Abate di San Zeno
D. designa con queste parole il protagonista di un episodio del Purgatorio (XVIII 112-119), dal cui testo si desume soltanto che si tratta del monastero di S. Zeno di Verona, e che il personaggio visse sotto lo 'mperio del buon Barbarossa. Dalle ricerche storiche relative alle chiese di Verona pubblicate dal Biancolini, risulta che abate del monastero benedettino di San Zeno ai tempi di Federico I (1152-1190) era un non meglio identificato Gherardo II, del quale in molte carte (citate dal Biancolini) si fa menzione e specialmente in una del 1187, anno in cui pare sia morto. Succedendo a un Nobilio, deceduto forse nel 1160, resse dunque il monastero per più di un quarto di secolo e pare sia stato investito dall'imperatore della giurisdizione di vari villaggi del Veronese, e forse anche di altri privilegi, in compenso della buona accoglienza da lui e dai suoi monaci fattagli in occasione di un suo passaggio per Verona. Da quanto attestava un'iscrizione sepolcrale, a noi purtroppo non pervenuta, pare che questo abate abbia fatto costruire anche un nuovo campanile per la chiesa del suo monastero.
Altro di lui non si sa; e meno, d'altronde, seppero i commentatori antichi della Commedia, i quali furono parchi di chiose al riguardo e si contentarono di parafrasare quel che dice il poeta. Secondo Benvenuto, Landino, Vellutello, Daniello, questo abate di San Zeno si chiamava Alberto (Giovanni, invece, secondo l'Anonimo), e fu, stando alle Chiose Vernon, " uomo di santa vita [" vir bonus moribus et vita " lo dice pure Benvenuto]; ma regnava in lui... vizio di pigrizia come fa il più dei frati per la troppa grassezza "; non dissimilmente Pietro Alighieri annotava: "vitium accidiae multum inter claustrales frequentatur ".
La carenza di notizie e di rilievi atti a qualificare storicamente il personaggio rende quanto mai ipotetica però l'identificazione; sicché giustamente il Porena (e con lui altri commentatori) suppone si tratti di un mero pretesto escogitato da D. per poter così stigmatizzare il contegno immorale e iniquo di un ben noto abate di quel monastero, Giuseppe della Scala (v.). Se la figura dell'accidioso abate risulta nell'episodio storicamente scolorita, non altrettanto può dirsi dell'episodio in sé. L'incontro con gli accidiosi si svolge in un clima lunare, rotto dalle voci delle anime che gridano correndo esempi di sollecitudine e di accidia punita. E D., che già inclinava al sonno, pago delle spiegazioni elargitegli da Virgilio sul libero arbitrio, viene così indotto a prender atto della nuova schiera. Di contro alla sonnolenza di D. l'ardore che sprona gli espianti a correr senza tregua è più che significativo, espresso com'è dalla voce dello spirito che si qualifica per l'A. di San Zeno, vissuto in un'età in cui ancora le due autorità alle quali, per D., è commessa la salvezza del genere umano, erano entrambe efficienti, e la 'cupidigia e l'abuso di potere non avevano ancora rovinato i monasteri. Di tutta la scena e del colloquio avviato da Virgilio, D. è spettatore muto ma attento; e l'invettiva che ascolta contro Alberto e Giuseppe della Scala può essere intesa come monito aperto e solenne a che egli faccia tesoro della lezione tenutagli poco prima dal maestro. L'A. non è che la voce viva della verità e della coscienza; la sua personalità poetica e artistica si risolve nella sua ferma denunzia.
Nel giro di due terzine si assommano gli elementi dell'accusa e del dispregio, la profezia e l'anatema, e ancora un'angoscia profonda, di chi constata l'avvenuta profanazione di un luogo santo (San Zeno) nella sua memoria e nel suo cuore. Dinanzi agli occhi suoi allora il futuro sta aperto come un libro, ed egli già può leggervi la pena cui andrà fra poco incontro il profanatore: la vita, la morte, la dannazione di Alberto si proiettano l'una dopo l'altra nella parola del veggente, e l'invettiva contro Giuseppe, come ben dice il Tarozzi, ha qualcosa di biblico e insieme di pagano. Sarà da notare infine, in questo episodio, la presenza di un tema fondamentale del poema, sia pure espresso come "in sordina " (annota giustamente il Padoan): la volontà di consacrare di nuovo, nella prevaricazione commessa da Alberto, la netta distinzione tra il potere politico e quello religioso, e la loro reciproca autonomia, a così breve distanza dalle parole di Marco Lombardo.
Bibl. - G. B. Biancolini, Notizie storiche delle chiese di Verona, v, Verona 1761, 161; F. Salsano, Il canto X VIII del Purgatorio, Torino 1963; G. Tarozzi, Il canto XVIII del Purgatorio, in Lett. dant. 1025 ss.; G. Padoan, Il canto XVIII del Purgatorio, Firenze 1964.