PRAXIAS, 3° (v. vol. VI, p. 431)
Come si è a lungo supposto, è con ogni probabilità con questo P. che si deve identificare lo scultore ateniese di cui riferisce Pausania (X, 19, 4), il quale tuttavia non ne indica il patronimico; egli fu il maestro della decorazione dei frontoni del Tempio di Apollo ricostruito a Delfi dopo la catastrofe del 373 a.C. Nella succinta descrizione di questi frontoni, in cui erano rappresentati a E «Artemide, Latona, Apollo e le Muse», a O «Helios, Dioniso e le donne denominate Thiadi», il Periegeta precisa che «le prime di queste statue» erano state eseguite da P., il quale, tuttavia, per il protrarsi della costruzione del tempio, sarebbe morto prima di poter completare l'opera; perciò, la realizzazione delle «figure restanti» fu affidata a un altro scultore, Androstene, anch'egli ateniese. Dunque il testo non consente di delimitare così chiaramente come si è in generale fatto l'operato di ciascuno dei due artisti: tutto quel che si può affermare è che il frontone E è essenzialmente opera di P., ma non si può escludere che egli abbia iniziato la lavorazione anche di quello O, né d'altronde che Androstene abbia dovuto completare certe figure del frontone principale. Tuttavia l'allusione di Pausania alla lentezza della ricostruzione del tempio - i conti dei naòpes mostrano che essa non giunse alla fase conclusiva prima del 339 a.C. e non fu completata che nel 330 a.C. - fornisce una preziosa indicazione cronologica: essa implica che tra l'ordinazione dei frontoni e la morte di P. erano intercorsi alcuni anni, facendo così apparire la morte dello scultore come un evento naturale, dovuto all'età avanzata, che non siamo in grado di stabilire con precisione, ma che non ci consente di accostare il P. di Delfi con il P. menzionato settant'anni prima nei conti dell'Eretteo (v. vol. VI, s.v. Praxias, 2°), e rende poco verisimile un'identificazione con P. figlio di Praxias (v. vol. VI, s.v. Praxias, 4 la cui attività non è documentata prima del terzo quarto del IV sec. a.C., mentre il figlio di Lisimaco sembra fosse già ben conosciuto in Attica intorno al 370 a.C. A ogni modo, qualsiasi fosse la sua età all'inizio dei lavori, lo scultore dei frontoni di Delfi non poteva essere stato, come sostiene Pausania, «allievo di Kalamis», ossia del celebre bronzista della prima metà del V sec. a.C.: è questa una difficoltà del testo che nessuna delle soluzioni proposta finora ha permesso di superare. Poiché, anche se l'esistenza di un «Kalamis» sembra attestata da un passaggio di Plinio (Nat. hist., ΧΧΧΙV, 71), si tratterebbe di un contemporaneo di Prassitele (v. vol. IV, s.v. Kalamis, 2°) che ben difficilmente avrebbe potuto essere il maestro di uno scultore nato sicuramente prima della fine del V sec. a.C. Quanto alla correzione di Καλάμιδος in Καλλιμάχου (Homolle), essa sembra oggi, così come i confronti con i rilievi neoattici sui quali D. van Buren aveva creduto di poterla fondare, troppo gratuita per essere presa in seria considerazione.
In ogni caso, per avere un'idea della formazione di P. e del suo stile, disponiamo ormai di documenti di prima mano: gli stessi frammenti dei frontoni, che Homolle credeva perduti, ma che un riesame sistematico dei fondi del museo di Delfi e dei depositi di pietre del santuario ha permesso di identificare nel 1971. Progressivamente raggruppati e almeno parzialmente ricomposti negli anni successivi, i resti delle figure dei timpani viste da Pausania sono oggi decisamente abbondanti (c.a 150 frammenti, in alcuni casi torsi più o meno completi) e sia l'iconografia sia lo stile sono tanto caratteristici da autorizzare un tentativo di restituzione dei due frontoni. A E, ossia sul lato che la tradizione, all'epoca di Pausania, attribuiva a P., un Apollo assiso, forse sull’omphalòs, ma più probabilmente sul tripode, era affiancato dalle due figure stanti di Artemide e di Latona; su ambo i lati si disponevano le Muse, stanti, assise o accovacciate in uno scenario roccioso. A O Dioniso è raffigurato stante in mezzo alle Thiadi, ripartite in due gruppi di cinque e ritratte in atteggiamenti adeguati alla loro collocazione nell'ambito del frontone. Le due composizioni non erano pertanto né particolarmente originali, né molto diverse l'una dall'altra, e ci si può chiedere se Androstene, cui in base al testo di Pausania si attribuisce generalmente il frontone O, non abbia fatto altro che portare a compimento l'esecuzione di un programma concepito dal suo predecessore.
Cionondimeno, Dioniso e le due Thiadi meglio conservate riflettono una maniera diversa da quella delle figure del frontone E: il panneggio delle Muse e dell'Apollo produce effetti di chiaroscuro, in una tradizione che può ancora considerarsi post-partenonica, mentre qui le grandi pieghe appiattite, separate da stretti solchi e come schiacciate sul corpo, evocano direttamente alcune opere contemporanee, come la Stele di Ramnunte o la Demetra di Cnido, alla quale il Dioniso di Delfi è notevolmente affine anche per la struttura della testa e l'espressione del volto. Non sappiamo nulla di Eukdamos, che secondo Pausania sarebbe stato il maestro di Androstene, ma i documenti di Delfi suggeriscono che quest'ultimo potrebbe aver frequentato, occasionalmente, una bottega più prestigiosa, quella di Leochares.
L'impressione d'insieme che si ricava dai frammenti di Delfi, a E come a O, è quella di un lavoro affrettato, a volte negligente, in cui la finitura fu deliberamente limitata al minimo indispensabile. Ma questa mediocrità tecnica deriva più da disinvoltura che da mancanza di abilità, poiché se P. e Androstene non erano maestri di primo piano, non possono essere considerati come dei semplici adattatori. Va inoltre tenuto conto delle difficoltà finanziarie che sembra abbiano ostacolato la ricostruzione del tempio fino alla fine. Il fatto che le statue dei frontoni erano state sommariamente sbozzate sulla faccia posteriore, evidentemente per alleggerirne il peso su richiesta dell'architetto, lascia intravvedere qualche incoerenza nell'organizzazione del cantiere. Che questa sia da porre in relazione o meno con la morte di P., essa spiega senza dubbio il motivo per cui i frontoni, con ogni probabilità, non furono messi in opera che dopo il 330 a.C.; un recente riesame dei conti ha permesso a J. Bousquet di stabilire che in ogni caso il pagamento delle sculture, in moneta attica, non ebbe luogo che nel 327 a.C.
Bibl.: F. Croissant, J. Marcadé, Sculptures des frontons du temple du IVe siècle, in BCH, XCVI, 1972, pp. 887-895; J. Bousquet, Inscriptions de Delphes, ibid., CVIII, 1984, pp. 695-698; F. Croissant, J. Marcadè, La sculpture en pierre, in Guide de Delphes. Le Musée, Parigi 1991, pp. 29-147, in part. 77-84.