il loro sviluppo e perfezionamento in abitudini socialmente adeguate.
Intanto, contro le originarie aspirazioni illuministiche dell'empirismo, la ricerca sociologica era tratta a rivalutare l'uso, la ripetizione, che, conformando i singoli in abitudini collettive, in costumi, fa possibile la vita sociale. In ciò potevano convenire pensatori d'indirizzo diverso, dallo Jhering (1877-83) al Durkheim, al Tarde (1890), il quale concludeva che con la ripetizione imitativa si continua, nella sociologia, quel processo formativo che è di abitudine individuale ed ereditaria nella psicologia e biologia, ed è di capacità vibratoria nella materia vivente. Da Ardigò (1893), dallo stesso James (1892) e da Sergi (1892) e Lombroso (1897) a Pavlov (1904, 1912) e Watson (1914), l'educazione poteva apparire riforma, o addirittura sostituzione, d'istinti, di abiti atavici, di riflessi primitivi, con abitudini socialmente utili.
Ma la mera abitudine non può spiegare il costume. E l'analisi psicologica ha dovuto sempre più rendersi conto che le abitudini si mostrano casi di semplificazione adattativa (che, richiedendo sempre meno attenzione, si fa automatica e subconscia) di un'attività che pur esige, per esplicarsi, conscia inibizione e iniziativa, selezione e riforma continua. E cioè, il processo dell'abituarsi si è venuto rivelando non essenzialmente diverso da quello dell'imparare intelligente, che implica alla sua volta un costituirsi di abilità, correlative anche all'esercizio che abitua. Né efficace ai fini dell'abilità si è mostrata la mera ripetizione. E allora, o si è dichiarato non coincidente con l'abitudine l'esercizio, nel quale si è vista una esplicazione e ripetizione volontaria di atti capace di rendere anche più finemente consapevoli di sé le attività esercitate, dove nell'abituazione, come ripetizione involontaria e inconsapevole, si accentuerebbe l'automatismo, l'incoscienza (P. Bergemann, 1905); o si son venute abbandonando le idee dell'abitudine conseguibile con un esercizio comunque attuato, anche a forza. E se Thorndike parlava ancora (1906 e 1913) del potere di una semplice legge di frequenza, L. Morgan (1898) insisteva sulla necessaria mediazione selettiva del successo che dà piacere. E oggi daccapo Watson ha presunto sufficiente il ripetersi del successo effettivo, a prescindere dal piacere, ma senza riuscire persuasivo. In ogni caso il meccanismo ripetitivo, in cui così variamente si tende a risolvere l'esercizio, non vale a spiegare il fatto della conquista selettiva, inventiva, di abitudini utili, né spiega il tempo lunghissimo che richiedono i meri allenamenti o addestramenti meccanici e la loro labilità; né il fatto che lanciarsi con decisa energia, obbligarsi moralmente, non concedersi eccezioni, in ispecie nei primi passi, sia necessario, come ha mostrato il James (1891), per procacciarsi nuove abitudini e abbandonarne vecchie. Perciò Ferretti insisteva (1919) che, già nel neonato, le prime abitudini siano in funzione dell'interesse a cogliere e mantenere determinati rapporti; e che l'esempio non abitua il bimbo, se non a condizione di rispondere a sue esigenze di attività, e di essere rivissuto come valore. E nello stesso senso Kofka (1922) ha rilevato, come indispensabile all'acquisizione di abitudini, l'interesse al costituirsi più o meno intelligente e sagace dell'esperienza. Anche negl'idioti, l'abitudine è apparsa in funzione delle tendenze spontanee (Philippe, 1907; S. De Sanctis; G. C. Ferrari). E il Koelher ha creduto di poter provare (1917) che l'abituarsi è persuadersi, anche negli animali. Ugualmente fatti di volontà (compressa, rimossa, e fissatasi come inconscia) ha scorto la psicoanalisi (Freud) in fondo a molti abiti morbosi (tic, manie, perversioni), guaribili col riportarsi ad autocoscienza. L'abitudine - si è indotti, insomma, a concludere - non risulta mai da un semplice subire l'effetto involontariamente selettivo di azioni ripetute. Essa è un organizzare in sé comportamenti, ed esige sempre, in una qualche misura, un esercizio attivo, uno sforzo coerente, un intimo controllo.
