Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il 6 maggio 1527 le truppe imperiali di Carlo V saccheggiano Roma, costringendo papa Clemente VII alla fuga: nel mondo cristiano crolla la certezza dell’inviolabilità della Città eterna e del papa stesso. Per la storia dell’arte il Sacco è un importante spartiacque, in quanto chiude una ricca stagione sperimentale limitata a Roma e segna l’avvio dell’espansione europea del manierismo seguita alla diaspora degli artisti.
Premessa
Il conflitto che dal 1521 oppone la potenza imperiale asburgica di Carlo V alla monarchia nazionale francese vede il papa Clemente VII schierarsi al fianco del re Francesco I di Francia nella Lega di Cognac (1526). Quest’atto politico spinge l’imperatore a radunare in Italia truppe formate in gran parte da mercenari spagnoli e tedeschi di fede luterana (i lanzichenecchi).
Questi, esasperati dal mancato pagamento del soldo e animati da un forte sentimento antipapale, decidono autonomamente di entrare a Roma il 6 maggio 1527, costringendo il papa a una ritirata precipitosa in Castel Sant’Angelo.
La cristianità è sconvolta da quest’evento traumatico e inimmaginabile, come testimoniano le parole di Francesco Guicciardini: "Tutte le cose sacre, i sacramenti, e le reliquie de’ santi, delle quali erano piene tutte le chiese, spogliate de’ loro ornamenti, erano gittate per terra; aggiungendovi la barbarie tedesca infiniti vilipendi" (Storia d’Italia, libro XIII, 1537-1540). Da questo momento nulla tornerà come prima: anche se dal punto di vista politico quest’azione non sortirà nessun cambiamento di rilievo, le coscienze rimarranno profondamente segnate dal sovvertimento di certezze fino ad allora incontrastate.
Per comprendere appieno l’importanza del 1527 come punto di svolta per la storia dell’arte italiana ed europea è però necessario fare un passo indietro ed esaminare la situazione a Roma negli anni immediatamente precedenti il Sacco.
Lo stile clementino
Il pontificato di Adriano VI di Utrecht (1522-1523), improntato al rigore e alla moralizzazione delle gerarchie ecclesiastiche, determina una brusca interruzione delle attività artistiche a Roma, aggravata dal diffondersi di un’epidemia di peste che allontana molti artisti dalla città.
Rimangono a Roma poche personalità di rilievo, tra cui i discepoli di Raffaello – Giulio Romano, Giovanni da Udine, Polidoro da Caravaggio) e Sebastiano del Piombo. Il clima cambia dopo appena venti mesi quando, cessata la peste, l’ascesa al soglio pontificio del colto e raffinato Clemente VII della famiglia Medici riaccende le speranze dei più giovani e dotati talenti artistici. Il 1524 è l’anno cruciale: da Firenze torna a Roma dopo un anno di assenza Perin del Vaga e arriva anche Rosso Fiorentino che in patria si è già affermato come uno dei portabandiera dello "sperimentalismo anticlassico". Da Parma giunge l’elemento nuovo, il giovane Francesco Mazzola, detto Parmigianino: "scoperto" dal datario Matteo Giberti, una delle figure più influenti della curia romana, viene presentato al papa che rimane folgorato dalla qualità delle sue opere. L’interesse per le arti nutrito dal pontefice incoraggia il suo entourage (lo stesso Giberti e il segretario Paolo Valdambrini) a raccogliere attorno alla corte papale una sorta di cenacolo, in cui brillano le personalità dei nuovi arrivati, Rosso e Parmigianino. Si tratta di un ambiente raffinato e colto, che favorisce i contatti e l’emulazione reciproca tra gli artisti più scelti. In questo clima nasce il linguaggio che lo storico dell’arte André Chastel ha definito "manierismo clementino": uno stile ultraricercato, le cui audacie formali sfidano e superano i termini classici del bello codificati all’inizio del secolo.
Rosso Fiorentino
L’opera emblematica del Rosso Fiorentino del periodo clementino è il Cristo morto sorretto da angeli (1525), dipinto per il vescovo aretino Leonardo Tornabuoni.
L’influenza della volta della Cappella Sistina di Michelangelo si riflette nell’idea di bellezza come valore assoluto che assume anche un significato morale.
Di qui la fortissima tensione estetica del dipinto che si incentra nella fisicità del corpo di Cristo, simbolo dei misteri dell’Eucarestia e della Passione.
Secondo parte della critica, il tema viene interpretato dal Rosso sulla scorta della mistica dell’amore divino, elaborata da quella corrente riformista della Chiesa che vede tra i suoi sostenitori proprio il datario Giberti.
Parmigianino
La Visione di san Girolamo, dipinta da Parmigianino tra il 1525 e il 1527, è stata descritta da Chastel come composizione di paradossi: la posizione di ciascuno dei personaggi ha infatti qualcosa di anomalo o di incoerente. Questo fa sì che l’attenzione dello spettatore si concentri non tanto sul significato della scena quanto sul dinamismo, sugli slanci verticali e sulle complicate torsioni dei corpi. Parmigianino porta un contributo decisivo alla formazione della koiné espressiva di questi anni: è attraverso l’influenza del suo stile fluido e accattivante che l’eredità di Raffaello (sostenuta in primo luogo da Perin del Vaga) e le inquietudini del primo anticlassicismo fiorentino (introdotte a Roma dal Rosso) potranno incontrarsi dando luogo a una sintesi originalissima.
Sebastiano del Piombo
Sebastiano del Piombo è uno degli artisti preferiti da Clemente VII, che si fa ritrarre da lui prima e dopo il Sacco. Proprio nella ritrattistica nel terzo decennio del Cinquecento l’arte del pittore veneziano raggiunge un grado di sofisticazione che lo avvicina alle esperienze degli altri protagonisti degli anni clementini, pur così differenti per temperamento ed esperienze. È soprattutto la resa virtuosistica dei tessuti e degli oggetti, spesso ottenuta con l’accostamento di sfumature diverse di uno stesso colore, a suggerire l’idea di tour de force stilistico. Tra i ritratti spiccano quelli del papa, di Andrea Doria, di Anton Francesco degli Albrizzi, tutti eseguiti attorno al 1526. Quello di Pietro Aretino, lodatissimo da Giorgio Vasari per la resa della veste attraverso "cinque o sei sorte di neri", è oggi in pessime condizioni.
Polidoro da Caravaggio
Il culto per l’antichità, che era cresciuto a Roma negli anni di Giulio II e Leone X, attrae anche gli artisti clementini. È il caso di Polidoro da Caravaggio che, formatosi nell’équipe raffaellesca, tra il 1524 e il 1527 cambia il volto di Roma decorando facciate con motivi militari all’antica (la "maniera marziale", secondo la definizione di Giovanni Paolo Lomazzo, 1590). Le decorazioni monocrome che ornano dozzine di palazzi romani con scene di trionfi militari e battaglie ispirate ai rilievi di età imperiale – di cui oggi non restano che disegni e incisioni – sono dipinte con una vitalità e una fantasia ormai lontane dai criteri di fedeltà archeologica di un Raffaello o di un Giulio Romano. L’opera più rivoluzionaria di Polidoro sono le Scene della vita delle sante Maria Maddalena e Caterina, affrescate sulle pareti della cappella di fra’ Mariano Fetti nella chiesa di San Silvestro al Quirinale (1524-1525). Tra le prime prove di paesaggio puro dell’arte italiana, questi affreschi uniscono in modo libero e spregiudicato il revival dei paesaggi illusionistici dipinti con tocco rapido e vibrante nelle dimore tardoimperiali e il naturalismo dei pittori nordici presenti a Roma.
Dimenticate per secoli dopo il Sacco o cancellate dal tempo, quelle di Polidoro sono opere tra le più innovative degli anni clementini.
Gli artisti durante il Sacco
Il sacco di Roma ha lasciato molte tracce nella storiografia contemporanea, che tende a descriverlo come la catastrofe dopo la quale nulla sarebbe tornato uguale a prima. Per quanto riguarda la storia dell’arte la fonte primaria è naturalmente Vasari, che registra i cambiamenti che sconvolsero la vita e l’opera di ciascuno degli artisti presenti a Roma nel fatale 1527. L’incisore Marco Dente da Ravenna e Maturino, collega di Polidoro, perdono addirittura la vita; Rosso Fiorentino, Baldassarre Peruzzi e Perin del Vaga devono in qualche modo sottostare alle angherie di lanzichenecchi e spagnoli prima di riuscire a fuggire; Parmigianino, miracolosamente risparmiato dai soldati, anch’essi conquistati dalla sua arte, viene riportato a Parma in tutta fretta dallo zio.
Di alcuni artisti rimane la testimonianza diretta del segno profondo lasciato dagli eventi del 1527: si vedano ad esempio i capitoli XXXIV-XXXVIII della Vita (1559-1562), in cui Benvenuto Cellini narra l’assedio vissuto in prima persona al fianco del papa in Castel Sant’Angelo, o la lettera (1531) in cui Sebastiano del Piombo confessa a Michelangelo: "non mi par essere quel Bastiano che era avanti il Sacco".
All’indomani del Sacco si verifica quella che viene comunemente definita la "diaspora degli artisti", che produrrà effetti dirompenti per lo sviluppo dell’arte in Italia e nell’intera Europa.
Parmigianino ripara nella natia Emilia, dove dà vita all’ultimo sussulto di stile clementino: la Madonna di Santa Margherita (1528-1529) e la Madonna della Rosa (1529-1530) presentano ancora i caratteri di distillata eleganza tipici delle sue opere romane. Perin del Vaga cerca rifugio presso i Doria di Genova, per cui affresca il palazzo gentilizio: la nuova tipologia decorativa stabilita a Roma dalla bottega raffaellesca riscuote nella città ligure un immediato successo. Il pittore fiorentino torna a Roma nel 1538 e diviene uno dei protagonisti della ripresa artistica sotto Paolo III Farnese.
Polidoro da Caravaggio si stabilisce nell’Italia meridionale (prima a Napoli e successivamente a Messina), dove assorbe le influenze locali, mutando in senso anticlassico ed espressionistico il proprio modo di dipingere. Giovanni da Udine, invece, torna in Friuli.
La città di Venezia accoglie soprattutto architetti e scultori, come Sebastiano Serlio e Jacopo Sansovino. Quest’ultimo, con la riqualificazione di piazza San Marco, aggiorna l’architettura lagunare con i più avanzati risultati del classicismo romano. Rosso Fiorentino, dopo un breve ritorno in Toscana, decide di accettare l’invito del re di Francia Francesco I a decorare la reggia di Fontainebleau: è il primo di una serie di artisti italiani – Francesco Primaticcio, Niccolò dell’Abate, Sebastiano Serlio, Benvenuto Cellini – che diffondono e determinano l’affermazione della maniera italiana prima in Francia e poi in tutta Europa. Questo fenomeno, che è stato definito "manierismo internazionale", assume fisionomie diverse a seconda dei paesi in cui viene trapiantato, ma è sempre riconducibile a quella creata dalla generazione dei pittori clementini e divulgata in grande misura dalle incisioni.
Lo storico dell’arte Federico Zeri (1989) ha osservato come proprio in virtù della diaspora degli artisti il manierismo poté espandersi quanto nessun altro stile dopo la caduta dell’Impero romano, divenendo la "lingua franca dell’impero asburgico".