Questa consapevolezza psicologica - che le più critiche suggestioni biologiche e sociologiche tendono a rafforzare, rilevando lo sforzo per adattarsi (Lamarck), e non solo la variazione accidentale, ma la lotta selezionatrice (Darwin) come condizione dell'abitudine, e la rispondenza ad esigenze formali (De Sarlo, Ferretti) come condizione del costume - trae a riconoscere, già in sede empirica, l'insufficienza del dualismo pedagogico che oppone abitudine e riflessione. Essa scuote la recisa distinzione tra scuole di cultura, come di mera ricerca intellettuale, e scuole elementari e professionali, come di mero allenamento abitudinario; e invita ad abbandonare la presunzione tradizionale dei passaggi metodici dal meccanico (o mnemonico) all'intelligente, dall'esercitativo al riflessivo (nella lettura, nel calcolo, ecc.), o, infine, dalle buone abitudini imposte alla condotta ragionevolmente morale. Tanto più che - come provano nell'esperienza ordinaria certe intemperanze di collegiali emancipati, e come Mac Dougall ha teorizzato (1923) contro una vecchia tesi posta da Bichat sotto l'autorità sua (1800) - l'abito, se può farsi impulsivamente efficace in funzione dell'istinto più o meno accentuato, non è di per sé un principio motore.
Ma, mentre si svolgeva la direzione del pensiero moderno empirico-naturalistica, le correnti che miravano a spiegare lo sviluppo umano in funzione di un'attività originale, libera, di principî direttivi ideali intrinseci alla soggettività e se mai legislativi essi verso la natura, dovevano tendere a ridurre e a subordinare il significato e l'importanza dell'abitudine. Così, già in nome del criterio naturale e insieme ideale del sentimento, e del valore dell'azione da esso guidata, Rousseau (1762) faceva il processo all'abitudine, come a facile via di pigrizia e di asservimento dell'individuo a bisogni artificiali, o all'arbitrio degli altri, sin dalla più tenera età. Nel combattere tali pericoli, era tratto a dichiarare, anche contro Locke, che convenisse non abituare i fanciulli né all'obbedienza in genere, con la scusa d'insinuare così in loro un estrinseco sostituto di ragionevolezza, né a comportamenti determinati, ma che convenisse abituarli, se mai, a non abituarsi, tanto più che la vita esige riadattamenti sempre nuovi. D'altra parte, egli concedeva che fossero da favorire positivamente abitudini quali esplicazioni della spontaneità naturale, in rapporto alle necessità elementari di adattamento fisico ed anche sociale e "per preparare il regno della libertà". E insisteva che, pur nel riformare cattive abitudini, bisognasse soprattutto rendere intimamente insostenibile, in forza di nuove esigenze di vita vissuta, l'atteggiamento che le sosteneva, non potendosi costituire par force quelle abitudini véritables che sono abitudini de l'âme. Kant alla sua volta, ritrovando il principio dello sviluppo nelle esigenze formative razionali dell'io, era tratto a svalutare l'abitudine, ma poiché, nel suo eticismo, riaccentuava il dualismo tra sensibilità e ragione, e tra spirito e natura, era tratto a chiedere (1797) una disciplina negativa dell'abitudine, che prevenisse, nei bimbi, il trasformarsi di talune inclinazioni in abiti passionali ostanti al farsi valere della ragione. E Fichte, se pure faceva posto (1798) ad abitudini che scaturissero da una fantasia assecondante la libertà autocosciente, tendeva a risolvere sempre più (1807) la relativa passività dell'abitudine nel rinnovato sforzo dell'attività originaria dell'io per superare il già fatto, la natura. Solo più tardi, Hegel, in uno sforzo educativo e politico di senso restauratore, chiedeva al dialettismo, per cui l'idea doveva mediarsi come natura e per cui l'individuo doveva naturarsi come società, il principio per riavvalorare l'abitudine individuale e l'abitudine collettiva, il costume. L'abitudine, egli dichiarava, è un momento difficile nella organizzazione dello spirito. È lo spirito che si meccanizza. Ma, senza di essa, il soggetto non può essere immediatezza concreta; quindi la forma dell'abitudine abbraccia tutte le specie e i gradi dell'attività dello spirito. E l'abitudine del diritto, della moralità ha il contenuto della libertà: è liberazione concreta dalle affezioni sensibili. Dunque conviene che la prima educazione morale del fanciullo sia fatta in maniera paternalistica, mediante il suo assoggettamento all'ethos. La speculazione ulteriore ha trovato appunto la grande importanza del problema dell'abitudine nel fatto che questa si presenta come un naturalizzarsi dello spirito. Come un "atto che non passa" la vedeva Rosmini (1838); e insisteva che solo la volizione attuatasi una volta, se rimane nell'animo un proponimento esplicito, o almeno implicito, di volere il suo oggetto, si fa abituale. E la volizione abituale, profonda, segreta, fa buoni o cattivi. Ma, come nasce da elezione, così la libera elezione può distruggerla. E Ravaisson (1838) rifletteva nello stesso senso: l'alterazione apparente che un fenomeno esterno ripetuto o continuato apporta nell'essere vivente, si fa meno intensa, divenendo abituale, mentre l'alterazione prodotta in lui da un esercizio spontaneo attivo aumenta con l'abitudine. Così gli stessi caratteri opposti, che l'abitudine presenta nei due casi, la dimostrano momento d'un processo per cui il vivente tende ad esaltare la spontaneità propria. E non si abitua che il vivente, perché l'abitudine suppone possibile un mutamento come sforzo volontario, ed è essa stessa il perseverare di una volontà che, perseverando, passa dal personale all'impersonale. Nell'abitudine c'è un essere di fatto che pur non esorbita dall'intelligenza, che è anzi un'intelligenza immediata, una necessità non esterna, bensì di desiderio: volontà come natura. Nel processo dell'abitudine, pertanto, la coscienza che vi si ripieghi, può spiegarsi il passaggio dallo spirito alla natura e la possibilità di un riascendere della natura allo spirito. Tale dottrina ha avuto sviluppi congeniali in Renouvier (1859), in Boutroux e in Bergson (1896-1907). E analogamente, dopo Schelling e dopo Fechner (1851), Wundt, pur intento ad una ricerca di senso naturalistico, dichiarava (1889) che il volontario che si fa meccanico nell'abitudine, e, viceversa, l'abitudine riassunta dalla volontà consapevole, costituissero il problema metapsicologico fondamentale, atto a riaprir l'adito ad una filosofia dello spirito come realtà che in sé comprende la natura, a far pensare che i presunti meccanismi fisiologici naturali si risolvano in prodotti di un'attività organizzatrice spirituale. E traducendo la "variazione" e l'adattamento di senso biologico in movimenti psicologici, e questi in significati d'uno sviluppo ideale della vita, Royce (1903) si dava a spiegare tutta la vita psichica in funzione d'una docilità, o di una formazione di abiti nel campo di ogni attività della coscienza, attribuendo tuttavia a questa il loro principio d'invenzione e di riforma. Di sviluppi analoghi nell'idealismo italiano d'oggi sono accenni in Carlini (1922) e in Ferretti (1922).
Tanto la ricerca d'intenzione naturalistica quanto la idealistica concorrono, pertanto, nel loro sviluppo, a dar risalto a un concetto dell'abitudine come conquista attiva e inventiva della volontà, come momento non di mera causalità meccanica, ma di spiritualità che, nel suo esplicarsi innovativo, si media del già raggiunto, o della ripetizione. E inducono a scartare il concetto d'una educazione come passiva abituazione. Ma assegnano all'abitudine la funzione subordinata di fissare e organizzare le tendenze, i propositi intelligenti, le conquiste inventive e volontarie, di "naturare" reazioni coscienti complesse e nuove, nuovi sentimenti e aspirazioni, nel carattere; di rendere possibile, così, un attendere della coscienza a compiti nuovi, in un suo sempre più ampio e coerente esplicarsi (cfr. Ferretti, 1909 e 1928; Binet, 1911). Contro l'ingenua opinione tradizionale, e contro la teoria aristotelica rinnovatasi di fatto anche in molti sviluppi del naturalismo, si dimostra, dunque, che la via normale dell'educare non è in un passaggio dall'abitudine all'intelligenza, ma piuttosto in un passaggio dalla spontaneità che già sentendo sceglie, e dalla volontà intelligente, dall'invenzione, anche all'abitudine, per lo sviluppo di nuovi sentiti propositi, per nuova intelligente volontà, per nuova espansione e riforma.
Bibl.: Aristotele, Eth. Nic., II, 3, 5 e V, 2; X, 9, 2, ecc.; J. Locke, Letters on Education ed Essay on Understanding, II, 33, 1-6; D. Hume, Treatise, I e II ed Essays, II; É. de Condillac, Traité des animaux, II, 5; C. A. Helvétius, De l'Esprit, II, 24; Maine De Biran, Mémoire sur l'habitude, 1803; G. Tarde, Les lois de l'Imitation, Parigi 1890; W. James, Psicologia, trad. ital., 2ª ed., Milano 1905, cap. IV; Watson, Behaviour, 1914, p. 257 segg.; L. Morgan, Habit and Instinct, Londra 1898; Ravaisson, L'abitudine in Saggi Filosofici, trad. it., Roma 1917; A. Renouvier, Traité de psychologie rationnelle, 2 voll., Parigi 1912; W. Wundt, Grundr. der Psychologie, Lipsia 1898, XIV, 10; XIX, 3; id., System der Philosophie, Lipsia 1897, VI, i; G. Ferretti, L'Uomo nell'infanzia, Città di Castello 1922, pp. 13, 24, 139 segg.; A. Binet, Idées modernes sur les enfants, Parigi 1911.